I saggi storici di Hopkirk mi hanno indotto a soppesare La via per l’Oxiana, un libro di viaggio che ho finito per leggere con particolare piacere e coinvolgimento. Al di là della loro vocazione diaristica, anche nelle pagine di Robert Byron vi sono elementi di divulgazione in subordine alle vicende personali, una commistione questa che secondo me infonde un ottimo ritmo al testo e lo rende scorrevole benché sia piuttosto corposo.
La narrazione copre un arco temporale di undici mesi e comincia nel tardo agosto del 1933 in quella che una volta fu La Serenissima. Il modo di descrivere gli incontri e le situazioni, l’ironia più o meno velata con cui Byron rende conto delle proprie e delle altrui vicissitudini, così come lo stupore che talora prorompe dalla sua penna davanti a squarci paesaggistici o ad alcune opere architettoniche, a tratti mi hanno ricordato la scrittura di Tiziano Terzani al quale immagino che quest’autore non fosse sconosciuto.
Ho trovato interessante la sezione persiana che restituisce un’immagine del paese ancora lontana dalla rivoluzione di Khomeini, ma anche la parte dedicata all’Afghanistan mi è risultata utile per intuire da dove nasca e si trovi ancor oggi quella continuità che sta a fondamento dei suoi recenti “sviluppi”.
Mi ha divertito il giudizio negativo e inclemente di Byron sui Buddha giganti che furono scolpiti nella roccia a Bamiyan, infatti mi sono immaginato cosa egli avrebbe detto se avesse vissuto abbastanza per apprenderne la distruzione operata dai talebani nel 2001.
Oltre ai profili autoctoni, dal racconto emergono anche le tensioni politiche tra Russia e Regno Unito sebbene residuali rispetto a quelle raccontate dalla penna del già citato Hopkirk, perciò lo scritto contiene anche sporadici accenni al modus vivendi delle rappresentanze occidentali in un contesto così diverso dalle loro patrie. Per quanto breve, ho trovato pregevole e a mio parere stilisticamente eccelsa l’introduzione di Bruce Chatwin, un altro scrittore su cui prima o poi dovrò investire del tempo.
Come al solito, e per quanto possibile, ho integrato la lettura con la consultazione di mappe satellitari e fotografie recenti per ricavarne un’idea visiva dei luoghi descritti.
La via per l’Oxiana di Robert Byron
Pubblicato giovedì 30 Settembre 2021 alle 10:34 da FrancescoLa mia partenza è vicina. Tra qualche giorno sarò di nuovo in Italia e resterò uno straniero, però questa condizione mi aggrada e mi diverte. Ho compiuto una visita doverosa a Nara e l’ho trovata un po’ troppo a misura di turista, però questa impressione non mi ha impedito di apprezzarne l’atmosfera. Credo che ricorderò a lungo l’imponenza del Buddha (Daibatsu) che si trova nel tempio Todai-ji.
Durante gli ultimi giorni ho giocato a calcio. La prima partita l’ho fatta circa una settimana fa dalle parti di Ebisucho con alcuni ragazzini: per un pomeriggio mi sarebbe piaciuto riprendere a noleggio l’età che fu anche mia.
Recentemente ho scoperto il parco di Nagai e là ho trovato persone più grandi con cui giocare, perciò ho cominciato a frequentarlo per unirmi a partitelle con un maggiore coefficiente di difficoltà. Tra un match e l’altro ho conosciuto due inglesi e un giamaicano con i quali ho scherzato ampiamente sul Giappone, sui giapponesi e, più in generale, sul mondo intero. Finora all’estero sono sempre entrato in contatto con individui interessanti, ma d’altronde credo che una mente aperta costituisca un requisito importante per recarsi e sostare in certe parti del mondo senza negarsi a sé stessi né agli altri.
Torno volentieri nella mia terra benché uomini indegni di vivere la offendano sulle carte dei progetti ecomafiosi. In Italia regna l’ignoranza e talvolta chi le si oppone lo fa soltanto per interpretare un ruolo che gli permetta di prendere parte al gioco di società.
Una volta a casa dovrò scambiare qualche parola con il mio editore poiché c’è una questione contrattuale ancora aperta che ritarda la pubblicazione del mio secondo libro. Non mi piace affatto il mondo dell’editoria, specialmente quella parte in cui transitano gli scrittori emergenti, perciò sto pensando di farne a meno poiché esistono valide alternative per la distribuzione e io non ho alcuna pretesa in termini remunerativi né in termini di fama. Scrivo cose che vorrei leggere: questo è quanto. Entro la fine dell’estate potrei concludere il mio terzo libro poiché ho già scritto ventuno pagine e di solito mi fermo poco dopo le cento. Ho buttato giù qualche testo e vorrei registrarne almeno una parte su alcune basi di mio gradimento che ho raccattato un po’ di tempo fa. Ne farei volentieri a meno, ma nella musica italiana non ci sono molti testi che mi piacciano e dunque devo registrarmene qualcuno. Probabilmente sarò costretto a emulare quanto ho già fatto in passato per sopperire alle mie mancanze tecniche, tuttavia sono indeciso se ricorrere ad autotune o meno. In Italia ci sono ottimi musicisti, ma sono pochi coloro che riescono a dirmi qualcosa e il signor Brondi, per altro mio coetaneo, è tra questi. “Con le nostre discussioni serie si arricchiscono solo le compagnie telefoniche”.
Tra le strade, i pensieri e l’eterno ritorno
Pubblicato mercoledì 26 Gennaio 2011 alle 17:07 da FrancescoQualche giorno fa sono stato dalle parti di Shin-Imamiya, che assieme a Nishiniari è considerata una delle aree più pericolose di Osaka e dell’intero Giappone. In realtà la zona non presenta rischi e la sua nomea è ingiustificata, tuttavia pullula di senzatetto e disperati di vario genere che vagano storditi come dei morti viventi in mezzo alla sporcizia e al degrado. Durante la camminata ho avuto l’impressione di trovarmi in un manicomio a cielo aperto, ma con pazienti placidi, sedati dal dolore e dalla vergogna. La microcriminalità è pressoché assente. Insomma, nel caso in cui s’intendesse davvero classificare Shin-Imamiya come una zona pericolosa, allora bisognerebbe alzare (o meglio, abbassare) le quotazioni di altri posti sulla base della semplice fama, perciò lo Zen di Palermo, Secondigliano a Napoli o una qualsiasi banlieue dovrebbero essere equiparati all’Iraq.
Alcuni occidentali idealizzano molto il Giappone poiché fruiscono in maniera più o meno massiccia dei prodotti d’intrattenimento che alienano una buona parte dei giapponesi, insomma le bazzecole da otaku. Sono figlio degli anni ottanta, perciò ho guardato i cartoni animati nipponici, ho giocato con parecchi videogiochi del Sol Levante, ma almeno i manga, fatta eccezione per Jiraishin, non hanno attecchito su di me. Preferisco altre letture ai fumetti, tuttavia non voglio essere altezzoso e credo che le une possano tranquillamente convivere con le altre. La cortesia giapponese è rinomata in tutto il mondo e costituisce uno stereotipo vero, però è tremendamente meccanica e a tratti mi sembra davvero di trovarmi in un incubo orwelliano. In Italia certe volte pare quasi che il venditore venga infastidito dal cliente, mentre in Giappone quest’ultimo è sempre rispettato e riverito. Ho l’impressione che l’italiano medio confonda la libertà con la pretesa d’essere il centro dell’universo, mentre la controparte giapponese mi sembra soffocare in una spersonalizzazione vorticosa. Io non mi rivedo affatto nella società italiana né in quella nipponica e credo che siano le due facce della stessa medaglia. Ripeto: mi piacerebbe lavorare in Giappone per sei mesi o un anno (magari come lettore d’italiano), però non ci vivrei mai a meno di non essere costretto da cause di forza maggiore.
Qualche volta certi italiani mi chiedono come siano le donne giapponesi e le mie risposte a domande del genere si tingono sempre d’ironia. Cazzo, non conosco manco le italiane, cosa potrei mai narrare di quelle con gli occhi a mandorla e le gambe storte? Esteticamente non mi attraggono molto le ragazze asiatiche sebbene ve ne siano di avvenenti: comunque a me pare che sfioriscano presto. Non potrei mai avere una fidanzata orientale poiché ritengo la comunicazione un perno imprescindibile in un legame affettivo, sebbene qualcuno per confutarmi possa ricorrere alla retorica del linguaggio universale del corpo e delle emozioni. Ammesso che in futuro una ragazza entri nella mia vita, ho ragione di credere che costei sarà un’italiana (tale per sbaglio) o un’anglosassone. Se ragionassi con organi non deputati a farlo forse mi risolverei a studiare il finlandese. Per me la cultura è un elemento estetico, indipendente e allo stesso tempo notevolmente minore rispetto alla personalità di un individuo, e per poterne godere credo che non debbano esserci barriere linguistiche. Eros e logos sono simbiotici, ma qualcuno cerca sempre di contrapporre l’uno all’altro per rendere più sopportabile nei suoi legami la mancanza eccessiva di uno dei due elementi. Fottere senza parlare né capirsi è come parlare e capirsi senza fottere. Del triumvirato mi mancano due terzi, perché finora nella mia vita ho parlato, però forse non mi sono fatto capire (o magari io non ho capito) e per fottere i tempi non sono ancora maturi anche se i fiori cominciano già ad appassire. Inclinazione troppo cervellotica? Eh, beh: fanculo. Tra le tracce di vario genere che ascolto durante i miei vagabondaggi, ce n’è una particolare che in questi giorni metto in repeat piuttosto spesso per infondermi un po’ di sana malinconia, senza eccessi.
Kameoka, Arashiyama, Hozugawa e occhi azzurri
Pubblicato venerdì 21 Gennaio 2011 alle 16:50 da FrancescoSpinto dal desiderio di fare un giro sul fiume Hozu, due giorni fa mi sono recato a Kameoka. Per raggiungere l’imbarco sono dovuto passare da Kyoto, dove poi ho preso un altro treno della linea Sagano fino alla cittadina summenzionata. La mia scarsa conoscenza del giapponese mi ha permesso tuttavia di chiedere informazioni precise per arrivare alla banchina e, lo devo ammettere, sono stato davvero contento di essere riuscito a raccogliere un frutto piccolissimo dallo studio intermittente della lingua.
Il tragitto è durato quasi due ore, nel corso delle quali ho contemplato entrambe le sponde del corso d’acqua, a tratti persino innevate, ma spesso spoglie. Il fiume Hozu offre alcune rocce dalla foggia particolare, tuttavia queste non mi hanno impressionato granché e sono rimasto colpito dall’insieme degli elementi naturali più che da qualche dettaglio. Mi è piaciuta molto l’escursione e vorrei ripeterla durante una giornata primaverile, per farmi rapire dall’incanto roseo dei ciliegi fioriti che già una volta ha sequestrato i miei sensi: mai sindrome di Stoccolma fu più piacevole.
A cotanta bellezza, imponente e algida, s’è aggiunta una visione celestiale. Nel corso della traversata ho conosciuto due ragazze australiane, credo mie coetanee, con le quali tuttavia ho cominciato a parlare in modo più approfondito soltanto ad Arashiyama, quando siamo sbarcati. Insieme abbiamo visitato l’esterno del tempio Tenryu-ji e un bosco di bambù che ho trovato davvero meraviglioso.
Una di queste due ragazze aveva degli occhi azzurri in cui mi sarei perso volentieri per tutto il resto della mia vita, magari a bordo di un’arca, o di una zattera, o semplicemente a cavallo di un canotto gonfiabile a forma di coccodrillo. Inoltre sono stato colpito e affondato dalla nicchia in cui questo sguardo era custodito, ovvero nei lineamenti britannici della ragazza, esponenti essenziali di una normalità stupefacente senza il supporto friabile del make-up. Non mi era mai successo nulla del genere. Avrei voluto conoscere ogni cosa di quella cittadina australiana, parlarle per ore e ore, ma le nostre strade si sono separate alla stazione di Kyoto. Non ho neanche fatto in tempo a dirle quali rare sensazioni aveva suscitato in me, e credo che se lo avesse saputo almeno un po’ le avrebbero fatto piacere le mie parole. Diamine, se credessi al destino dovrei andare a prenderlo per la collottola e redarguirlo: “Oh, ma sono scherzi da fare brutto infame?”. Alla fine sono tornato a Shin-Osaka e poi da qui a Tennoji, dove ho comprato qualcosa da mangiare prima di rincasare ad Abeno. Durante il ritorno ho continuato a pensare a quella visione celestiale e, senza che ce ne fosse ulteriore bisogno, ho compreso quanto sarebbe stato bello condividere certi momenti con qualcuno. Ogni tanto mi pare che le coincidenze s’impegnino a ricordarmi quanto sembra che l’abitudine mi induca a dimenticare. Fino a quando certi eventi avranno una tal presa su di me, io non sarò mai solo pur essendolo fisicamente. Anche stasera, dopo una prima udienza con la rete cigolante del mio letto, lascerò il compito di conciliarmi con il sonno all’immagine che ho incensato finora.
Din don, un’altra comunicazione di servizio. Sospendo temporaneamente il silenzio stampa (che si concluderà del tutto al termine della stesura del mio terzo libro) per annotare la mia terza esperienza nipponica in una lingua che non sia ideografica, in modo che sia fruibile a qualcuno a cui in fondo lo devo. Questo è la prima parte di una serie di appunti che redigerò durante la mia permanenza. In futuro questa premessa scomparirà.
Sono arrivato a Osaka l’undici gennaio. Adesso risiedo in un monolocale che ho preso in affitto per un mese dalle parti di Abeno, nella zona meridionale della metropoli. Questa è la terza volta che metto piede sul suolo nipponico e mi auguro che non sia l’ultima. Ho scelto di ritornare in Giappone poiché ho trovato un biglietto aereo piuttosto economico, altrimenti avrei optato per la Malesia e per Singapore.
L’atmosfera cosmopolita di Tokyo per me rimane insuperabile, tuttavia Osaka ha un suo fascino. Più decadente e nostalgica della capitale, l’antica Naniwa mi ricorda un po’ Seoul. Ho già cominciato a macinare molti chilometri e finora sono ricorso poche volte alla metropolitana. Ho visitato il museo della scienza, nei pressi della stazione di Nakanoshima e quello di storia, prospiciente il castello di Osaka, anch’esso meta del mio vagabondaggio istruttivo.
La mia dieta ormai è basata su nikuman e onigiri, tuttavia la mia linea non ne risente poiché ogni giorno macino chilometri su chilometri con lo zaino sulle spalle. Se il consumismo fosse misurabile in metri, probabilmente quello che si estende lungo Tenjimbashi-Suji per oltre due chilometri e mezzo con negozi, ristoranti e quant’altro, ne costituirebbe una delle massime espressioni.
Le mie camminate in terra straniera assumono sempre le proporzioni dell’esodo biblico. Sono passato anche dalle parti di Namba, dove mi sono tagliato i capelli. La scrupolosità e il tempo impiegato mi ha fatto domandare se il barbiere avesse alle spalle un passato da chirurgo e sentisse la mancanze di quelle giornate che forse aveva trascorso in gran parte tra una nefrectomia radicale e l’altra. Ho filmato qualcosa durante questi primi giorni a Osaka e ho montato velocemente i frammenti digitali: nell’immediato futuro mi riprometto di fare altrettanto.
È trascorsa una settimana da quando sono tornato in Italia. Ho ripreso a correre, ma impiegherò un po’ di tempo per raggiungere nuovamente i ritmi che riuscivo a sostenere prima della mia partenza, intanto i miei polpacci sono imbevuti di acido lattico come non accadeva da tempo immemore. Adopero questo appunto breve per appuntare i filmati che ho girato durante l’ultimo viaggio.
Mancano due giorni al mio rimpatrio. In viaggio non porto mai la nostalgia e anche se volessi metterla nel mio baglio non saprei proprio con cosa riempirla. La malinconia non mi frequenta, anzi mi emargina perché spesso io siedo dove non le è consentito neanche entrare. I ritorni e le partenze mi seducono. Sono italiano fino a un certo punto. La mia permanenza sull’isola di Formosa è stata gradevole e istruttiva. Tra le altre cose ho assimilato nuovi ideogrammi e ancora una volta mi sono reso conto di quanta strada mi manchi per conoscerne almeno duemila. Taiwan è una nazione giovane, una delle figlie disconosciute dallo scorso secolo, ma come sviluppo della Cina che fu, preferisco la sua storia recente a quella coetanea della controparte continentale. Non voglio intrattenermi troppo sul passato geopolitico, perciò provvedo a dedicare qualche parola su quello personale, più prossimo alla data di oggi. Ieri sono andato a visitare la residenza di Chang Kai-shek e ho passato un po’ di tempo in un luogo dove pare che di tanto in tanto egli si fermasse a riflettere. Sono andato nuovamente al mercato notturno di Shin Lin dove ho scorto un chiosco che offriva carne di serpente, ma non ho degustato le interiora di un pitone: le condizioni igieniche mi hanno dato l’idea di un’orchestra che fosse preparata a eseguire tutte le sinfonie dell’epatite. In un negozio di articoli sportivi sono riuscito a comprare un paio di scarpe da running a un prezzo conveniente rispetto al costo italiano. In un altro esercizio commerciale ho acquistato una t-shirt, ma per farmi capire ho dovuto parlare con una bambina di circa dieci anni poiché i commessi non spiccicavano una parola d’inglese mentre la piccola se la cavava discretamente: è stata una scena che mi ha fatto ridere. Ho preso anche due libri. Uno è intitolato “The rape of Nanking”, tradotto anche in italiano con il seguente titolo: “Lo stupro di Nanchino” Si tratta di un testo sull’olocausto cinese che fu perpetrato dai giapponesi durante la seconda guerra mondiale e di cui pare che il mondo si sia dimenticato: oh, che globo smemorato. L’altro è un dibattito filosofico sulla neuroscienza: “Neruoscience & philosophy”. Tra le mie compere non poteva mancare un po’ di musica, d’altronde avrei commesso un crimine se avessi lasciato certi dischi sui rispettivi scaffali dopo averne constatato l’economicità. Tra questi c’è un live di Keith Jarrett, un lavoro classico di Henrich Ignaz Franz von Biber e qualche disco metal tra cui un capolavoro di due anni fa di cui desideravo da tempo una copia originale, ovvero “The Incurable Tragedy” degli Into Eternity, un album death metal che ruota attorno al tema delle malattie terminali.
Anche oggi ho fatto un po’ di shopping economico, ma la prima parte della giornata l’ho trascorsa dalle parti di Beitou, nei pressi delle terme naturali. Ho visitato un altro tempio, l’ennesimo: Puji. In un centro commerciale ho acquistato tre paia di bacchette (o chopsticks come le chiamano gli anglosassoni), due bicchieri e due ciotole con cui consumerò i miei pasti per i prossimi anni.
Sono soddisfatto del mio soggiorno a Taiwan, ma se avessi potuto prevedere il futuro, forse la mia destinazione sarebbe stata il Kirghizistan o la Thailandia. Insomma, riuscirò mai a trovarmi al posto giusto nel momento sbagliato per assistere a un golpe? Spero che il mio viaggio di ritorno abbia più fortuna del volo presidenziale che è costato la vita ai vertici politici e militari della Polonia.
Negli ultimi giorni il maltempo si è adagiato su Taipei, tuttavia né le nubi né le precipitazioni sporadiche di acqua piovana hanno compromesso il mio nomadismo urbano. Ho visitato il Sun Yet San Memorial. Nel luogo si trova un grande palazzo simile a quello che è stato eretto per ricordare Chang Kai-shek e tutt’intorno vi sono giardini curati che si offrono alla vista dei passanti. La presenza di un laghetto e gli spazi ampi attirano i praticanti di Tai Chi, le coppiette, le famiglie con prole al seguito e, un po’ distanti dalle categorie appena elencate, si possono incontrare anche degli anziani che in un ampio spiazzo dirigono i voli dei loro aquiloni all’ombra del Taipei 101.
“La linea orizzontale ci spinge verso la materia, quella verticale verso lo spirito”
Ho fatto un salto anche al mercato notturno di Shin Lin nel quale mi sono limitato ad acquistare due adesivi per il divieto di fumo. La folla presente per quantità e compattezza mi ha ricordato quella che occlude le arterie urbane di Roma ogniqualvolta quest’ultima si presti a una notte bianca.
A Taiwan le scuole mettono a disposizione della collettività le loro strutture sportive e finora non ho incontrato neanche un atto di vandalismo né al loro interno né in altri luoghi pubblici. Ho approfittato di una pista d’atletica per correre un po’ e oggi pomeriggio avrei dovuto giocare un’altra partita di calcio, ma la pioggia si è presa il cielo e la terra. Resterei ancora un po’ a Taipei se il visto e le finanze me lo consentissero. La città non ha nulla di speciale, però mi piace trafiggerla a piedi da una parte all’altra e la considero mansueta anche nelle ore di punta. Ravviso dei tratti di serenità e pacatezza in questa urbe che per me non ha nulla di peculiare tranne una calma malcelata. In metropolitana, tra uno spostamento e l’altro, ho quasi terminato la lettura de “La tentazione di esistere” di Emil Cioran e, nei minuti che di solito precedono il mio addormentamento, sono riuscito a scrivere qualche pagina per il mio secondo libro.
Nei giorni scorsi ho noleggiato una bicicletta per muovermi più velocemente e ieri sono andato al Taipei Zoo per trascorrere un paio d’ore a contemplare la natura in una campana di vetro. Ho visto un panda ‘ndranghetista che ho ribattezzato in questo modo perché mi è parso in regime di 41 bis a causa dello spazio angusto che gli è stato destinato. Ho immortalato la detenzione pubblica di vari animali tra cui: gibboni, macachi, giraffe, zebre, elefanti, rettili (specialmente serpenti), pinguini, gufi, e perfino una tigre del Bengala. Non mi hanno mai entusiasmato gli animali in gabbia né negli acquari, tuttavia riconosco il valore didattico di certi luoghi e allo stesso tempo non ne nego il carattere liberticida. Dopo la visita zoologica mi sono recato a Shipai per giocare una partita di calcio. Al match mancava soltanto il patrocinio dell’UNICEF poiché il campo ha sfoggiato molte nazionalità: un panamense, due statunitensi, un canadese, un messicano, diversi inglesi, uno spagnolo, un ragazzo di Singapore, un austriaco, un taiwanese e altre persone di cui non rammento né il nome né la patria natia. Eventi del genere rafforzano la mia inclinazione cosmopolitica. Insomma, la partita è stata un vero melting pot. Un mio coetaneo mi ha parlato un po’ di sé e mi ha raccontato di avere già due figli per i quali ha cambiato lavoro poiché il suo impiego precedente non gli permetteva di stare con loro quanto desiderava. Là in mezzo ero l’unico a non avere motivi di studio né di lavoro a Taiwan. “Just traveling” mi sono trovato a rispondere più volte. Dopo la partita ho fatto un po’ di strada assieme al panamense e allo spagnolo. Abbiamo scherzato sulla nostra natura latina e abbiamo concordato su un paio di punti. La gente a Taiwan è amichevole e intrattiene buoni rapporti con gli occidentali, tuttavia non c’è tra le persone autoctone e gli stranieri quel feeling particolare che invece è diffuso in Europa e nelle Americhe. Ho scherzato un po’ con il ragazzo panamense che si sorpreso quando gli ho ricordato il nome di un suo illustre connazionale: Manuel Noriega. Per certi versi ho trovato la conferma a un’impressione che ho appuntato qualche giorno fa su queste pagine al riguardo della sicurezza dell’isola e alla fine ho detto ai miei interlocutori: “Well, Taiwan is too sfae, it lacks of drama!”. Giù risate. Adoro momenti come questi, perle autentiche di socializzazione che scaturiscono dal caso; periodi brevi che brillano di luce propria. All’estero incontro sempre qualcuno sulla mia lunghezza d’onda e immagino che questo dipenda dall’inclinazione cosmopolitica a cui mi sono già riferito. Anche tra i miei connazionali figurano individui interessanti benché io ne conosca un numero esiguo, tuttavia mi ripeto sempre che gli sproloqui noiosi dei miei compatrioti, la loro mancanza d’autoironia e le loro fisime sono il prezzo da pagare per vivere nelle meraviglie paesaggistiche dell’Italia. Io sono l’ultimo dei campanilisti e ancor oggi continuo a dimostrarlo, ma per quanto mi è possibile cerco d’insidiare il podio ogniqualvolta l’obiettività si trovi ad attendermi al traguardo.
Taipei è una metropoli che nel corso della sua espansione non ha ignorato i bisogni della cittadinanza e difatti nei suoi spazi verdi serpeggiano chilometri e chilometri di percorsi ciclistici ai lati dei quali si trovano campi da basket, da tennis e da baseball in condizioni pressoché perfette. I parchi sono diffusi, puliti e ordinati. La povertà si presenta come un malattia rara e la gente nelle strade mi sembra piuttosto serena nelle sue faccende quotidiane, tanto nelle zone centrali quanto ai margini dell’urbe. Taiwan sembra anemica sotto il profilo drammatico, come se le mancasse la regolarità con cui certe tragedie attraversano altre società del globo. Non voglio lanciarmi in una disamina superficiale, ma sentivo la necessità di appuntare quest’impressione spontanea. Finora ho vistato soltanto un’altra città e non ho intenzione di recarmi a sud dell’isola, ma non escludo che nei prossimi giorni io possa recarmi sulla costa orientale. Mi trovo bene a Taipei e non mi costa nulla assecondare la tendenza stanziale di questo viaggio. Se avessi avuto più tempo prima della partenza, probabilmente mi sarei attrezzato per compiere il giro dell’isola in bicicletta. Un tour ciclistico sarebbe stato alla mia portata, ma avrei dovuto studiare i percorsi, munirmi di un GPS e accorciare la mia permanenza per non sforare il budget a mia disposizione. La prossima volta che tornerò in Estremo Oriente imposterò il viaggio a favore delle due ruote.
La foto soprastante mi ritrae a una certa altitudine sopra Taipei; l’ho scattata durante un’escursione che ho cominciato nei pressi di Jiantan. Lungo il cammino ho potuto apprezzare lo skyline della città da diverse angolazioni e quando sono arrivato a un punto che era prospiciente l’aeroporto di Songshan, mi sono fermato quasi un’ora a guardare gli aerei che decollavano e atterravano.
Il mio sguardo ha fagocitato un numero considerevole di strutture, templi e monumenti. Ho visto anche il cambio della guardia al Martyr’s Shrine, ma in quest’ultimo non sono entrato perché sulla soglia ho ritenuto inopportuna la mia visita occidentale a un luogo che commemora oltre trecentomila vittime e dunque mi sono limitato a scattare qualche fotografia all’esterno prima di fare dietrofront. Probabilmente in me non sarebbe sorto lo stesso pudore se mi fossi trovato davanti a un sito analogo in Europa, perciò sono portato a credere che in talune occasioni la discrezione e la solennità siano legate alle geografia più che alla morale.