Prova a insegnarmi qualcosa che non sono in grado di imparare cosicché io possa osservare come scuoti la testa. Apri una delle tue mani e imprimi violentemente lo stampo delle tue cinque dita sulle mie guance disabituate al contatto umano. Sparami in testa e poi partoriscimi. Creami a tua immagine e somiglianza prima che io mi uccida per ricostruirmi daccapo con le mie mani. Facciamo un passo oltre i limiti del possibile. Usa il tuo kajal per tracciare sulla mia schiena le coordinate del nostro chalet lunare. Interpretiamo le nozze di Cana e assicuriamoci che la nostra taumaturgia non si limiti alla moltiplicazione delle vettovaglie. Creiamo un totem del nostro vincolo e neghiamogli qualsiasi banalità cuoriforme. Cambiamo costantemente il nostro stato di aggregazione. Io costruisco e tu demolisci. Tu costruisci e io demolisco. Scambiamoci i sessi, le età, i ricordi e tutti gli altri orpelli che non occorrono alla nostra riconciliazione cosmogonica: invecchiamo di colpo e torniamo spermatozoi per gettare nei venti solari la ciclicità dei nostri errori. Ammutoliamo i poeti e stracciamo le loro odi. Riscriviamo i libri sacri senza usare le parole e usiamo i liquidi seminali per incollarne le pagine. Dissociamoci da ogni equilibrio e seguiamo l’andamento caotico di una creazione continua. Sappiamo che “amore” è una parola composta dalle lettere di alfabeti primitivi, ma dietro la sua forma etimologica si cela pacificamente un’energia che va al di là di qualsiasi connotazione morale. In ultima analisi decapitiamo gli stereotipi della tristezza e della sua antitesi, ma non dimentichiamoci di attendere con ansia che esplodano le parole e chi le incorpora pedissequamente nel proprio vissuto.
Ipotesi sperimentali di passione: parte seconda
Pubblicato giovedì 4 Ottobre 2007 alle 08:07 da FrancescoIpotesi sperimentali di passione: parte prima
Pubblicato mercoledì 3 Ottobre 2007 alle 05:54 da FrancescoAl posto delle labbra abbiamo due conduttori termici. Il tempo usa due dita sporche per schiacciarci: la presenza del passato e la fine del futuro. Parliamo lo stesso idioma, ma sembriamo due muti che non conoscono il linguaggio dei segni e riusciamo a comunicare solo quando le nostre debolezze utilizzano le stessa frequenza. Ci puntiamo addosso i nostri segreti e alziamo le mani per fonderci in una figura erotica che ricorda Ganesh. Deformiamo i piumoni con le abduzioni e le adduzioni che proteggono la simmetria simbiotica di un istinto di complementarietà. Le luci ci servono soltanto per assicurarci che le nostre ombre combacino. Non rifuggiamo dalla morte poiché ne siamo parte ed elogiamo noi stessi perché siamo i fondatori dei ponti che ci uniscono per miracolo. Ripetiamo i nostri nomi come se fossero dei mantra e svuotiamo di qualsiasi significato i nostri corpi per trasformare l’abitudine procreatrice della nostra specie in una rivoluzione emotiva. Siamo gli strumenti organici della nostra sopravvivenza interiore e teniamo svogliatamente la mano della verosimiglianza della realtà apparente mentre scendiamo a rotto di collo i gradini della follia più recondita. Raccogliamo tutti i frammenti temporali che la nostra memoria può contenere e ne appoggiamo le parti più significative dentro le teche aortiche a tenuta stagna per evitare che il sudore della voluttà ne impregni la forma.