La primavera è alle porte e l’avvento imminente della nuova stagione impone un abbigliamento diverso, perciò il drappo rosso che simboleggia la solidarietà nei confronti dei monaci birmani è considerato out mentre si assiste a un revival dell’indignazione per il trattamento che la Cina riserva al Tibet. Mancano pochi mesi all’inizio delle olimpiadi di Pechino, ma a seguito dei fatti recenti qualcuno ha proposto di boicottare l’evento per protestare contro la politica cinese in Tibet come se prima d’ora nessuno conoscesse i problemi che attanagliano questa regione del mondo. In giro per il globo c’è sempre qualche guitto in doppiopetto che è pronto a cavalcare l’onda dell’indignazione popolare per apparire più democratico e umano di quanto lo sia la sua politica interna: si tratta della vecchia storia nella quale il bue dice cornuto all’asino. Vedo delle analogie tra i Paesi Baschi e il Tibet, ma anche con i dovuti distinguo storici mi pare che quest’ultimo goda di maggiore sostegno da parte degli occidentali e oso ipotizzare che buona parte di questa empatia transcontinentale abbia un fondamento iconografico intriso di romanticismo. L’indipendenza non porta sempre benefici e Timor Est ne è la prova, inoltre evidenzia come il successo di una secessione porti con sé un calo notevole dell’interesse per il territorio. Alcuni padani vogliono scindersi dall’Italia, ma non possono reggere il confronto con i colleghi tibetani: la paresi facciale di Umberto Bossi non può competere con l’espressione rubiconda del Dalai Lama.
Il respiro della coscienza: l’evasione dalla fuga
Pubblicato venerdì 26 Ottobre 2007 alle 00:53 da FrancescoUn interrogativo si propaga con la stessa cadenza dei suoi colleghi: “L’amore ruota attorno al popolo della Terra oppure quest’ultimo si limita a roteare una delle sue manopole eteree per sintonizzarsi sulle frequenze dell’utopia?”. La vocazione congenita per l’amore assomiglia a uno spiraglio da cui qualcuno tenta di passare per scappare dalla morte, ma credo che una tale lettura corrompa ogni manifestazione di questo sentimento. Talvolta l’amore e la morte compongono dei drammi ampollosi che si svolgono sulle pagine di un libro, sul palco di un teatro, nell’occhio inflessibile di una telecamera o in una stanza che è destinata a rimanere vuota, ma in tutto questo non vi trovo né pathos né romanticismo fosco. Mi sembra che a volte il desiderio di amare nasconda il timore della morte e penso che queste due entità psicologiche si incrocino più di quanto io riesca a presumere. Ritengo che l’amore non possa essere disinteressato, ma in questo caso al vocabolo “interesse” conferisco un significato più “filosofico” per affrancarlo dalle connotazioni materialistiche dell’eloquio popolare. Talvolta sembra che si debba vivere per sempre e non è semplice emanciparsi da questa illusione poiché è tanto confortante quanto errata. Può risultare sgradevole e difficoltoso guardare le prime avvisaglie della propria finitezza nel fiore degli anni e forse l’impresa diventa ancora più ardua quando si giunge in prossimità della morte senza averla messa in conto. Non penso che sia salutare trascorrere una vita a contemplare la propria finitezza, ma forse questo è ciò che accade quando l’amore viene considerato come un modo per evadere dalla fuga della vita. Qualcuno pretende che l’amore giri in senso antiorario per accedere a un’esistenza perpetua, ma questo genere di pretese assomigliano a quelle di un bambino che non vuole andare a dormire. Trovo che sia indispensabile accettare integralmente la presenza futura della propria assenza qualora si voglia amare in modo sublime. Suppongo che l’amore e la morte agiscano su due piani diversi e si incrocino al sorgere delle problematiche esistenziali nella sfera introspettiva. Non ho mai amato e credo di non essere mai morto finora, ma non ritengo che la mia inesperienza possa pregiudicare in qualche modo le mie considerazioni trascurabili.