Non sono stato contagiato dal virus pandemico e quindi non sono stato nemmeno conteggiato nel novero dei positivi, però non ho contratto neppure l’isterico entusiasmo dovuto alla vittoria calcistica dell’Italia. Non m’interessa il disinteresse né la sua ostentazione benché in modo del tutto incidentale traspaia da queste stesse parole. Ancora mi sfugge la ragione per la quale un’intera specie si affaccendi tra le proprie ingiustizie e le sempiterne esigenze delle rispettive omeostasi, ma capisco come una volta nati sia difficile togliersi il vizio d’invecchiare.
Non so se debba sorprendermi per qualcosa, ma all’uopo posso fingere meraviglia e concitata partecipazione per ossequiare i formalismi della prevedibilità. Non incorro né ricerco spiegazioni ultime per la pertinace espansione della vita, ma esprimo trascurabili e silenti perplessità al cospetto della sua ostinazione imperativa. A trentasette anni non mi metto a disegnare nuovi orizzonti né coloro le figure, bensì mi limito a ricalcare le didascalie che descrivono lo stato dell’arte, o meglio, l’incessante decomposizione a cui è sottoposta ogni cosa nella sua intrinseca deperibilità.
Per mezzo di deliberati errori matematici, il vittimismo eleva a potenza le miserie umane e così ne snatura la portata affinché la loro percezione cambi in ragione delle esigenze personali. Non mi sembra che l’oggettività sia oggetto di desiderio, ma se anche lo diventasse, allora il suo eventuale possesso sarebbe sempre parziale, come quando un’opera d’ingegno finisce dalle mani dell’autore in quelle di un acquirente. Le idee sono ingombranti e aumentano di volume con la polvere che raccolgono quando indugiano nella stasi astrattiva che è loro propria.
Quindi, in ultima analisi, cosa bisogna fare? In generale nulla, ma credo che sia una buona abitudine quella di usare il plurale maiestatis il meno possibile. Oscillo tra il fatalismo e la sua trascurabile negazione perché di fatto frequento quasi sempre una noncuranza di fondo e tanto mi basta anche quand’essa non paia affatto abbastanza.
I miei riti di passaggio: parte uno
Pubblicato mercoledì 9 Settembre 2015 alle 03:47 da FrancescoEventi inaspettati mi hanno fatto ricadere in turbini di amarezze e una luce lontana s’è eclissata ancor prima che potesse abbagliarmi. Devo affrontare tutto da solo perché al mio fianco non c’è nessuno, ma sono pronto a diventare centuria. Le parole saranno mie testimoni e compagne: io continuerò a scriverne fino all’ultimo giorno di questa odissea.
Attorno a me c’è odore di terra bruciata e nei dintorni vedo soltanto fuochi fatui, come funeree premonizioni che voglio sconfessare con il coraggio che mi resta e con gli entusiasmi che ancora devo raccogliere dai giorni più fruttiferi. Intanto sento il vuoto che si agita dentro di me, bestia acefala che sa comunque mostrare le fauci; questa fiera vuole divorarmi dall’interno, ma fiera è anche la mia indole. Ci sono notti in cui rischio di soccombere perché le spire di quell’essere mi avviluppano in strette mortali e se ancora riesco a liberarmene lo devo solamente ad una forza interiore che forse mi porto in dote da un’altra vita: non me la spiego in nessun’altra maniera. Shiva danza, così crea e distrugge, io invece lotto in un’arena dove le folle hanno occhi che non vedono, ma da quegli stessi spalti, e per la cecità degli astanti, dita accusatrici si tendono verso chi non vi si mescola. Tutto è dentro di me: il creato, che io creo, e la creazione, di cui sono reo. Mio è anche il nemico e la chiamata alle armi per scacciarlo dalle porte che costui minaccia.
Le trombe dei cherubini intonano un imperativo categorico che intima di vivere e quella melodia risuona piacevolmente tra le pareti del mio cerebro nonostante io sia un senzadio. È da quando sono nato che sono lontano dalle mie origini o forse da ancor prima, ma cerco di vivere questo esilio di carne come meglio posso e non ho intenzione di cadere per mia mano.
I tempi non sono ancora maturi perché io colga ciò che è nato con me, ovvero giorni di miele e pelle di pesca, perciò devo difenderne le radici, i rami e le alte fronde oppure tornare alla terra nell’ultimo degli autunni. Scrivo da insonne, con palpitazioni regolari, nell’apparente calma che avvolge l’oscurità o di cui forse quest’ultima si ricopre di sua sponte. Quanto manca ancora al prossimo caravanserraglio? Sento la nostalgia infinita di ciò che ero prima di nascere o forse mi lascio semplicemente confondere da una suggestione che ho còlto chissà dove, chissà quando. Mi faccio scudo con la lucidità e sferzo tutti i colpi che posso verso quella forza contraria che mi vuole estraneo da me. Mi sento come San Giorgio alle prese con il drago, però io non difendo la figlia di un re perché non conosco né nobili né donne: difendo me stesso, almeno per adesso.
San Giorgio e il drago di Vittore Carpaccio, 1502
Lungo queste pagine ho affrontato in più occasioni due aspetti della vita che non ho mai provato: l’amore e il sesso. Non ho nulla da aggiungere a quanto ho scritto finora e non intendo girare un altro video per ribadire gli stessi concetti. L’amore esiste ed è la più grande potenza interiore a cui l’uomo possa ambire, ma credo che non abbia nulla a che fare con le aspettative egoistiche che talvolta si annidano negli esseri umani. Io amo l’imparzialità e per questo motivo mi rifiuto di negare l’esistenza dell’amore. In diversi punti de “La Masturbazione Salvifica: Diario Agiografico Di Un Onanista” ho toccato questo tema e l’ho trattato con la riverenza che merita ogni opera monumentale della natura umana. Ho imparato ad amare me stesso e di conseguenza posso vivere serenamente senza amore, ma so che la sua assenza mi rende incompleto e mi limito a prenderne atto senza scadere in comportamenti di bassa lega. Una frase molto banale esprime perfettamente ciò che intendo: “Non si può avere tutto nella vita”. Ho ventiquattro anni e sono ancora giovane, ma credo ugualmente che alla mia età sia indicativa la totale estraneità ai rapporti affettivi. Mi limito a seguire la mia indole solitaria, tuttavia non la rafforzo con il più grande inganno che l’essere umano possa tessere contro di sé, ovvero la negazione dell’amore. Io sento continuamente le lamentele di alcune persone che sono profondamente condizionate dalle loro delusioni. I fallimenti sono fenomeni personali, soggettivi, privati, mentre l’amore è un dato di fatto che per alcune persone, compreso me, è ancora un’astrazione. Non cerco una verità assoluta, ma cerco di puntare sempre verso una posizione imparziale e per alimentare il mio moto morale devo sacrificare porzioni di Ego di cui ormai non mi importa nulla. Penso che la vita sia meravigliosa perché il suo svolgimento è soggetto a combinazioni infinite. Forse manca sempre qualcosa nella maggioranza delle esistenze umane, ma io sguazzo in questa carenza mutevole e spesso la identifico con una parola che adoro nel suo senso mistico: “Vuoto”. Amo la vita e di questi tempi non è poco; l’amo senza l’appoggio di un sentimento esterno e senza l’ausilio di una fede oppiacea. Le mie parole si ripetono come certe fasi del giorno che riescono ancora a stupire dopo miliardi di repliche.
Adopero l’indifferenza per schermirmi dagli scherni della spiritualità e mostro la mia indole materialistica per declinare ogni invito alle ricerche ultraterrene, ma non mi affido al nichilismo né ad altre scuole di pensiero. Apprezzo il vuoto e proteggo la sua vacuità dalle consolazioni nocive che galleggiano nel mondo in cui vivo, ma per agire in questo modo sono costretto a rimandare a tempo indeterminato certe acrobazie dei sensi. Identifico il vuoto con la mancanza di qualcosa e credo che sotto i suoi strati di sconforto si trovi uno strumento ostico per rinvigorire la personalità. Incontro qualche difficoltà semantica nella ricerca delle parole adatte per appuntare con precisione i vapori di questo geyser introspettivo e mi accingo a esemplificare brevemente quanto ho scritto in precedenza. Quando un individuo si accorge del vuoto che lo avvolge e guarda al suo interno egli può arrestare il suo sguardo davanti agli strati di sconforto e consumarsi in un vittimismo tanto deleterio quanto inutile, ma qualora il suo occhio riesca a penetrare la vacuità può cominciare a studiare i meccanismi di ciò che ancora non gli appartiene. Ad esempio quando una persona avverte la mancanza di amore può cristallizzarsi nella malinconia e nella nostalgia o può utilizzare la parte più profonda della sua mancanza (lo strumento ostico) per affinare la sua capacità di amare e credo che questa scelta avvenga in base a un’intuizione indipendente dal livello di erudizione. Suppongo che la felicità e la visione del mondo che essa porta con sé lambiscano la traiettoria della cultura, ma sono portato a credere che quest’ultima non sia fondamentale per raggiungere uno stato d’animo ben più pregiato di qualsiasi nozione del cazzo.