Ho diluito “Buonanotte, signor Lenin” nell’arco di molti mesi perché fin dall’inizio l’ho considerata una lettura a latere, nondimeno l’ho apprezzata quasi quanto gli altri due libri di Tiziano Terzani che già figuravano nella mia biblioteca, ossia “Un altro giro di giostra” e l’intramontabile “Un indovino mi disse”.
La narrazione della perestrojka mi ha riportato indietro ai miei primi anni di vita, quando l’età biologica e i cartoni animati ancora mi schermavano contro le implicazioni di ciò che succedeva al di fuori del mio microcosmo.
M’è sempre risultato gradevole lo stile semplice e coinvolgente di Terzani, perciò anche in quest’occasione la mia attenzione ne è stata rapita e io sono stato trascinato nel viaggio attraverso quei territori che stavano cessando d’essere repubbliche sovietiche.
Ho approfittato del tema anche per farmi un ripasso geografico di certe zone dell’Asia, però mi sono concentrato di più sul crollo del comunismo e su tutte le contraddizioni che quest’ultimo teneva unite. Nelle cronache di quei cambiamenti epocali i nazionalismi non erano visti di cattivo occhio come invece lo sono oggi da certi gaglioffi, ma è anche vero che in seno ad alcuni si erano subito ripresentate cruente dicotomie e al confine di altri avevano ripreso ad ardere antichi screzi, come quello tra Azerbaijan e Armenia per quel cazzo di Nagorno Karabakh. C’è un passaggio interessante a tal proposito tra le pagine dedicate alla Kirghisia: “Avevo sempre pensato che il socialismo con tutta la sua retorica sull’eguaglianza, con tutto il suo rimescolamento di razze, avesse almeno risolto questo problema. Al contrario. Mi pare che il razzismo sia un sentimento diffuso qui come altrove e che i conflitti razziali saranno una delle conseguenze più esplosive dello sfasciarsi dell’impero sovietico”. In un altro punto v’è anche un monito contro la possibilità di derive teocratiche di stampo islamico, come ad anticipare i tempi con una lettura della realtà che contraddistinse in maniera più netta la lungimiranza e la cifra stilistica della Fallaci.
Oltre a riferire le dinamiche di quei giorni, Terzani consegna ancora una volta i ritratti dei molti personaggi con cui interagisce e ne traccia i contorni psicologici; uomini e donne d’ogni risma che che sono mossi dagli scopi più disparati: alcuni pronti come l’acqua ad assumere le forme del nuovo recipiente e altri destinati ad appassire all’ombra di convincimenti anacronistici o in ragione di una certa inettitudine. Ancorché le foto nel testo siano poche e la loro resa pessima sul mio Kindle (il primo modello), bastano le descrizioni dell’architettura sovietica e il continuo ripresentarsi degli alberghi della catena Intourist affinché la fatiscenza di quei luoghi e di quei tempi traspaia in tutte le sue brutture, comprese quelle della propaganda comunista.
Due giorni fa sul mio fedele Kindle ho finito di leggere “Un indovino mi disse” di Tiziano Terzani e ne ho tratto grande giovamento. Dal libro emerge chiaramente la piega presa dall’Asia e il costo del cambiamento socioeconomico che all’epoca aveva già preso ad attecchire sul contente e di cui la Cina odierna è la conseguenza più palese. La scrittura di Terzani è meravigliosa perché il suo approccio non è quello di un giornalista distaccato, bensì di un uomo che in alcuni passaggi sembra ricercare se stesso oltre a qualche storia da raccontare e in questo senso ritengo che la visione della sua ultima intervista, Anam Il Senzanome, quand’egli sapeva già di dover morire, sia davvero illuminante, tanto per fare un gioco di parole…
Le descrizioni dei luoghi, gli aneddoti, le riflessioni sulle implicazioni storiche dei paesi in cui egli transita o si trova a vivere, le contraddizioni culturali e quelle personali: in questo calderone di umanità c’è l’essenza del viaggio! Ironia, amarezza e commozione costellano un libro che mi ha fatto molto bene e nel quale ho rivisto un po’ l’Asia che ho avuto modo di conoscere: di sicuro non la migliore. Massacri, ideologie, avvicendamenti, trattati e cerimonie; indovini, ex guerriglieri comunisti convertiti al narcotraffico, speranze tradite e opulenze contrapposte a povertà di gran lunga più diffuse: questo e molto di più emerge dalla cronaca di un anno in cui Terzani decide di viaggiare in treno, auto, risciò, moto o nave, per attenersi alla profezia di un indovino, poi avveratasi, che diciassette anni prima lo aveva messo in guardia dal pericolo di volare nel 1993.
Malgrado la coincidenza, traspare chiaramente la natura fiorentina di Terzani ed è così che la divinazione si trasforma in una scusa per viaggiare come già allora avveniva sempre più di rado sulle lunghe distanze, ovvero via mare e via terra, a stretto contatto con un’umanità che non si può assimilare a bordo d’un Boeing né tanto meno in un qualsiasi aeroporto, ognuno uguale all’altro come egli sottolinea giustamente.
Già all’epoca era arduo e pericoloso seguire certe vie della seta, ma oggi lo è ancor di più grazie all’impegno che l’uomo profonde per causarsi vicendevole strazio e di questo mi rammarico poiché v’è in me spirito d’emulazione. Tra una pagina e l’altra ho sentito scalpitare più volte il desiderio di ripartire prim’ancora di terminare la frase sulla quale in quel momento mi trovavo a cavalcare la voglia di perdermi in Oriente con rinnovata spensieratezza. Forse perché ne scrivo tante o per la sicumera maturata nei soliloqui in cui ne rivolgo altrettante a me stesso, ma Terzani, anzi Tiziano, mi ha ricordato come io sottovaluti troppo la forza della parola. Namaste!