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Del correre e del conoscere

Pubblicato domenica 1 Febbraio 2015 alle 18:57 da Francesco

Quest’oggi ho corso per trenta chilometri in mezzo alla neve e al fango, ma rimando ad un altro momento il resoconto della gara e mi limito a prendere spunto dai pensieri che l’hanno scandita.
Un tempo correvo per compensare le mie mancanze affettive e in questo modo riuscivo a vivere bene nel deserto emotivo in cui ancora dimoro, poi la sublimazione è terminata e sono cambiate le ragioni delle mie falcate. Mi sono reso conto che adesso corro per imparare a morire, cosicché al momento della mia ora io non sia del tutto impreparato, però auguro a me stesso di vivere a lungo e soprattutto bene! Quest’ultimo è un auspicio che rinnovo di tanto in tanto e dunque spero di potermelo ripetere molte altre volte ancora, ma allora dovrei augurarmi lo stesso per la speranza di ripetere l’auspicio di cui sopra: in realtà sono più semplice di quanto appaio. 
Platone stesso afferma nel Fedone che la “filosofia è imparare a morire” e Seneca si occupa di quella che egli chiama ars moriendi, perciò ormai asservisco la corsa e i suoi sforzi a questo tipo di studio: mi occupo della fine. Qualche mese fa ho attestato la scomparsa della sublimazione e già allora sapevo che qualcos’altro le sarebbe subentrato: adesso la sostituzione è chiara.
Oltre a macinare chilometri continuo ad accumulare nozioni, però non credo che l’aumento del bagaglio culturale sia necessariamente un bene e mi sembra che non di rado tale incremento abbia una spinta vanesia quanto quella che induce certuni (compreso il sottoscritto) a lavorare sull’ipertrofia muscolare. Ripeto: sono più semplice di quanto appaio. Anche a Seneca era invisa un certo tipo di conoscenza e c’è un passaggio di una sua lettera in cui secondo me lo dichiara in modo efficace: “Voler conoscere più del necessario è una forma di intemperanza. Che dire poi di questa moda che ci fa seguire le arti liberali e ci rende importuni, prolissi, intempestivi e vanesi e ci ci fa trascurare il necessario perché abbiamo imparato il superfluo?”.

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Mar

L’idea della morte

Pubblicato lunedì 11 Marzo 2013 alle 01:13 da Francesco

La crisi economica pone in risalto una putrefazione sempreverde, quella della psiche. La morte è il leitmotiv che non può più essere celato dal consumismo o dalla frivolezza, però smette anche di trovare come unico spazio la cronaca nera e così riguadagna i palcoscenici delle notti insonni. La paura del domani, le incertezze sul futuro, l’ombra della spada di Damocle: tutto ciò angustia chiunque sia cresciuto nell’illusione di potersene liberare con la buona volontà e solamente con questa. Il dramma dell’esistenza travalica i numeri di un conto corrente: su questo punto sono assai esplicite le casistiche dei suicidi dei paesi più sviluppati. Il clima di insicurezza e sconforto può aiutare il seme dell’autodistruzione a diventare una pianta rampicante verso l’oblio.
Vorrei che ogni individuo avesse delle garanzie materiali, quantomeno per dare a tutti accesso alle stesse possibilità, tuttavia mi domando se taluni sarebbero riusciti a conseguire determinati risultati se non fossero partiti da condizioni di netto svantaggio. La crudeltà della natura per me non è sottoponibile alla morale in quanto la precede e la prescinde, ma ai miei occhi resta uno spettacolo efferato che in qualche misura impatta sulla mia empatia. Non ho soluzioni da dare a terzi e non mi aspetto che altri possano averne per me. Di sicuro la clemenza è umana, ma non del mondo in quanto mondo, bensì in quanto proiezione consolatoria e salvifica.
La mia esistenza è mossa dalla spinta verso la vita e forse è proprio per questo che il pensiero della morte è così ricorrente in me. Per Seneca “è cosa egregia imparare a morire” e non vedo come dargli torto. Non sono eterno né voglio esserlo, ma qui semplifico la faccenda e non tengo in considerazione il finalismo, l’escatologia e tutto l’ambaradan dei pensatori o dei presunti tali. Mi confronto con l’idea della fine senza soccombervi ed è questo che mi appaga; ciò mi permette di condurre un’esistenza che mi auguro longeva, ma che in determinate condizioni potrei anche decidere di terminare anzitempo. Emil Cioran ha campato tanto e sosteneva che per lui la vita non sarebbe stata possibile senza l’idea del suicidio; a tutto ciò si riallaccia anche un libro che sto leggendo ultimamente, Il suicidio e l’anima di James Hillman che mette in risalto l’importanza di esperire la morte. Mi reputo fortunato a frequentare gli abissi con chi già ne ha scandagliato i fondali. Thanatos mi apre sempre di più all’amore, o forse alla sua idea: concretizzarla o meno non è così importante e credo che anche questa sia una delle ragioni per cui non mi pesa il perdurare dello stato virgineo, che è tale sia sotto il profilo platonico che sotto quello carnale. Queste non sono considerazioni meste, ma maestose: è imponenza, non impotenza.

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