10
Feb

L’addio di uno sconosciuto

Pubblicato venerdì 10 Febbraio 2017 alle 20:09 da Francesco

Negli ultimi giorni ho notato un certo e comprensibile clamore attorno alla lettera di un ragazzo suicida. Ho letto il testo integrale dello scritto e vi ho ravvisato un malessere che a mio modesto avviso non era ascrivibile soltanto alle questioni lavorative, ma certa stampa ne ha sintetizzato il contenuto come un semplice j’accuse alla politica. Nelle ultime parole del ragazzo friulano ho scorto una profonda lucidità e una punta di stoicismo: ciò che egli ha affermato in merito all’esistenza e alla soggettività dei limiti di sopportazione non può che trovarmi concorde, perciò gli auguro che la terra gli sia lieve.
Io stesso in passato ho preso in considerazione la possibilità di uccidermi, ma alla fine le mie riflessioni sono sfociate in una semplice meditatio mortis che ha asservito quel processo d’individuazione di cui ancora mi occupo. Non so chi fosse quel ragazzo né quante ne avesse passate, mi era del tutto sconosciuto così come certe volte lo sono anche le persone più vicine a un individuo, però mi chiedo come sarebbe andata se egli avesse resistito ancora un po’: si sarebbe ucciso ugualmente tra un anno o due? Gli eventi sono passibili di rivoluzioni copernicane in ogni momento e a qualsiasi livello, ma nessuno può pretendere da un altro che egli vi creda davvero: chi è ancora vivo come me può tutt’al più giocare col senno di poi al cospetto dell’altrui scelta di morte. Non si può salvare nessuno da se stesso: homo faber fortunae suae.
Un suicidio è una sconfitta per tutti, anche per chi s’illude di potersene fregare: in qualche modo quel gesto di libertà echeggia tra i vivi. È mia convinzione che ognuno abbia dentro di sé una forza sopita e vorrei che le persone in difficoltà potessero risvegliarla all’uopo con il concorso del fato, ma il mio auspicio è una mera utopia. Per conto mio auguro ogni bene a chi sta lottando contro i propri demoni.

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18
Ott

Divagazioni sul tema del suicidio

Pubblicato sabato 18 Ottobre 2014 alle 21:39 da Francesco

Alcuni giorni fa ho iniziato la lettura de “Il suicidio” di Durkheim, ma prima di affrontare il testo originale mi sono immerso in un’introduzione di oltre duecento pagine che mi ha dato un quadro attuale del tema. La sociologia non mi attrae poiché allo studio delle masse io preferisco quello dei singoli casi, però so che le une non sono scisse dai secondi poiché questi formano le prime. Il pensiero della morte mi accompagna fin dalla più tenera età: non ho mai tentato d’eluderlo e so anche che non potrò deluderlo. In determinati casi persino l’uso delle assonanze può essere considerato come un ricorso all’eutanasia: quella dello stile.
Malgrado le più tetre elucubrazioni non ho mai compiuto dei tentativi di suicido, infatti volente o nolente non mi fanno difetto né la salute fisica né quella mentale: tutt’al più mi sono procurato qualche problema di troppo con la mia lucidità, talora un’arma a doppio taglio.
Finora nel libro succitato non ho scorto nulla di nuovo, niente che non abbia già appreso altrove o a cui non sia già arrivato da solo, tuttavia lo reputo un ottimo lavoro di verifica e apprezzo il fatto che l’introduzione offra il proprio fianco all’autocritica, in particolare quella sulla raccolta dei dati e sulle loro comparazioni. Che anche i ricchi piangano o che, a seconda dei contesti e delle congiunture economiche, delle condizioni sociali o dei frangenti politici, determinate fasce d’età siano più esposte al rischio di uccidersi rispetto ad altre, ebbene, tali conclusioni a me erano già note. Mi ha colpito l’impiego del termine anomia con il quale Durkheim riassume la carenza di solidarietà e le sue nefaste conseguenze, ma al di là della forma non l’ho condiviso poi molto in quanto mi pare che egli lo designi come il cippo iniziale di una crisi dei valori, ciò che io ho subito associato al Crepuscolo degli idoli di Nietzsche e che dal mio punto di vista non reputo negativo. Pecco di empatia, coltivo il mio orticello dove a volte pare che nulla nasca e tutto sia già morto? Può darsi, infatti porto in un contesto autoreferenziale tutto quello che posso trascinarmi dietro dalla trattazione di cui sopra e non ho alcuna intenzione di fornire interpretazioni generali.
Per Aristotele (e chissà per quanti prima e dopo di lui) l’uomo è un animale sociale, ma io credo che ci sia una netta differenza tra la percezione di sé stessi come pecora in un recinto o come lupo in un branco: poi ci sono i disturbi bipolari che permettono il rapido avvicendarsi d’ambo le esperienze a costo della dissociazione, ma questo è un altro discorso, un’altra altalena; forse.
L’identificazione (uno dei mali che Gurdjieff e i suoi allievi hanno spesso sottolineato) mi sembra che sia una spontanea attività compensatoria: la politica, la gelosia, il tifo, la religione e tutto il resto dell’illusorietà, compresa la cultura quando sia ridotta ad un semplice accumulo di nozioni.  Io credo che sia possibile appartenere autenticamente a qualcosa o a qualcuno (non nel senso del possesso, bensì in quello stabilito da un’intesa che sappia sancire e annullare le rispettive solitudini), ma lo reputo tutt’altro che semplice, eppure non vedo a cos’altro possa tendere chi non avverta una vocazione naturale per il romitaggio (e anche nelle pratiche ascetiche ho visto molta identificazione). Thanatos prevale quando Eros latita, come i topi ballano quando il gatto non c’è, perciò, senza scadere nell’ingenuità o nella pochezza di certi sentimentalismi, condivido quanto sosteneva La Fontaine, ovvero che tutto l’universo obbedisce all’amore.

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9
Set

Meditatio mortis

Pubblicato martedì 9 Settembre 2014 alle 12:58 da Francesco

Ora che non ho più la sublimazione sento tutto il peso dei giorni che passano. In certi momenti penso che questa sia una fase di transizione a cui il tempo porrà rimedio, però non ci credo mai davvero e infatti quando cerco di convincermene mi sembra di mentire a me stesso.
Ho la sensazione di vivere al di sotto delle mie possibilità, ma al contempo non riesco a trovare un modo per cambiare le cose. È come se mi trovassi di nuovo davanti al bivio che dieci anni fa precedette l’inizio della mia sublimazione: vivere o morire.
È altamente probabile che in trent’anni io abbia capito poco o niente e a questo proposito mi vengono in mente certe parole: “Non è importante quanto uno sa, bensì quanto uno ha compreso”.  Per me il mondo non è cattivo, anzi, pullula di persone splendide anche se le peggiori fanno quasi sempre più rumore delle migliori e so che la vita può essere un’esperienza meravigliosa perché io stesso ne ho tratto molteplici soddisfazioni, però non intendo protrarla a tutti i costi.
Ora come mai mi rivedo nello stoicismo e in Seneca, ovvero in una concezione dell’esistenza che in determinate condizioni dà il giusto peso alla possibilità d’interrompere la vita prima della sua fine naturale. Devo raccogliere il coraggio necessario per affrontare serenamente la mia morte e non ho idea di quanto tempo mi servirà. È riduttivo misurare il valore di una vita con la durata biologica, anzi, è offensivo. Ancora una volta mi vengono in mente altre parole: “Vivere venti o quarant’anni in più è uguale, difficile è capire ciò che è giusto e che l’eterno non ha mai avuto inizio, perché la nostra mente è temporale e il corpo vive giustamente solo questa vita”.
Considero infantile (ma comunque degno di rispetto) qualsiasi suicidio che sia dettato da un gesto impulsivo o da un dispiacere passeggero, trovo invece ammirevole chiunque si dia la morte in base ad una scelta ponderata, come un atto d’estrema libertà.
Per adesso alla perduta sublimazione non trovo una sostituta migliore dell’idea della fine ed è paradossale il modo in cui quest’ultima mi rasserena.

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21
Ott

Quandunque il Sé si trasmetta in differita

Pubblicato giovedì 21 Ottobre 2010 alle 00:14 da Francesco

Anni fa mi denigravo giustamente. Se non avessi insultato me stesso non sarei mai riuscito a svegliarmi dall’apatia. Non ho mai trovato un maestro né qualcosa che potesse guidarmi, sennò avrei risparmiato un po’ di tempo. Ho sempre ricevuto esempi negativi che fortunatamente sono stati ottenebrati dalla mia lungimiranza. Anche quando ero sfiduciato e versavo nella mestizia in me sopiva la forza interiore che ancor oggi mi permette di camminare a mezzo metro di altezza. Potrei essere invulnerabile emotivamente, ma se assecondassi questa tentazione arrogante e arida dimostrerei soltanto una forma di debolezza meno palese, invece sono ancora disposto ad abbassare ogni difesa qualora delle circostanze eccezionali lo richiedano e proprio in questa capacità venata di consapevolezza io intravedo la parte migliore di me: non sono affatto freddo.
Il mio approccio ai sentimenti non è passionale né razionale, ma è dettato dall’unione di Psiche ed Eros alla luce del sole e non tramite incontri al buio come nell’opera di Apuelio o nelle usanze pulsionali delle decadi più recenti.
Il tempo non mi inganna più benché io qualche volta riesca a buggerare lui. Sono giovane, però comincio a rischiare di non vivere alcun trasporto emotivo e non mi faccio fregare da un timore che dovrebbe sorgere in me: fanculo, io lascio che divori le energie di qualcun altro. Il futuro è in divenire per definizione e così come non lo metto nelle mani di una cartomante, non lo depongo neanche sulle paure millantatrici che tra l’altro non trovano spazio nella mia lettura della realtà. Nei paraggi della mia persona, dalle anime in pena si levano cassandre esagerate e previsioni cupe, pare inoltre che per costoro ogni passo avanti debba essere seguito da un salto indietro. Mi disgusta questo leitmotiv depressivo e tendo a non dare fiducia a chiunque non l’abbia in sé. Spesso avverto grandi reticenze, sovente più assordanti delle verità che nascondono. L’onestà nei confronti altrui è auspicabile per vivere bene, però credo che quella verso sé stessi diventi addirittura imprescindibile per sventare certi disastri. Proroghe continue, rinvii ingiustificati e vari ricorsi a impegni abituali possono ritardare molto l’incontro di un individuo con i limiti a cui prima o poi dovrà dare udienza. Un tumore che viene lasciato ingrandire, un nemico a cui si concede il tempo di rinforzarsi: a terribili infermità porta la ferma decisione di lasciare altrettanto ferme le questioni insolute a livello interiore. Non critico la società poiché è troppo eterogenea per prestare il fianco a dei giudizi attendibili, però cerco di comprenderne una parte per non farmi contagiare dalla cecità volontaria. Lo ripeto per l’ennesima volta: io non pretendo di cambiare il mondo, d’altronde sarebbe un moto infantile di romanticismo, ma compio gli sforzi intellettuali e fisici per evitare che accada l’esatto contrario. Insomma, i conflitti intestini hanno ripercussioni sull’esterno e prima di puntare il dito contro gli altri forse un individuo dovrebbe domandarsi se non sia stato lui per primo a commettere l’errore di avvicinarsi a persone incompatibili. Talvolta l’incompatibilità è del tutto artificiale e viene evocata per negare qualsiasi valenza ad un’affinità che oltre alla gioia porterebbe anche la necessità di un confronto personale in uno dei soggetti interessati. Credo che nei veri inetti la felicità sia subordinata alla sopravvivenza di determinate istanze psichiche malgrado la parvenza di normalità e d’integrazione sociale che può risultare da un’attività febbrile in più campi o dalla semplice ripetizione di una routine cristallizzata.
Nei mezzi d’informazione forse la questione dei suicidi non viene affrontata spesso per evitare un aumento del tasso di mortalità, ma non sono rari i casi in cui una mancanza di insight porta alla morte come se si trattasse di una carenza organica. Forse una morte vivente insorge anche in coloro che si adattano alla tristezza e dunque l’adattamento a livello personale non rientra nei principi della selezione naturale perché quest’ultima, secondo me e limitatamente al campo emotivo, si spinge al di là di quanto è stato teorizzato per la sopravvivenza. Non compatisco chi decide di togliersi la vita sebbene per questa regola io preveda doverose eccezioni, contenute nel numero e mai nelle circostanze. Il suicidio fisico e quello emozionale per me rappresentano le lezioni più convincenti della natura per quanto riguarda la salvaguardia di sé stessi.

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26
Nov

Jigai

Pubblicato lunedì 26 Novembre 2007 alle 02:32 da Francesco

Un uomo si allontana durante il tardo pomeriggio di un giorno novembrino e la sua giovane moglie lo segue con lo sguardo mentre stringe al petto il lembo di una tenda gialla. Un calesse percorre lentamente una via cittadina e lascia dietro di sé i rumori evanescenti del suo transito. Un lampionaio accende pazientemente le luci di una via che si trova a ridosso di un bastione inumidito e sembra che il suo volto mostri i segni della felicità. In un ampio salone le primogenite dell’aristocrazia sfoggiano i loro abiti sfarzosi e lanciano occhiate seducenti verso i cinque sensi dei loro pretendenti. Un ambasciatore firma un documento sopra un tavolo di mogano davanti al quale un messo attende diligentemente un incartamento da consegnare. I rintocchi di un campanile vibrano attraverso il torace di un passante distratto e come ogni sera destano i ricordi di un uomo canuto. In una stanza piena di bambole una donna volta le fotografie dei suoi familiari, poi spegne le luci di tutta la casa e torna completamente nuda nella luce lunare che avvolge la sua camera. Costei è una nobildonna e un’orientalista. D’un tratto ella si inginocchia di fronte a una platea di tetti spioventi e appoggia la lama di una wakazashi sopra la giugulare. Sangue e ritualità si intrecciano in una sera che appartiene a un secolo lontano.

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7
Nov

Elegia collettiva

Pubblicato mercoledì 7 Novembre 2007 alle 00:03 da Francesco

Un uomo malato di cancro passeggia in un giardino imbiancato mentre un pupazzo di neve lo guarda immobile e suda freddo. Il cervello di un suicida sborra sangue e non riesce a venire a capo delle sue volizioni. In una notte senza luna una donna propaga le sue urla a lungo e manda in frantumi tutte le vetrate del suo castello di carte. Le radici della discordia crescono e si snodano sotto i pavimenti degli alveari umani. Un giovane laureando lancia le sue proposte, ma rimbalzano tutte sopra dei muri di gomma e la sua insistenza assomiglia all’apatia di un carcerato che trascorre il tempo a tirare una pallina da tennis contro una parete della sua cella. Un drogato assume la sua razione quotidiana di curaro e pensa di essere in trance mentre attende il suo turno per morire, ma in realtà si trova nella sala d’attesa in cui si adunano tutte le comparse del malessere. Un bambino si getta dal balcone perché fiuta il futuro che lo attende e dopo essere morto lascia credere alla madre che abbia compiuto il suo ultimo gesto per intraprendere la carriera di serafino. Il coma di un perditempo è un atto di ribellione del tempo che decide di perdersi da sé nell’assopimento dei sensi invece di farsi bistrattare dal suo affittuario.

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