È trascorsa una settimana da quando sono tornato in Italia. Ho ripreso a correre, ma impiegherò un po’ di tempo per raggiungere nuovamente i ritmi che riuscivo a sostenere prima della mia partenza, intanto i miei polpacci sono imbevuti di acido lattico come non accadeva da tempo immemore. Adopero questo appunto breve per appuntare i filmati che ho girato durante l’ultimo viaggio.
Mancano due giorni al mio rimpatrio. In viaggio non porto mai la nostalgia e anche se volessi metterla nel mio baglio non saprei proprio con cosa riempirla. La malinconia non mi frequenta, anzi mi emargina perché spesso io siedo dove non le è consentito neanche entrare. I ritorni e le partenze mi seducono. Sono italiano fino a un certo punto. La mia permanenza sull’isola di Formosa è stata gradevole e istruttiva. Tra le altre cose ho assimilato nuovi ideogrammi e ancora una volta mi sono reso conto di quanta strada mi manchi per conoscerne almeno duemila. Taiwan è una nazione giovane, una delle figlie disconosciute dallo scorso secolo, ma come sviluppo della Cina che fu, preferisco la sua storia recente a quella coetanea della controparte continentale. Non voglio intrattenermi troppo sul passato geopolitico, perciò provvedo a dedicare qualche parola su quello personale, più prossimo alla data di oggi. Ieri sono andato a visitare la residenza di Chang Kai-shek e ho passato un po’ di tempo in un luogo dove pare che di tanto in tanto egli si fermasse a riflettere. Sono andato nuovamente al mercato notturno di Shin Lin dove ho scorto un chiosco che offriva carne di serpente, ma non ho degustato le interiora di un pitone: le condizioni igieniche mi hanno dato l’idea di un’orchestra che fosse preparata a eseguire tutte le sinfonie dell’epatite. In un negozio di articoli sportivi sono riuscito a comprare un paio di scarpe da running a un prezzo conveniente rispetto al costo italiano. In un altro esercizio commerciale ho acquistato una t-shirt, ma per farmi capire ho dovuto parlare con una bambina di circa dieci anni poiché i commessi non spiccicavano una parola d’inglese mentre la piccola se la cavava discretamente: è stata una scena che mi ha fatto ridere. Ho preso anche due libri. Uno è intitolato “The rape of Nanking”, tradotto anche in italiano con il seguente titolo: “Lo stupro di Nanchino” Si tratta di un testo sull’olocausto cinese che fu perpetrato dai giapponesi durante la seconda guerra mondiale e di cui pare che il mondo si sia dimenticato: oh, che globo smemorato. L’altro è un dibattito filosofico sulla neuroscienza: “Neruoscience & philosophy”. Tra le mie compere non poteva mancare un po’ di musica, d’altronde avrei commesso un crimine se avessi lasciato certi dischi sui rispettivi scaffali dopo averne constatato l’economicità. Tra questi c’è un live di Keith Jarrett, un lavoro classico di Henrich Ignaz Franz von Biber e qualche disco metal tra cui un capolavoro di due anni fa di cui desideravo da tempo una copia originale, ovvero “The Incurable Tragedy” degli Into Eternity, un album death metal che ruota attorno al tema delle malattie terminali.
Anche oggi ho fatto un po’ di shopping economico, ma la prima parte della giornata l’ho trascorsa dalle parti di Beitou, nei pressi delle terme naturali. Ho visitato un altro tempio, l’ennesimo: Puji. In un centro commerciale ho acquistato tre paia di bacchette (o chopsticks come le chiamano gli anglosassoni), due bicchieri e due ciotole con cui consumerò i miei pasti per i prossimi anni.
Sono soddisfatto del mio soggiorno a Taiwan, ma se avessi potuto prevedere il futuro, forse la mia destinazione sarebbe stata il Kirghizistan o la Thailandia. Insomma, riuscirò mai a trovarmi al posto giusto nel momento sbagliato per assistere a un golpe? Spero che il mio viaggio di ritorno abbia più fortuna del volo presidenziale che è costato la vita ai vertici politici e militari della Polonia.
Negli ultimi giorni il maltempo si è adagiato su Taipei, tuttavia né le nubi né le precipitazioni sporadiche di acqua piovana hanno compromesso il mio nomadismo urbano. Ho visitato il Sun Yet San Memorial. Nel luogo si trova un grande palazzo simile a quello che è stato eretto per ricordare Chang Kai-shek e tutt’intorno vi sono giardini curati che si offrono alla vista dei passanti. La presenza di un laghetto e gli spazi ampi attirano i praticanti di Tai Chi, le coppiette, le famiglie con prole al seguito e, un po’ distanti dalle categorie appena elencate, si possono incontrare anche degli anziani che in un ampio spiazzo dirigono i voli dei loro aquiloni all’ombra del Taipei 101.
“La linea orizzontale ci spinge verso la materia, quella verticale verso lo spirito”
Ho fatto un salto anche al mercato notturno di Shin Lin nel quale mi sono limitato ad acquistare due adesivi per il divieto di fumo. La folla presente per quantità e compattezza mi ha ricordato quella che occlude le arterie urbane di Roma ogniqualvolta quest’ultima si presti a una notte bianca.
A Taiwan le scuole mettono a disposizione della collettività le loro strutture sportive e finora non ho incontrato neanche un atto di vandalismo né al loro interno né in altri luoghi pubblici. Ho approfittato di una pista d’atletica per correre un po’ e oggi pomeriggio avrei dovuto giocare un’altra partita di calcio, ma la pioggia si è presa il cielo e la terra. Resterei ancora un po’ a Taipei se il visto e le finanze me lo consentissero. La città non ha nulla di speciale, però mi piace trafiggerla a piedi da una parte all’altra e la considero mansueta anche nelle ore di punta. Ravviso dei tratti di serenità e pacatezza in questa urbe che per me non ha nulla di peculiare tranne una calma malcelata. In metropolitana, tra uno spostamento e l’altro, ho quasi terminato la lettura de “La tentazione di esistere” di Emil Cioran e, nei minuti che di solito precedono il mio addormentamento, sono riuscito a scrivere qualche pagina per il mio secondo libro.
Nei giorni scorsi ho noleggiato una bicicletta per muovermi più velocemente e ieri sono andato al Taipei Zoo per trascorrere un paio d’ore a contemplare la natura in una campana di vetro. Ho visto un panda ‘ndranghetista che ho ribattezzato in questo modo perché mi è parso in regime di 41 bis a causa dello spazio angusto che gli è stato destinato. Ho immortalato la detenzione pubblica di vari animali tra cui: gibboni, macachi, giraffe, zebre, elefanti, rettili (specialmente serpenti), pinguini, gufi, e perfino una tigre del Bengala. Non mi hanno mai entusiasmato gli animali in gabbia né negli acquari, tuttavia riconosco il valore didattico di certi luoghi e allo stesso tempo non ne nego il carattere liberticida. Dopo la visita zoologica mi sono recato a Shipai per giocare una partita di calcio. Al match mancava soltanto il patrocinio dell’UNICEF poiché il campo ha sfoggiato molte nazionalità: un panamense, due statunitensi, un canadese, un messicano, diversi inglesi, uno spagnolo, un ragazzo di Singapore, un austriaco, un taiwanese e altre persone di cui non rammento né il nome né la patria natia. Eventi del genere rafforzano la mia inclinazione cosmopolitica. Insomma, la partita è stata un vero melting pot. Un mio coetaneo mi ha parlato un po’ di sé e mi ha raccontato di avere già due figli per i quali ha cambiato lavoro poiché il suo impiego precedente non gli permetteva di stare con loro quanto desiderava. Là in mezzo ero l’unico a non avere motivi di studio né di lavoro a Taiwan. “Just traveling” mi sono trovato a rispondere più volte. Dopo la partita ho fatto un po’ di strada assieme al panamense e allo spagnolo. Abbiamo scherzato sulla nostra natura latina e abbiamo concordato su un paio di punti. La gente a Taiwan è amichevole e intrattiene buoni rapporti con gli occidentali, tuttavia non c’è tra le persone autoctone e gli stranieri quel feeling particolare che invece è diffuso in Europa e nelle Americhe. Ho scherzato un po’ con il ragazzo panamense che si sorpreso quando gli ho ricordato il nome di un suo illustre connazionale: Manuel Noriega. Per certi versi ho trovato la conferma a un’impressione che ho appuntato qualche giorno fa su queste pagine al riguardo della sicurezza dell’isola e alla fine ho detto ai miei interlocutori: “Well, Taiwan is too sfae, it lacks of drama!”. Giù risate. Adoro momenti come questi, perle autentiche di socializzazione che scaturiscono dal caso; periodi brevi che brillano di luce propria. All’estero incontro sempre qualcuno sulla mia lunghezza d’onda e immagino che questo dipenda dall’inclinazione cosmopolitica a cui mi sono già riferito. Anche tra i miei connazionali figurano individui interessanti benché io ne conosca un numero esiguo, tuttavia mi ripeto sempre che gli sproloqui noiosi dei miei compatrioti, la loro mancanza d’autoironia e le loro fisime sono il prezzo da pagare per vivere nelle meraviglie paesaggistiche dell’Italia. Io sono l’ultimo dei campanilisti e ancor oggi continuo a dimostrarlo, ma per quanto mi è possibile cerco d’insidiare il podio ogniqualvolta l’obiettività si trovi ad attendermi al traguardo.
Taipei è una metropoli che nel corso della sua espansione non ha ignorato i bisogni della cittadinanza e difatti nei suoi spazi verdi serpeggiano chilometri e chilometri di percorsi ciclistici ai lati dei quali si trovano campi da basket, da tennis e da baseball in condizioni pressoché perfette. I parchi sono diffusi, puliti e ordinati. La povertà si presenta come un malattia rara e la gente nelle strade mi sembra piuttosto serena nelle sue faccende quotidiane, tanto nelle zone centrali quanto ai margini dell’urbe. Taiwan sembra anemica sotto il profilo drammatico, come se le mancasse la regolarità con cui certe tragedie attraversano altre società del globo. Non voglio lanciarmi in una disamina superficiale, ma sentivo la necessità di appuntare quest’impressione spontanea. Finora ho vistato soltanto un’altra città e non ho intenzione di recarmi a sud dell’isola, ma non escludo che nei prossimi giorni io possa recarmi sulla costa orientale. Mi trovo bene a Taipei e non mi costa nulla assecondare la tendenza stanziale di questo viaggio. Se avessi avuto più tempo prima della partenza, probabilmente mi sarei attrezzato per compiere il giro dell’isola in bicicletta. Un tour ciclistico sarebbe stato alla mia portata, ma avrei dovuto studiare i percorsi, munirmi di un GPS e accorciare la mia permanenza per non sforare il budget a mia disposizione. La prossima volta che tornerò in Estremo Oriente imposterò il viaggio a favore delle due ruote.
La foto soprastante mi ritrae a una certa altitudine sopra Taipei; l’ho scattata durante un’escursione che ho cominciato nei pressi di Jiantan. Lungo il cammino ho potuto apprezzare lo skyline della città da diverse angolazioni e quando sono arrivato a un punto che era prospiciente l’aeroporto di Songshan, mi sono fermato quasi un’ora a guardare gli aerei che decollavano e atterravano.
Il mio sguardo ha fagocitato un numero considerevole di strutture, templi e monumenti. Ho visto anche il cambio della guardia al Martyr’s Shrine, ma in quest’ultimo non sono entrato perché sulla soglia ho ritenuto inopportuna la mia visita occidentale a un luogo che commemora oltre trecentomila vittime e dunque mi sono limitato a scattare qualche fotografia all’esterno prima di fare dietrofront. Probabilmente in me non sarebbe sorto lo stesso pudore se mi fossi trovato davanti a un sito analogo in Europa, perciò sono portato a credere che in talune occasioni la discrezione e la solennità siano legate alle geografia più che alla morale.
Qualche giorno fa ho visitato il National Palace Museum dove sono conservati circa ottomila anni di storia cinese che sono stati salvati da Chiang Kai-shek quando egli e il Kuomintang dovettero abbandonare la Cina che si apprestava alla deriva comunista. Il museo propone ai visitatori un numero elevato di pezzi e proprio a causa della grande quantità di materiale da esibire che ciclicamente la direzione avvicenda i manufatti nelle teche. Ho trascorso circa quattro ore a contemplare un arco di tempo che esordisce nel neolitico e termina nel ventesimo secolo con la dinastia Qing: ceramiche, dipinti, utensili, armi, gioielli, mobili e mappe. Ho visto persino dei trattati in cirillico che sancivano i vecchi confini tra la Cina e la Russia. Davanti a una statua del Buddha ho avuto una sensazione anomala, quasi ipnotica benché io sia immune alla sindrome di Stendhal ed estraneo agli insegnamenti di Siddharta Gautama. Ho notato anche degli oggetti che riportavano delle scritte in sanscrito. Non mi sono piaciuti tutti i pezzi in esposizione sebbene ne abbia apprezzato il valore storico. Certi manufatti non avrebbero mai trovato un posto nella mia abitazione né tra le fila di una fiera kitsch qualora avessi avuto la sventura di doverne organizzare una. Mi hanno impressionato fortemente i dettagli di un dipinto di circa dieci metri, uno shou juan, ovvero il formato in rotolo che si spiega orizzontalmente. Quest’ultimo proponeva all’estremità destra paesaggi bucolici e vita rurale mentre verso sinistra snocciolava progressivamente scene sempre più inurbate che alla fine culminavano nelle attività febbrili del centro cittadino. Anche le opere di calligrafia mi hanno colpito e mi hanno permesso di capire quanto siano incerti i miei tratti quando disegno i pochi ideogrammi che conosco. Dovrei spendere fiumane di parole per contenere l’incompletezza descrittiva che concerne la mia giornata al National Palace Museum, ma alla fine rischierei di essere prolisso. Ho respirato un’aria antica.
Sul treno per Taoyuan, sull’autobus per Taipei
Pubblicato mercoledì 24 Marzo 2010 alle 14:47 da FrancescoDue giorni fa mi sono recato in treno a Taoyuan, a ovest di Taipei. Ho trascorso il viaggio a parlare con un taiwanese di ottantadue anni che stava lasciando la capitale per raggiungere Kaohshiung, a sud dell’isola. Questo signore mi ha dato qualche consiglio e mi raccontato un po’ dei suoi viaggi: in uno di questi egli ha toccato anche l’Italia, precisamente Roma e Milano. Mi ha sorpreso la vitalità che ancora prorompeva dai gesti e dal tono dell’uomo anziano. Persone di questo genere rafforzano in me l’idea che l’invecchiamento non sia soltanto un declino biologico, bensì un’arte.
Ho girato le strade di Taoyuan senza una meta precisa, ma sotto un sole irremovibile. Mi sono trovato più volte tra i mercati: sulle bancarelle giacevano merci d’ogni tipo e più volte mi sono chiesto se alcune fossero davvero vendibili. La struttura urbana non mi ha colpito benché tenda meno alla verticalità rispetto alla capitale. Lungo il cammino mi sono trovato davanti a un numero indefinito di piccoli templi in ognuno dei quali ho sentito l’odore dell’incenso bruciato. Non ho assistito ad alcuna cerimonia, ma ho visto per caso dei semplici atti di devozione da parte di qualche passante.
Per tornare a Taipei ho preso un autobus, ma ho faticato un po’ a farmi comprendere dall’autista. Alla fine sono riuscito a scavalcare la barriera linguistica grazie a una ragazza che mi ha fatto da interprete. Il viaggio di ritorno l’ho trascorso a discorrere con costei e durante la nostra conversazione lei mi ha parlato di “Into The Wild”, un bel film che ho visto per la prima volta durante il volo per Hong Kong. Avrei voluto invitare la giovane taiwanese a mangiare qualcosa per ringraziarla dell’aiuto che mi aveva dato, ma a un certo punto mi sono detto: “Che cazzo hai intenzione di fare?”. Non ho mai invitato nessuna ragazza a uscire e non mi è sembrato il caso dei farlo per la prima volta a quasi diecimila chilometri di distanza dalla mia cameretta, tuttavia avrei voluto davvero che ella comprendesse la mia riconoscenza: pazienza. Nei giorni seguenti, ripensando a quest’ultimo aneddoto, ho intuito che probabilmente non avrò mai relazioni affettive, ma d’altronde sono così abituato a stare da solo che l’idea suddetta non mi spaventa affatto. Oltre alle prospettive future ho trovato anche i prodotti della Kinder in mandarino, come si può evincere dall’immagine sottostante.
Ieri mi sono avventurato per la prima volta nel cuore di Taipei City. Io, che risiedo nella Taipei County, quando percorro i sei chilometri che mi separano dal centro della capitale, mi sento un po’ come Renato Pozzetto in “Ragazzo di campagna”. Sono passato sopra il fiume Xindian attraverso il ponte Zhongzheng e ho raggiunto per caso il tempio di Longshan al quale tuttavia dovrò pestare una visita più approfondita. Nel mio peregrinare mi sono ritrovato al Chiang Kai-shek Memorial Hall dove ho potuto mirare l’imponenza architettonica degli edifici e gli ampi spazi che ne separano i perimetri. Mi sono anche fermato a guardare i movimenti lenti e accurati di alcune persone che praticavano Tai Chi in un giardino attiguo al sito suddetto. Qualcuno crede che Taiwan faccia parte della Cina, ma in realtà è una nazione indipendente a cui Chiang Kai-shek ha dato vita dopo la sua dipartita dalla Cina continentale (con le riserve auree al seguito) che avvenne quando Mao assurse al potere in quel di Pechino. A me pare buffa e grottesca la politica estera di quelle nazioni che si rifiutano di riconoscere l’indipendenza di Taiwan per non incrinare i rapporti diplomatici con la Cina. A proposito di tensioni politiche: ho portato con me la maglia della nazionale giapponese di calcio, ma ovviamente non la indosso per le strade di Taipei e la uso esclusivamente per dormire.
In quest’ultima fotografia mi sono immortalato presso il fiume Xindian. In lontananza è visibile il ponte Zhongzheng. Avevo appena mangiato un baozi e forse stavo pensando a come fosse identico in tutto al nikuman giapponese benché sia quest’ultimo a derivare dal primo.
Sono arrivato a Taipei tramite due voli della Cathay Pacific. Ho preso in affitto una stamberga nelle periferia della città e ho inalato quantità letali di smog. Sono circondato da palazzi fatiscenti e da mille esercizi commerciali che spuntano ovunque come le macchie di Köplik durante il morbillo. Il caos della città mi ricorda quello di Seoul sebbene la capitale sudcoreana abbia dimensioni maggiori. Il cibo non costa molto, specialmente alle innumerevoli bancarelle che occupano i marciapiedi e confinano con le officine: adoro questo scenario decadente! Io mi trovo nei pressi di Jingan, a Jhonghe City, ovvero a circa sei chilometri dal centro della capitale. Ho fatto un giro di perlustrazione della mia zona e non ho incontrato neanche un occidentale tra le strade del suburbio. La vista della mia stanza dà su due palazzi che a mio modesto avviso non hanno nulla da invidiare alle Vele di Scampia. Mi aggrada la sistemazione che mi sono trovato e malgrado le apparenze non credo che i dintorni formino una zona malfamata. A Taiwan il tasso di criminalità è piuttosto basso, ma io sono sempre guardingo anche se non lascio trasparire la mia prudenza. Nel vicinato figura anche un bambino che si esercita con il flauto (o con qualche altro strumento a fiato) e questo musicista in erba allieta tutti con lo stile incerto delle sue stonature. Non conosco neanche una parola di mandarino, ma riesco a farmi comprendere attraverso gesti semplici e sufficientemente eloquenti. In giro sono già riuscito a riconoscere il significato di qualche ideogramma che ho incontrato più volte nel mio blando approccio alla lingua giapponese. Nei prossimi giorni mi dedicherò alla visita di Taipei per poi fare qualche salto in altri punti dell’isola, ma prima devo riprendermi dal jet lag che questa volta si è fatto sentire pesantemente su di me. Le prime impressioni sono buone e so già che ne avrò persino di migliori.