A volte sono attraversato da una forza di cui non conosco né l’entità né la provenienza, come se fossi investito da un fulmine che trasforma la notte in giorno e squarcia il cielo prima di schiantare al suolo la sua elettrica possanza.
Faccio il possibile per sviluppare e mantenere attorno a me una carica che respinga tutto quanto non mi appartenga, ma sia al contempo capace d’assimilare ciò che di positivo e negativo risulti conforme alla mia natura. Conosco il carattere ondulatorio degli eventi, la loro perenne alternanza tra vette serafiche e abissi strazianti, ma io non faccio parte del corpo di ballo che va a tempo di un ritmo così lunatico e bipolare. Voglio essere un degno parigrado della mia parte più autentica, riconoscere la sua egemonia in ogni minimo atto e pensiero, così che mi sia dato di trascendere lo stato attuale invece di rimanerci da trascurabile osservatore di cose lontane. Mi domando se concetti quali inizio e fine abbiano davvero asilo nel cosmo o non siano invece dei difetti logici di prima necessità per una specie ancora sottosviluppata, primitiva. Dove finisce quello che non mi tange e subisce deviazioni? Ciò su cui solamente il calcolo probabilistico si può esprimere, nel pieno rispetto della tradizione quantica? Mi allarmano le certezze che non credono in loro stesse e di conseguenza rifuggo dalla loro cattiva compagnia.
Scrivo nel pieno possesso delle mie facoltà, ma nella totale assenza di ragioni valide. La mia interlocuzione è una strada interrotta da lavori che non sono affatto in corso, perciò non mi resta che mandare segnali nello spazio profondo per chiedere ragguagli sull’esistenza o per un breve saluto tra figli di galassie gemelle. Non riesco a capire se la ristrettezza terrestre sia figlia di mancanze ordinarie o scaturisca da aneliti che le prime hanno il pregio di porre sotto la giusta luce. Non può essere messo ai voti quanto di assiomatico superi in esattezza finanche l’aggettivo che pretenda vanamente di definirlo, ergo non vi è nulla da deliberare in pompa magna.