La mia lettura più recente è stata quella de “Il lutto”, un saggio a quattro mani scritto da Antonio Onofri e Cecilia La Rosa che si occupa dell’argomento da una prospettiva EMDR (eye movement desensitization and reprocessing), ma il mio interesse non si è rivolto tanto a questo approccio terapeutico quanto all’analisi del fenomeno e quindi ai suoi caratteri più generali rispetto alla specificità di qualsiasi trattamento.
Per me approfondire il lutto è un espediente con cui esaminare a ritroso la composizione del desiderio e dell’attaccamento, qualcosa di simile a ciò che in informatica si chiama reverse engineering, ma almeno nelle mie intenzioni lo scopo precipuo è quello di mediare la questione attraverso una sorta di decostruzionismo alla Deridda.
A mio parere tramite la comprensione dell’assenza si possono ricavare le ragioni di una presenza compiuta o auspicata e dalla loro correlazione è poi possibile risalire alla meccanicità del tutto, incluso il ventaglio di gioie e afflizioni che a mo’ di tachimetro emotivo indica quelle espressioni artistiche che siano improntate a un’inconsapevole automazione, come se il libero arbitrio fosse un prodotto di fabbrica, frutto di un’alienazione di marxiana memoria.
Ecco dunque che tra le pagine de “Il lutto” concetti quali quello di catessi, la subdola funzione dell’autorimprovero, il riordino del sé dopo l’evento traumatico, i correlati fisiologici di processi interiori e molto altro di analogo permettono di circoscrivere il campo d’indagine mentre al contempo ne stabiliscono i canoni: la sterminata (in molteplici accezioni) realtà diviene così più a misura d’uomo. In ultima analisi mi sono servito di questo testo per un fine diverso da quello che immagino fosse nelle intenzioni degli autori, nondimeno ne ho apprezzato l’utilità.
Il lutto di Antonio Onofri e Cecilia La Rosa
Pubblicato sabato 2 Luglio 2022 alle 17:33 da FrancescoÈ un po’ di tempo che ho tra le mani “Il mito dell’analisi” di James Hillman, un libro nel quale la psicologia del profondo viene messa in discussione. Vi sono critiche al linguaggio psicologico e al modus operandi dei terapeuti, ma questo allievo di Jung (a cui egli fa spesso riferimento) non si limita a contestare l’analisi e ne propone una lettura archetipica per opporsi al primato della razionalità. La mia esperienza mi obbliga a riconoscere l’importanza della mitologia e dei simboli nel mondo interiore, ma, pur consapevole di tutti i suoi limiti, prediligo l’approccio più scientifico e illuminista di Freud che Hillman contesta apertamente.
La psicologia del profondo è per sua stessa natura indefinita, maculata di zone d’ombra, perciò guardo con circospezione tutto ciò che possa confonderne ulteriormente le acque. Non mi piace uscire dai ridotti confini dello scibile a meno che non si tratti di una gita fuoriporta nei dintorni del mondo onirico o della fabulazione. Non mi appartiene alcuna spiritualità, però al contempo non mi reputo né un materialista né tanto meno lascio una porticina aperta con l’agnosticismo. Mi guardo bene da usare un termine come “anima” in luogo di “psiche” perché ho l’impressione che possa prestarsi ad ambiguità svianti, talvolta persino volute. La preminenza del mito non mi convince e trovo parimenti limitativa la scientifizzazione della psiche, ma credo che quest’ultimo approccio abbia ampi margini di miglioramento con il progresso delle neuroscienze. Purtroppo è pressoché impossibile trarre conclusioni definitive in un processo che è in continuo divenire e di conseguenza non c’è modo d’imbrigliare l’epistemologia. Io ho riscontrato più volte il concetto di inconscio collettivo che Jung propone nella psicologia analitica, credo inoltre che non sia difficile trovarne conferma qualora si abbia la possibilità di entrare in contatto con culture diverse dalla propria, ma non riesco a reputare il ruolo degli archetipi più importante di quanto già lo ritenga. Non porto l’organicismo sul palmo della mano perché è assodata l’efficacia di approcci antitetici a quest’ultimo (altrimenti non mi sarei mai interessato alla psicodinamica). Mi domando se la mia ritrosia ad accogliere pienamente l’interpretazione archetipica dipenda dalla mia avversione per ogni pantheon o se, invece, scaturisca da un moto verso quell’obiettività a cui tendo senza però mai illudermi di poterla raggiungere. Per me non è un problema stracciare le convinzioni, infatti queste sono quasi sempre valide per intervalli di tempo ristretti nonostante in proporzione alla durata della vita umana sembrino sfiorare l’eternità: io non mi faccio stregare dalle clessidre. Hillman non mi convince e mi pare che a tratti scada nella sterilità della teologia, però la lettura del suo libro non mi tedia e anzi, mi dà modo di pormi qualche dubbio.
Ho dato una scorsa ad un approfondimento generale del suo pensiero e mi è rimasto impresso un punto in cui la cultura italiana è chiamata in causa. Egli domanda per quale ragione i suoi colleghi italiani cerchino la psicologia al di fuori della loro tradizione quando le loro psiche sono legate al Rinascimento su cui ancor oggi vive tutta l’Europa. Dal punto di vista di Hillman ciò non fa una piega in quanto egli dà un valoro assoluto alla cultura classica che nell’epoca suddetta fu riscoperta, ma potrei obiettare che forse quei mitologemi avevano bisogno di altri interpreti per essere riproposti in chiave moderna, ovvero di qualcuno che fosse estraneo a quella tradizione. Per me quest’ultima questione è una faccenda di mero colore, ma la trovo simpatica. C’è invece una citazione di Hillman che ha catturato la mia attenzione sebbene non riguardi direttamente il tema di questo appunto ed è la seguente: “Anche coloro che credono nella pace e nella nonviolenza si radunano, marciano, manifestano. La fede è la miccia che accende la forza archetipica di Marte e avvia l’imprevedibile, rovinoso corso della guerra”.