Nelle prime ore di questo venerdì equinoziale mi trovo ad ascoltare un vecchio disco mentre mi rilasso davanti alle deboli radiazioni di un monitor. Fuori quasi tutto tace e il silenzio subisce i soli affronti di qualche marmitta o l’uso improprio di un clacson. Nella mia stanza rossa aleggia una pace archetipica e nel mio cerebro non si abbatte nulla d’incongruo.
Non ho immagini di me stesso che alberghino nella mente di qualcun altro, non sono oggetto dei pensieri di terzi o trini, non ho una mia proiezione di stanza in menti lontane e quindi non mi può essere ascritta alcuna complicità né ingerenza. Mi immergo nella mia individualità perché sono in grado di farlo e quindi sfrutto questo grande privilegio per fabbricare bei ricordi. Perseguo ciò che mi fa stare bene ancorché talora gli effetti dei miei sforzi non siano immediati e non abbiano valore al di fuori del mio microcosmo, ma d’altro canto ogni semina richiede un certo tempo e l’importanza delle cose non si annida mai nelle cose stesse. Non posso mettere i sottotitoli alle mie intenzioni, anche perché non sono in grado di tradurre dalla lingua del fraintendimenti. La stabilità di un’intesa trova le proprie conferme nei suoi sviluppi, quindi la prova di sé risulta ancora più autoreferenziale delle parti che coinvolge, come se ne trascendesse non solo la singolarità ma anche la somma: qui sorge spontaneo il più celebre dei principi olistici. Credo che in ogni fase della vita vi siano delle priorità a cui una mente poco addestrata non sappia conferire la dovuta importanza e io non voglio pagare dazio per la mia stupidità, perciò mi seguo. Tempo al tempo.