In questi tempi di facile sconforto ravviso un’idea predominante, la quale invero fa sempre da sfondo alle vicissitudini umane e ne costituisce l’orizzonte ultimo, perlomeno sotto la ristretta prospettiva biologica, ossia quello della morte.
In Ucraina esistenze innocenti vengono spezzate anzitempo dal braccio armato della politica estera e dalla tendenza alla sopraffazione che alberga negli uomini da sempre, benché in debite proporzioni e con rapportate capacità di nuocere: laggiù le persone non riescono a vivere; altrove, come in Italia, individui parimenti innocenti ma già consunti da malattie terminali o da condizioni simili, si vedono invece privati del diritto a una fine dignitosa.
Da una parte la vita non riesce ad affermarsi, perché la sua negazione più atroce per modi ed entità, ossia la belligeranza, si scatena e agisce anche contro coloro da cui è servita con riverenza; in astratta e speculare opposizione a questa inveterata circostanza, giacché la storia umana dimostra come i popoli abbiano eletto ad abitudine il reciproco annientamento, vi è l’impossibilità di morire per propria scelta, autodeterminandosi, per eludere sofferenze inutili.
I due piani si possono sovrapporre solo idealmente, tuttavia risuona in me questo paradosso: chi vuole abbracciare la vita non può farlo in quanto vi viene strappato con forza, chi invece la vita la vuole salutare in un ultimo rito di somma libertà e catartico distacco, è costretto a protrarre il proprio dolore in ragione di questioni puramente formali, politiche, ideologiche, per le quali non vi è morfina che tenga. In buona sostanza ma in cattiva sorte, al di là di quali siano le dinamiche specifiche di queste due situazioni, ossia la guerra e l’opposizione all’eutanasia, la morte ne è il tema comune, il fil rouge che Atropo, la più anziana delle Parche, recide troppo presto o troppo tardi. Si muore, soleva affermare Heidegger per riferirsi al concetto di si impersonale, ma la fine altrui in realtà invita sempre a riflettere sulla propria.
Quandunque il Sé si trasmetta in differita
Pubblicato giovedì 21 Ottobre 2010 alle 00:14 da FrancescoAnni fa mi denigravo giustamente. Se non avessi insultato me stesso non sarei mai riuscito a svegliarmi dall’apatia. Non ho mai trovato un maestro né qualcosa che potesse guidarmi, sennò avrei risparmiato un po’ di tempo. Ho sempre ricevuto esempi negativi che fortunatamente sono stati ottenebrati dalla mia lungimiranza. Anche quando ero sfiduciato e versavo nella mestizia in me sopiva la forza interiore che ancor oggi mi permette di camminare a mezzo metro di altezza. Potrei essere invulnerabile emotivamente, ma se assecondassi questa tentazione arrogante e arida dimostrerei soltanto una forma di debolezza meno palese, invece sono ancora disposto ad abbassare ogni difesa qualora delle circostanze eccezionali lo richiedano e proprio in questa capacità venata di consapevolezza io intravedo la parte migliore di me: non sono affatto freddo.
Il mio approccio ai sentimenti non è passionale né razionale, ma è dettato dall’unione di Psiche ed Eros alla luce del sole e non tramite incontri al buio come nell’opera di Apuelio o nelle usanze pulsionali delle decadi più recenti.
Il tempo non mi inganna più benché io qualche volta riesca a buggerare lui. Sono giovane, però comincio a rischiare di non vivere alcun trasporto emotivo e non mi faccio fregare da un timore che dovrebbe sorgere in me: fanculo, io lascio che divori le energie di qualcun altro. Il futuro è in divenire per definizione e così come non lo metto nelle mani di una cartomante, non lo depongo neanche sulle paure millantatrici che tra l’altro non trovano spazio nella mia lettura della realtà. Nei paraggi della mia persona, dalle anime in pena si levano cassandre esagerate e previsioni cupe, pare inoltre che per costoro ogni passo avanti debba essere seguito da un salto indietro. Mi disgusta questo leitmotiv depressivo e tendo a non dare fiducia a chiunque non l’abbia in sé. Spesso avverto grandi reticenze, sovente più assordanti delle verità che nascondono. L’onestà nei confronti altrui è auspicabile per vivere bene, però credo che quella verso sé stessi diventi addirittura imprescindibile per sventare certi disastri. Proroghe continue, rinvii ingiustificati e vari ricorsi a impegni abituali possono ritardare molto l’incontro di un individuo con i limiti a cui prima o poi dovrà dare udienza. Un tumore che viene lasciato ingrandire, un nemico a cui si concede il tempo di rinforzarsi: a terribili infermità porta la ferma decisione di lasciare altrettanto ferme le questioni insolute a livello interiore. Non critico la società poiché è troppo eterogenea per prestare il fianco a dei giudizi attendibili, però cerco di comprenderne una parte per non farmi contagiare dalla cecità volontaria. Lo ripeto per l’ennesima volta: io non pretendo di cambiare il mondo, d’altronde sarebbe un moto infantile di romanticismo, ma compio gli sforzi intellettuali e fisici per evitare che accada l’esatto contrario. Insomma, i conflitti intestini hanno ripercussioni sull’esterno e prima di puntare il dito contro gli altri forse un individuo dovrebbe domandarsi se non sia stato lui per primo a commettere l’errore di avvicinarsi a persone incompatibili. Talvolta l’incompatibilità è del tutto artificiale e viene evocata per negare qualsiasi valenza ad un’affinità che oltre alla gioia porterebbe anche la necessità di un confronto personale in uno dei soggetti interessati. Credo che nei veri inetti la felicità sia subordinata alla sopravvivenza di determinate istanze psichiche malgrado la parvenza di normalità e d’integrazione sociale che può risultare da un’attività febbrile in più campi o dalla semplice ripetizione di una routine cristallizzata.
Nei mezzi d’informazione forse la questione dei suicidi non viene affrontata spesso per evitare un aumento del tasso di mortalità, ma non sono rari i casi in cui una mancanza di insight porta alla morte come se si trattasse di una carenza organica. Forse una morte vivente insorge anche in coloro che si adattano alla tristezza e dunque l’adattamento a livello personale non rientra nei principi della selezione naturale perché quest’ultima, secondo me e limitatamente al campo emotivo, si spinge al di là di quanto è stato teorizzato per la sopravvivenza. Non compatisco chi decide di togliersi la vita sebbene per questa regola io preveda doverose eccezioni, contenute nel numero e mai nelle circostanze. Il suicidio fisico e quello emozionale per me rappresentano le lezioni più convincenti della natura per quanto riguarda la salvaguardia di sé stessi.
La mia vita procede bene e il mio equilibrio è ancora intatto, ma prima o poi dovrò affrontare gli eventi ineluttabili del tempo. Non temo il futuro perché conosco alcune cose che mi attendono e mi sono già preparato ad accoglierle. In “La Masturbazione Salvifica: Diario Agiografico Di Un Onanista” ho effettuato qualche volo pindarico sull’avvenire e anche questo ha contribuito a suggellare l’efficacia del mio lavoro introspettivo. Penso che sia fondamentale comprendere la finitezza dell’uomo. Io non sono immortale. Invecchierò, mi ammalerò e lascerò questa valle di lacrime, ma spero che tutto questo avvenga molto tardi perché io amo esistere. È possibile che la mia dipartita venga anticipata da una malattia grave o da un incidente mortale, tuttavia anche in questo caso faccio un massaggio apotropaico ai coglioni e mi auguro che nulla di tutto questo mi accada per il solito motivo: la mia venerazione nei confronti della vita. C’è un’onda d’urto che mi attende nel futuro e si tratta della morte di mia madre. Quando ero un bambino temevo che la mia genitrice potesse defungere improvvisamente ed ero terrorizzato da questa evenienza perché pensavo che nessun altro si sarebbe occupato di me, inoltre alcune storie di cronaca nera che udivo allora contribuivano ad alimentare le mie paure fanciullesche. Ormai sono adulto e vaccinato, ma so che la morte di una madre può avere un impatto emotivo molto forte sui figli e le depressioni profonde di alcune persone mi hanno fornito prove sufficienti al riguardo. Ho forgiato bene alcuni tratti del mio carattere e l’isolamento mi ha permesso di capire che non c’è nulla di tragico nel corso naturale delle cose, ma voglio rinforzarmi ulteriormente e per questo motivo una delle mie prossime letture sarà: “Attaccamento e Perdita. La perdita della madre” di John Bowlby. Il libro in questione è il terzo di tre volumi di psicologia che affrontano il tema dell’attaccamento, della separazione e della perdita della madre. Anche per un profano come me questi testi risultano utili e ho avuto modo di sperimentarne l’efficacia quando ho deciso di cominciare ad articolare la mia introspezione. Fatta eccezione per mia madre, sono abituato a vivere senza legami affettivi e di conseguenza posso elaborare ogni lutto senza troppi problemi. Non vorrei sembrare distaccato e freddo, ma la mia scrittura è monogama e le parole sono puttane. Trovo paradossale e magnifico che la mia ignoranza sentimentale abbia accresciuto la mia consapevolezza esistenziale. Potrei supporre che la sofferenza acuisca la mente e devo ammettere che in alcuni casi condivido questa ipotesi, ma non ho mai subito grandi dolori finora e credo che l’andamento ripetitivo della mia vita sia stato un humus perfetto per la crescita spontanea di una serenità rigogliosa.