Talora mentre corro mi trovo a vivere dei momenti di estrema lucidità. In quei frangenti mi sembra che io riesca davvero a percepire quanto mi circonda, come se ogni cosa non si limitasse a comparire nel mio campo visivo e io a mia volta vi entrassi dentro per ricambiare la visita ricevuta dalla mia vista. Non so da cosa dipendano queste fulminee esperienze né in quale misura scaturiscano dalle reazioni biochimiche di un’attività fisica piuttosto intensa, ma in ogni caso non me la sento d’inquadrarle in una cornice esclusivamente organica. Secondo il mio modesto parere le percezioni di ogni individuo hanno un’ampiezza variabile e credo che alcuni stimoli corporei siano in grado di affinarne il potenziale, mi chiedo tuttavia quanto sia arduo discernere l’autenticità di certi accadimenti dai moti dell’autosuggestione e se l’eventuale partecipazione di quest’ultima debba per forza inficiare la prima, tanto da snaturarla.
V’è una parte della cosiddetta realtà di cui i cinque sensi dell’essere umano intercettano soltanto segnali deboli e confusi, perciò mi domando se certe frequenze un tempo fossero alla portata della mia specie e se la sua evoluzione le abbia via via estromesse dalla sensibilità comune per questioni di adattamento, o se invece l’umanità tutta si stia ancora muovendo verso una maggiore ricettività. Ho sempre la sensazione che qualcosa mi sfugga, come se l’avessi sotto il naso o me lo attraversasse da parte a parte. Mi sono interrogato più volte sulle ragioni di cotali impressioni e sono arrivato persino a chiedermi se io ammetta una realtà più estesa di quella esperibile poiché insoddisfatto da quest’ultima, ma invero non v’è delusione alcuna per quanto rientri nelle mie corde e quindi ho finito per non mettere in discussione la genuinità della mia premessa. Sono curioso di sapere cosa si trovi in certi stati di coscienza, come se volessi arrampicarmi sul tetto di una torre eburnea per godermi il colpo d’occhio.
In passato ho rimandato più volte un serio approccio a qualunque forma di meditazione perché non sapevo orientarmici e non avevo le idee chiare sulle mie necessità: sporadici tentativi, a tratti un po’ naif, non mi hanno mai portato oltre un breve sollievo. Per me un avvicinamento razionale alla pratica è un primo e imprescindibile passo da compiere poiché mi ritengo un occidentale a tutti gli effetti e non so procedere altrimenti, tuttavia so bene che degli eventuali sviluppi non possono essere del medesimo tenore e devono perciò snodarsi su un altro piano. Ho quasi terminato la lettura di Stati di coscienza di Charles T. Tart e in una parte del libro, il cui argomento sono gli stati di coscienza alterata, vi è una digressione sulla meditazione che io ho trovato piuttosto istruttiva. Anzitutto ho gradito l’uso esplicativo e pragmatico di espressioni che altrove ho sempre percepito (forse per una mia mancanza) piuttosto astruse; mi riferisco in particolare all’impiego del termine “energia”: ne riporto un esempio affinché le mie parole non finiscano per essere avvolte dalla stessa fumosità verso cui ho appena dichiarato insofferenza. Lo stato di coscienza ordinario è considerato naturale poiché si presta alle esperienze familiari di tutti i giorni, ma per mantenere il proprio regime ha bisogno di energie che lo stabilizzino e queste sono prodotte dalle fonti più disparate, quali i movimenti del corpo, le attività quotidiane e ovviamente il pensiero, col suo continuo rumore di fondo, perciò se le energie anzidette non fossero impiegate allora lo stato di coscienza ordinario potrebbe lasciare il posto ad altri stati di coscienza: secondo me è significativo che a questo proposito Tart citi Don Juan (lo sciamano di Carlos Castaneda) e ricordi com’egli invitasse il suo allievo a rallentare il pensiero.
In realtà non c’è nulla di nuovo sotto il sole poiché in certi ambiti e alle latitudini più disparate la sospensione dell’attività mentale risulta sempre una conditio sine qua non, ma a mio avviso Tart ha il pregio di spiegarla in termini tutt’altro che iniziatici. È su tale attività discorsiva che si staglia una metafora induista che in altri contesti forse non sarei riuscito ad apprezzare in egual misura; mi riferisco all’immagine dello stato di coscienza ordinario come quella di una scimmia ubriaca e dispettosa che vada di albero in albero dietro la spinta dei suoi desideri animaleschi.
Io non ho mai fatto uso di droghe, neanche di quelle di Stato (cioè tabacco e alcolici), però ho sempre compiuto una netta differenza tra l’uso di sostanze psicotrope a scopo ricreativo (che in realtà è analgesico, ma questo punto mi riservo di rimarcarlo nel saggio che sto scrivendo) e un uso atto ad espandere la coscienza (tale è per esempio il ricorso al peyote con l’ausilio di uno sciamano); mi pare che Tart nel suo libro proponga una visione abbastanza simile benché la sua abbia un taglio (eh già, la parola è azzeccata…) più scientifico e si astenga dai giudizi di valore.
Tutti questi concetti non sono mere astrazioni sebbene io non escluda che nascano e poi si sviluppino con l’intento di esserlo, perciò me ne servo come se fossero dei pezzi di ferraglia da impiegare per scopi diversi da quelli per cui sono stati creati; non c’è bisogno che lo scriva e dunque lo scrivo perché non sono i soli bisogni a muovermi: da ciò cerco un riverbero concreto.