Per me è giunto il momento di cambiare registro. Fatta eccezione per la parentesi nipponica, nel corso degli ultimi mesi sono stato meno sereno rispetto agli anni precedenti. Voglio ristabilire al più presto il primato della mia tranquillità e mi sento in procinto di farlo, abbreviando persino i tempi di recupero che quasi volevo impormi. Io non mi riconosco affatto nei toni vagamente cupi di qualche appunto recente né tanto meno nelle tinte altresì scure di determinati pensieri.
Appartengo ad una disposizione d’animo che non ha nulla a che vedere con la mestizia, perciò non voglio snaturarmi. Quando l’orchestra suona il ritmo del calvario, io vado deliberatamente fuori tempo, anche a costo di andare fuori tempo massimo: non voglio imparare nuovi passi e in particolare non ci tengo per niente ad apprendere passi falsi.
Commetto errori, riparo salvando il salvabile e mi godo il frutto dell’esperienza: una spremuta di coglioni che forse per taluni non serve a un cazzo. Anche la tromba di Freddie Hubbard annuisce a queste parole e mi sprona a tradurle nel linguaggio degli eventi. Ciclicamente, sotto un certo aspetto, resto sempre a piedi, ma per fortuna me la cavo a correre! È tempo di tornare in auge.
Di tanto in tanto, quando ero piccolo, udivo i discorsi esistenzialistici degli adulti e ogni volta mi ripromettevo che da grande non mi sarei mai perso in quelle stronzate. A distanza di anni credo di essere riuscito nel mio intento. Appaio insensibile perché non adotto né nutro angosce che di fatto non mi appartengono. Ad alcune persone risulta difficile fare quadrato attorno alle proprie vite senza disporre di almeno un lato tragico. Se fossi un estraneo farei notare a me stesso che una volta incontrati Euripide e Sofocle è difficile tornare indietro, ma possono bastare una fiction mielosa o quattro accordi orecchiabili per sortire gli stessi effetti su individui che militino presso altri livelli d’istruzione. La cultura può cambiare certe forme, ma credo che soltanto l’intelligenza possa divellerle e quest’ultima troppo spesso viene confusa con la prima benché riconosca che tra le due talvolta possa esserci un legame molto stretto.
Il vittimismo fa la fortuna dei falegnami, infatti c’è sempre qualcuno che vuole illudersi di portare una croce unica e inimitabile sulle proprie spalle. Credo che l’autocommiserazione talvolta possa costituire uno strumento utile, specialmente quando uno si trovi alle prime armi con se stesso e non abbia a disposizione quei mezzi che l’esperienza elargisce in seguito a chiunque sia ben disposto verso di lei, perciò considero il vittimismo come un errore di gioventù che al fine di essere propedeutico (questo è il paradosso che io ho rilevato) non deve ripetersi né ammaliare. A me non interessa stabilire verità o avere riscontri oggettivi da esibire per vanità intellettuale. Mi occupo di me e non ho bisogno di colonizzare il pensiero altrui per sentirmi vivo. Sono aperto al bene, anche di notte e durante i giorni festivi, però non lo faccio entrare quando si presenta con il male di qualcun altro. Non nuoccio mai a nessuno a meno che non debba difendermi.
In altri continenti ho provato scariche di libertà che poi ho saputo accogliere nuovamente nella mia terra natia. La malinconia brucia nell’atmosfera del mio cuore intonso e di conseguenza le è impossibile atterrare o atterrirmi. Potrei anche deglutire cucchiaiate di sconfitte e delusioni per il resto della mia esistenza, ma questa sciagurata ipotesi comunque non cambierebbe un cazzo. Nelle mie parole non si trova il senso del sacrificio né la ricerca dello stoicismo, vezzi eroici che devono essere conservati in una dose di ingenuità largamente maggiore rispetto a quella di cui io dispongo nelle mie peraltro già scarse riserve. Questo pianeta senza il genere umano forse avrebbe un aspetto migliore (almeno per i canoni umani, che però in questo caso risulterebbero assenti), ma per quanto sgradito, io non mi sento un ospite in colpa e mi mantengo sereno.

Nel cuore della notte pulsano visioni verosimili
Pubblicato mercoledì 11 Agosto 2010 alle 03:53 da FrancescoMi diletto a vivere senza badare troppo alle fortune alterne. Nessuno dietro di me, nessuno davanti a me, né nello spazio né nel tempo. Attraverso tundre desolate e passaggi a livello ormai in disuso. Secondo più d’una cassandra io cadrò sotto il peso della mia esistenza, ma non temo queste profezie infauste e continuo a solcare i miei giorni come se toccasse al futuro l’ingrato compito d’inseguirmi. Non sento alcuna pressione e mastico pezzi di liquirizia per alzare un po’ quella sanguigna. I miei oracoli hanno code lunghe e miagolate rivelatrici. Alle occasioni perse non nego mai una degna sepoltura, però non ne commemoro la dipartita. Croci marce e vermi famelici vegliano al posto mio gli eventi defunti. L’autunno dista più di trenta giorni e spero che non anticipi la sua venuta, ma nei mesi venturi il saluto dell’estate non farà sorgere in me una nostalgia stagionale e probabilmente neanche un’influenza accostabile allo stesso aggettivo troverà posto nel mio organismo.
Vuoti a rendere, questi sono i contenuti che adopero per versare un po’ di lessico. Non buco lo schermo né le mie viene, non trafiggo i cuori e ultimamente neanche la carne di maiale, non sono tagliente e preferisco tagliare corto. Giochi di parole dalla fattura discutibile, ecco le scorie che lascio nottetempo su questo appunto. Come si modella il tempo? Quale forma preferire? Giorni e notti da bibliotecario o mattine e pomeriggi alla stregua di un pugile? Il desiderio fomenta inclinazioni diametralmente opposte. Forse la fame di sapere e quella di potere hanno una radice comune, ma si manifestano in modi diversi. Un libro può essere comprato e consumato come una borsa di Gucci, il lettore ne può indossare il contenuto sopra la propria personalità come un abito di Saint Laurent e può persino schiacciarci l’ignoranza altrui come se calzasse degli stivali di Luis Vuitton: la cultura è fashion; un motivo in più per evitarla. L’uomo selvaggio di Rousseau, poi così selvaggio non era. Non sarebbe sufficiente la fusione di tutte le riserve auree del mondo per tornare all’età dell’oro, ammesso che un periodo del genere abbia accompagnato un po’ la storia dell’uomo.
Dissertazione faceta sulla serietà moderata della mia illibatezza
Pubblicato giovedì 1 Luglio 2010 alle 02:07 da FrancescoQualche giorno fa ho rincontrato per caso un vecchio compagno di giochi e l’ho salutato prima di accorgermi del suo passaggio all’età adulta, difatti si trovava con la compagna e la figlia neonata al seguito. Cazzo, non sono riuscito a trattenermi quando ho visto il passeggino e invece di complimentarmi per la nascita gli ho detto qualcosa che suonava più come una condoglianza: “Eh, ti è toccata! Che ci vuoi fare!”. Dodici anni fa io e questo tizio mettevamo le caccole sui pollici e le colpivamo con l’indice per bombardarci reciprocamente, bestemmiavamo a ogni piè sospinto e ogni tanto, prima di una serata davanti ai videogiochi, rubavamo qualche lattina di Coca Cola dal ristorante dei suoi genitori. Cazzo, mi dispiace che egli abbia procreato così giovane, difatti ha cinque anni meno di me benché io sia decisamente più infantile di lui. Ricordo ancora quando mi diceva: “Oh, io da grande faccio l’avvocato o l’attore porno”. Immagino che la prima carriera potrebbe ancora intraprenderla se decidesse di affrontare un quinquennio di giurisprudenza, ma sospetto che la seconda ormai gli sia preclusa. Dannazione. Durante l’adolescenza i miei conoscenti erano quasi tutti più giovani di me perché i miei coetanei inseguivano già le fighe. Ormai anche quei piccoli disgraziati sono cresciuti e si sono fatti irretire dalle passioni o da qualcos’altro che ne ha annientato lo spirito di un tempo. Io sono sempre la stessa persona, ho maggiore consapevolezza di me e conosco qualche data storica in più rispetto al passato, ma sono ancora un ragazzino segaiolo che sfrutta ogni occasione possibile per ridere senza freni di sé e del mondo che lo circonda. La sindrome di Peter Pan non c’entra nulla. Di gente immatura n’è pieno il mondo, ma io ho ancora il privilegio di conservare in me qualcosa d’infantile che paradossalmente mi ha permesso di crescere bene e continua a sostenermi sopra la coltre di mestizia nella quale spesso si rifugiano i cosiddetti adulti.
Una mattina della scorsa estate ho fatto impazzire il figlio di nove anni di un’amica di mia madre. L’ho battuto sul suo stesso campo e l’ho portato all’esasperazione con un armamentario verbale e facciale, però alla fine, dopo il piacevole spettacolo della sua disperazione, contro le indicazioni della madre, l’ho fatto giocare a Grand Thef Auto: Chinatown Wars e pare che si sia divertito a spacciare cocaina ed eroina mentre compiva omicidi su commissione per conto di Zhou Ming. Fanculo il metodo Montessori, se avessi meno tempo da perdere offrirei nuove teorie alla pedagogia. Comunque, a parte quest’ultimo excursus aneddotico, anch’io dovrei cominciare a guardare il gentil sesso da un punto di vista che non sia autoptico, ma c’è un’altra congiunzione avversativa che si frappone alla natura condizionale della mia intenzione: “Ma!”.
Insomma, di ragazze avvenenti ce ne sono molte e ogni anno ne nascono di nuove, ma io non ho mai conosciuto né incontrato una ragazza interessante o che io reputassi avulsa dalle banalità. In quanto affermo non incide il livello culturale, bensì la personalità e immagino che a ventisei anni per me cominci a diventare piuttosto improbabile la possibilità d’imbattermi in una ragazza che mi sia affine. La solitudine non mi pesa affatto e anch’io, per quanto ne so, le sto simpatico, perciò la preferisco ai rapporti che scaturiscono dal bisogno e dall’insicurezza, come per altro ho già avuto modo di scrivere e dire in altre sedi. Nel mio comune e nelle zone limitrofe non ho mai conosciuto qualcuno che abbia suscitato in me un interesse vivo. Infatuazioni, tutt’al più, mai partite da me, tra l’altro. Insomma, tutto ciò che ho scritto finora esemplifica in parte le ragioni per cui io preservo la verginità. Certa gente mi considera anormale perché non ho mai avuto una fidanzata né ho mai dato un bacio, ma io compatisco chi invece ha dovuto farlo per sentirsi in linea con gli obblighi virili. In me vivono paradossi che trovo fantastici. Sono disinibito, piuttosto libero, lontano dalla maggior parte delle costrizioni che spesso scaturiscono dal giudizio della collettività (o meglio, di una sua parte, quella trascurabile, per inciso) e tutto ciò lo considero più utile, prezioso e persino più simpatico di qualche episodio orgasmico. Beh, posso dire di essermi fatto con le mie mani, con la sinistra precisamente. È buffa la serietà che taluni attribuiscono a certe cose. Per la chiusa di questo appunto prolisso voglio allegare un video che reputo molto interessante. Nel filmato, precisamente dal cinquantunesimo secondo, Franco Battiato intervista Claudio Rocchi e quest’ultimo racconta una sua esperienza che a mio avviso merita un ascolto attento: io la considero una delle cose più interessanti tra quelle che ho udito negli ultimi tempi.
Il ginocchio destro pare che abbia deciso di raccogliere i problemi del sinistro, ma d’altronde le coppie devono condividere tutto per rimanere tali. Pensavo che i dolori rotulei e meniscali si fossero pressoché estinti dalle mie articolazioni, ma purtroppo si sono limitati a traslocare di qualche centimetro in linea d’aria. Non sono un ortopedico e per adesso non intendo consultarne uno. Non posso correre né pedalare e sono già otto giorni che non svolgo attività fisiche troppo intense. Spero che il riposo possa giovare al mio ginocchio. Non pretendo di allenarmi tutta la vita, ma credo che smettere a venticinque anni sia un po’ presto. Non chiedo mai al mio corpo più di quanto possa dare, altrimenti adesso non sarei qui ad annotare questa ovvietà. Il tempo è migliorato nella mia zona e da qualche giorno il mese di maggio offre dei pomeriggi decenti per correre una ventina di chilometri. Mi sento un po’ fuori forma e probabilmente lo sono, ma il mio morale non ne risente e troverò una soluzione per rimettermi in carreggiata. Forse in questo periodo qualche economista vorrebbe esporsi al contagio del mio ottimismo. In maniera sporadica il mio equilibrio è composto anche da rialzi e ribassi. Un po’ di disavanzo interiore lo reputo accettabile e addirittura propedeutico per delineare ogni mia ripresa. Anche quest’oggi non ho granché da annotare a parte i guasti anatomici, ma la linearità della mia esistenza non mi provoca noia né fastidio. Tranne una guarigione celere, non vi sono in me desideri particolari. A differenza di qualche ministro io dormo bene e mi sveglio sereno. Devo ancora scrivere una dozzina di pagine per completare il mio secondo libro ed eseguirne la correzione. Non voglio addossarmi alcuna fretta poiché non ho una tabella di marcia da rispettare. L’estate si avvicina e io non mi allontano.
In questo periodo non ho granché da annotare e con il passare del tempo mi sembra che io abbia sempre meno da scrivere, ma trovo che la sporadicità dei miei appunti sia un fenomeno normale. La mia mente non è sterile, ma non riesce a partorire idee e preferisce godere dei suoi interminabili momenti di serenità. Non ho mai scritto qualcosa di monumentale perché non ho mai giaciuto in una tristezza abissale e dunque non ho mai potuto raggiungere quelle profondità del dolore dalle quali è possibile estrarre concetti di rara bellezza; taluni sono stati trascinati in una ricerca simile senza volerlo e sono rimasti sepolti sotto il peso delle loro scoperte come accade ancor oggi a certi minatori asiatici per un compenso di gran lunga inferiore. Durante le fasi più concitate della mia introspezione mi sono spinto fino a dove ho dovuto, ma non ho mai provato a oltrepassare certi limiti perché per farlo avrei dovuto procurarmi volontariamente del male, ma la mia indole tende verso il bene e per fortuna non sono in grado di arrecare danno a me stesso in maniera intenzionale. Non ho grandi eventi da celebrare né mi fronteggiano chiome che io possa incoronare, ma al cospetto di ogni giorno io provo una sorta di esaltazione per il solo fatto di vivere e questa sensazione non è figlia di alcuna struttura dogmatica. Io non sono in grado di spiegare ciò che alimenta positivamente il mio umore, ma è qualcosa di autentico che sfugge alle parole e che a mio avviso non può scaturire direttamente da nessun indottrinamento. Forse dovrei ricorrere a due termini filosofici per dare una vaga idea di ciò che intendo e con l’accostamento del cinismo filosofico allo stoicismo potrei lasciare un indizio a questo riguardo, tuttavia quest’ultimo risulterebbe tale persino per la mia capacità descrittiva data la natura sfuggente della sensazione stupenda che mi accompagna da un po’ di tempo e che ho fatto oggetto di esame per l’ennesima volta. Se io leggessi queste parole con gli occhi di un estraneo non potrei fare altro che schernirle. Ciò che ho scritto finora risulta vago e approssimativo persino per me, ma il carattere indeterminato di questo appunto non dipende affatto dalla mancanza di conoscenza dell’argomento in questione ed è soltanto la conseguenza della difficoltà di spostare una sensazione da un piano ineffabile a un piano intelligibile. Pazienza.
In questo periodo ritengo che le parole siano più superflue del solito e non le considero adatte per omaggiare la quiete delle mie giornate. Tendo a ripetermi perché la mia vita è abbastanza lineare, tuttavia non mi lascio mai stringere dalla morsa apatica della noia e trovo sempre un modo per eluderla. Sono contento di vivere e non ho bisogno di qualcosa in più sebbene la mia esistenza possa sembrare piuttosto spoglia. Non riesco a trovare un motivo per rattristarmi seriamente, tuttavia sono ancora in grado di incazzarmi ogniqualvolta io lo reputi necessario. Non posso ringraziare le coincidenze perché dubito che la natura delle loro manifestazioni sia intenzionale, ma devo molto a una serie di circostanze casuali che mi hanno permesso di risparmiare tempo al cospetto di problemi comuni e illusori. Ho iniziato a provare sensazioni meravigliose nel momento in cui la mia solitudine è diventata una condizione fantastica. Non oso immaginare in quali condizioni psicofisiche verserei oggi se l’isolamento non mi avesse preso sotto la sua ala. Per me l’equilibrio non è una questione meditativa e riesco a trasporla meglio nei palleggi che eseguo spesso durante il pomeriggio. Non mi piacciono le discussioni profonde, non mi interessano le ricerche collettive, non mi occorrono le pratiche ascetiche e disprezzo ogni atteggiamento intellettuale che pretenda di diventare paradigmatico per trovare una conferma delle sue premesse. Non penso che il valore di una persona sia quantificabile attraverso la sua collezione di consensi e suppongo che in qualsiasi contesto la popolarità non coincida necessariamente con qualcosa di positivo, tuttavia sono molti i comportamenti che hanno come fine l’ottenimento della considerazione altrui e di conseguenza la mia estraneità a questa corsa di cavallette impazzite mi fa sentire fortunato. Non riuscirò mai a levare etichette asociali e misantropiche dalla mia nomea, ma non voglio nemmeno provarci perché non ne sono infastidito e poi sono ben altri gli errori di valutazione che mi preoccupano.
Ho notato che negli ultimi mesi il tono dei miei appunti è stato più frivolo del solito. Credo che il predominio della leggerezza nei miei scritti sia una prova ulteriore del mio distacco dalle problematiche comuni. Non sento più la necessità di affrontare alcuni argomenti, tuttavia l’assenza di questo bisogno non mi preclude la possibilità di trattare nuovamente quei temi che ho pacificato dentro di me attraverso l’introspezione. I miei giorni trascorrono senza intoppi e la loro vitalità è variabile, ma non scende mai sotto il livello di guardia. Non sono un derviscio e piuttosto che ruotare su me stesso preferisco lasciare ai miei coglioni il compito di girare, ma le polemiche puerili e qualche mia battuta infelice non compromettono la struttura portante della mia esistenza. In passato il mio tallone di Achille era costituito dalle mancanze affettive e in particolare dalla mia estraneità all’amore, ma ho superato questo scoglio anche se la mia vita privata non ha avuto ancora la sua genesi e difficilmente ne avrà una. Per me è stato piuttosto arduo riuscire a impedire che l’assenza di emozioni mutue desertificasse le mie capacità empatiche, tuttavia mi sono lasciato alle spalle anche questo ostacolo e il tempo ha giocato un ruolo fondamentale per l’ottenimento di un simile successo. Le difficoltà appaiono magnifiche quando perdono il loro aspetto spaventevole. La mia lotta interiore è iniziata alcuni anni fa sotto i migliori auspici e penso che ormai si sia conclusa con un vittoria ampiamente prevedibile, ma non ho alcuna intenzione di allontanarmi da tutto ciò che mi ha permesso di superare la selezione naturale dell’interiorità. Non ho bisogno di gustare qualche aspettativa per addolcire il presente, tuttavia il futuro è sempre il benvenuto nel mio microcosmo. Ci sono delle parole che sento profondamente e voglio riportarle per concludere questo appunto. La citazione che segue non proviene da un guru canuto con la barba incolta né da un bohémien, ma appartiene a Franklin Delano Roosvelt: “L’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”.
Non sono cagionevole e mi ammalo di rado, ma da alcuni giorni la sinusite e il raffreddore mi costringono a stare tra le mura domestiche. È quasi una settimana che non vado a correre e mi manca l’endorfina che sono abituato a guadagnare a forza di falcate. Dopo una lunga pausa ho ripreso a scrivere il seguito de “La Masturbazione Salvifica: Diario Agiografico Di Un Onanista”, ma finora ho steso soltanto sette pagine: questo dato conferma quanto ho annotato qualche giorno fa a proposito della mia carenza creativa. Per fortuna scrivo per diletto e dunque posso concedere tempi biblici alla redazione dei miei manoscritti. Mi sento bene nonostante la mia mucosa nasale non sia in perfetto stato e respiro il mio benessere nel ventre delle circostanze interiori in cui mi trovo: una condizione che non può essere sottoposta agli esami clinici. Talvolta la frequenza con la quale incorro nei paradossi mi spinge a chiedermi se io mi abbassi a piegare certe idee alle mie esigenze, tuttavia l’entusiasmo che deriva dal mio vuoto positivo produce effetti ricorrenti e reali. Non sono circondato soltanto da sensazioni piacevoli e indipendenti, ma attorno a me orbitano anche dei felini. Sono cresciuto in mezzo ai gatti e conosco l’odore del loro piscio. Fino a qualche anno fa avevo un gatto persiano di cui adoravo l’espressione e l’indolenza e lo ritenevo il capo silenzioso dei suoi quattro compari. Ho avuto anche due cani, un pastore tedesco e un pastore maremmano, ma preferisco i gatti e in particolare i gatti persiani. Non ho mai idealizzato gli animali e non ho mai creduto che le bestie fossero migliori degli esseri umani. Vivo da poco con due nuovi felini che ho battezzato Eisenhower (il maschio) e Mata Hari (la femmina).
Talvolta ho la sensazione che la mia introspezione mi abbia lanciato velocemente verso alcune barriere personali e suppongo che la sua spinta vigorosa mi abbia permesso di superarle. Non temo il dolore interiore e plaudo ancora allo stato atarassico in cui versano beatamente i miei recessi. Nel corso della mia vita non ho mai subito sofferenze rilevanti, ma in passato le mie valutazioni erronee mi hanno indotto a ingigantire le conseguenze di alcuni episodi che rappresentano quasi delle tappe obbligatorie nella crescita di una persona. Sono ancora giovane e ho tutto il tempo per penare, ma non penso di dedicarmi a questa pratica masochistica poiché non rientra nella mia indole. Il mio benessere scaturisce dall’assenza di bisogni impellenti. Non mi serve denaro: spendo poco. Non ho bisogno di sesso: non mi attrae la carnalità senza il collante affettivo e liquido i miei impulsi sessuali con la masturbazione. Non mi occorre l’approvazione di terzi né un attestato di stima: produco personalmente queste suppellettili dell’Ego. Trovo banali le trasgressioni perché penso che possano essere ritenute tali soltanto da coloro che subiscono consciamente o meno l’influenza del retaggio cattolico o di qualche struttura dogmatica che presenti caratteri analoghi. Intendo dire che affinché una trasgressione sia tale, ci devono essere regole morali da infrangere e io ho sradicato tutto questo abbastanza precocemente. Non ho una forma di autorità contro la quale ribellarmi e non avverto la necessità di sovvertire qualcosa o qualcuno. Mi trovo in una condizione che non mi spinge a raggiungere i capisaldi dell’appagamento comune e ritengo che questo stato in alcuni individui possa celare una depressione profonda qualora abbia la convalida dell’apatia, ma io mi mantengo occupato e non sento pressioni né pesi. Se il mio umore fosse cupo io non riuscirei a svolgere alcuna attività fisica: posso fare un’affermazione di questo genere perché conosco le reazioni del mio corpo. Ho l’impressione che la mia verginità si stia trasformando in una sorta di atteggiamento asessuato e credo che questo possa essere un po’ pericoloso. Il mio desiderio di estraniarmi da me stesso per tutelarmi e conoscermi non deve minare le mie potenzialità affettive. Cerco sempre di guardare le mie azioni da due punti e svolgo questo compito in tre fasi. Prima provo a guardare i miei gesti come se non fossero miei, poi levo questa sorta di filtro imparziale (imparziale per quanto possibile, ovviamente) e infine mi osservo nuovamente da lontano come uno spettatore estraneo alle mie circostanze. Ormai tutto questo mi appare banale e in parte semplice poiché ho sviluppato una certa confidenza con me stesso. Non penso che le mancanze affettive possano compromettere la mia esistenza, ma devo ammettere che un tempo avevo paura che l’assenza di certe sensazioni potesse farmi diventare un handicappato sentimentale. Mi rendo conto che posso apparire freddo e distaccato, tuttavia ho un lato passionale che non emerge mai poiché finora non ho mai avuto e non mi sono creato le occasioni per portarlo in superficie. Mi farebbe comodo nascondere certe cose se temessi i miei giudizi, ma trovo che il pubblico ludibrio (in cui io sono il pubblico che deride se stesso) sia un banco di prova fondamentale. Non voglio celare nulla. A me piace essere trasparente e non mi tiro mai indietro dai miei monologhi né dalle conversazioni. Non sono un esibizionista, infatti ho sempre mantenuto un comportamento discreto e un profilo basso. Non apprezzo coloro che cercano alleanze, attenzioni o stimoli, ma capisco che possano sentirne la necessità. Per me le premesse sono fondamentali e come ho già scritto altre volte mi disgusta qualunque rapporto personale che nasca dal bisogno: lo trovo innaturale. Alcuni organismi possono sviluppare una grande tolleranza nei confronti di determinate sostanze e credo che il mio carattere abbia seguito un percorso analogo, infatti riesce a tollerare l’assenza di alcune soddisfazioni che paiono indispensabili a un numero rilevante di persone. Il mio compito è mantenere l’equilibrio tra la grazia del mio benessere interiore e le mie potenzialità affettive e per adesso non ho difficoltà a bilanciare queste due entità. Non è facile adoperare le parole per spiegare a me stesso ciò che intendo, ma io posso comprenderlo ugualmente perché lo vivo. Alcune volte vorrei smettere di crogiolarmi nelle mie conquiste interiori, ma per redigere bollettini funesti dovrei trovare un po’ di disperazione autentica e dubito di poterla rimediare senza una macchina del tempo.