Queste sono le prime e uniche pagine di un romanzo che presi a scrivere un po’ di tempo fa, ma di cui quasi subito mi pentii. Invero oggi trovo che lo stile sia apprezzabile, ma ne ho scritti quattro di romanzi brevi e non intendo aggiungerne un quinto alla mia opera omnia.
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Anche le fronde degli alberi erano esposte a mezz’asta e in quella giornata invernale di grandi sconvolgimenti non sembrava che fosse la tramontana a piegarle, bensì il loro avvilimento dava l’idea di una spontanea e arborea compassione. Il pronto soccorso era gremito di malati immaginari e di pazienti gravi, però infermieri e medici riservavano a entrambi il distacco di chi ormai si era assuefatto alle sventure altrui. Da un ginepraio di priorità policromatiche e confuse emerse improvvisamente un ambasciatore in camice bianco: costui non proferì parola poiché aveva imparato a rinunciarci come in un voto di silenzio e, nondimeno, con un lieve cenno del capo, fece intendere ai diretti interessati l’ineluttabilità della situazione, la perdita d’ogni speranza, la resa della medicina. Guardai con la coda dell’occhio chi avevo accompagnato in quel luogo dove ogni dì si smistavano decessi e remissioni. Mi aspettai che all’improvviso il rumore di fondo fosse divelto da urla strazianti e da una scena madre di cui anche l’empatia più parca avrebbe dovuto dare conto, ma evidentemente il sipario era già calato su tutte le reazioni percepibili dall’esterno: il crollo del mondo finì per riguardare solamente quanti fossero tenuti a prendervi parte nelle rispettive coscienze. Alfredo e Monica si strinsero in un dolore di cui ignorai del tutto l’entità in quanto non ero un genitore e, soprattutto, non volevo diventarlo.
Non ci scambiammo manco una frase e a malapena i nostri sguardi s’incrociarono, tuttavia ci intendemmo sul daffarsi e quindi ci avviammo all’uscita, noi che ancora ne eravamo capaci sulle nostre gambe. Salimmo in macchina e mi misi al volante. Non appena inserii la chiave l’autoradio emise un successo di qualche decade prima, ma ebbi un attimo di esitazione a spegnerla poiché la melodia non mi dispiaceva affatto e avvertivo l’inopportuna voglia d’una certa leggerezza. Scrutavo la strada per non incombere in un’occhiata di troppo con i due e ascoltavo il silenzio imperfetto dell’utilitaria. Sorse in me una riflessione di poco conto quando notai alla mia sinistra delle persone allegre che socializzavano sotto il gazebo di un bar, al riparo dalla pioggia e probabilmente da altri aspetti ancor più precipitanti di quella loro quotidianità. Mi venne da pensare all’incommensurabile differenza che in quel preciso momento sussisteva tra il microcosmo là assiso e la struggente realtà di cui mi ero ritrovato traghettatore: la inconciliabilità di stati così opposti e prossimi l’uno all’altro. Per l’ennesima volta fui investito da una conclusione che mi trascinò via con la portata di un’alluvione ciclica in una zona della mia mente a rischio idrogeologico, con straripamenti di liquido rachidiano, frane esistenzialistiche e lampi di gnosi. Quel giorno io ero del tutto equidistante dal dolore di chi mi stava vicino e dalla gioia di quanti invece avevo còlto a breve distanza con lo sguardo mio, però in altri periodi, allora già sfociati nel delta d’un passato più remoto rispetto a quello della presente narrazione, anch’io a mio modo e con gradazioni diverse ero stato un interprete di quegli stati emotivi. Possibile mai che l’esistenza si risolvesse in una successione di umori e sentimenti, ognuno dei quali avanzava senza ritegno né posa il primato della sua caduca reggenza? E quale cattivo gusto persuadeva taluni a industriarsi in opere d’ingegno per celebrare quelle polarizzazioni, a loro volta incensate da quanti sapevano rispecchiarsi in tutta quella pece?
Mi atterriva l’idea di come io stesso in una certa misura fossi ancora in balìa delle fluttuazioni emozionali e al contempo mi consolava il grado di affrancamento al quale ero assurto in quell’àmbito, però ne ravvisavo il suo segno più evidente e gravoso proprio in quest’ultimo rilievo che così ripartivo. Non potevo liquidare i moti più profondi dei recessi altrui con un’aspirazione stoica e anacoretica, anche perché non ne sarei stato capace con i miei, però ne ero oltremodo tentato. Dopo un po’, assorto com’ero in ragionamenti di tale risma e ramingo lungo tortuosità mentali assai diverse dal rettilineo asfaltato sul quale stavo avanzando meccanicamente, mi resi conto che avevo superato la prima uscita utile per giungere a casa dei miei passeggeri; con maggiore prontezza invece mi accorsi di come costoro non mi avessero detto nulla in merito sebbene avessero notato sùbito lo sbaglio.
L’uscita successiva non distava molto e il tragitto si sarebbe allungato di poco se Alfredo non avesse cambiato i piani col mesto placet della moglie: ne assecondai le richieste perché rispettavo il suo lutto e non avevo niente di meglio da fare. «Non ci va di tornare a casa, è troppo presto, fa ancora troppo male. Andiamo a mangiare qualcosa, non importa dove, fai tu» disse l’ormai ex pater familias dopo che ebbe poggiato la sua mano sulla mia spalla per richiamare l’attenzione, anch’essa di mia proprietà.
Sentii il peso di cotanta libertà e fui incerto su quale luogo scegliere per desinare, difatti da quella decisione sarebbero poi dipese le successive cacate. Non tenni affatto conto delle preferenze di terzi benché le conoscessi e optai per una pizzeria poiché quel giorno non volevo avere a che fare con altri cadaveri. Da un po’ di tempo non riuscivo più a consumare carne né pesce e mi pentivo profondamente per averlo fatto in passato, tuttavia non infastidivo il mio prossimo con le scelte etiche a cui mi ero risolto e cercavo per me un gusto superiore, qualcosa che rendesse naturali le piccole rinunce. Invero la mia preferenza non fu dettata soltanto da codeste inezie di carattere personale e dalla prospettiva di assumere grandi quantità di carboidrati, bensì pensai sul serio che una margherita o una quattro formaggi potessero aiutare qualcuno a superare la morte d’un figlio e, cotale idea, mi costrinse ad allungare la lista dei caduti, difatti già dalle prime e sconvenienti avvisaglie fui costretto a soffocare una risata fragorosa che, celere, mi era cresciuta dentro in piena autonomia. Guardai il mondo attraverso il parabrezza per altri dieci chilometri e alla fine raggiunsi il centro desolato di un comune limitrofo. Quasi tutte le sparute anime che v’erano nei paraggi vestivano corpi avvizziti e crani canuti, ma era solamente una questione di tempo prima che i prodromi della bella stagione sottoponessero quell’isolamento e quella senescenza al salvifico vassallaggio dell’impero turistico.
Non fui costretto a lottare contro forze superiori per trovare un parcheggio e me ne rallegrai, ma ancora una volta fui attento a non lasciare che quella piccola frivolezza mi contaminasse il volto e si traducesse in un’espressione equivoca. Nel paese fantasma Alfredo e Monica sapevano confondersi meglio di me con gli evanescenti autoctoni, difatti negli ultimi mesi erano diventati le ombre di loro stessi; io invece mi sentivo come l’Alighieri nel suo viaggio agli inferi ancorché la mia catabasi somigliasse di più a una gita fuoriporta. M’incamminai lentamente verso il corso cittadino e appena vi misi piede fui rapito dai secoli che promanava, come se in qualche vita precedente avessi già respirato quell’aria antica. Non era la prima volta che in quel luogo o altrove qualcosa mi proiettasse verso un passato lontano, in erranza tra ricordi dalle nulle certezze e dal largo anticipo sulla mia nascita. Rallentai il passo e serrai gli occhi per consentire alla fantasia di riempire a piacimento i vuoti di memoria, autentici o apocrifi che fossero: non pretendevo verità né consolazioni. Mi fermai dopo pochi metri dall’inizio delle presunte reminiscenze e alle mie spalle percepii l’assenza della coppia in lutto. Alzai lo sguardo al cielo come per trovare una conferma a quella mia sensazione, tuttavia non ottenni aiuto dalla regia, qualunque essa fosse, così mi voltai per avere la certezza di quella mancanza.
La mia vista si perse oltre l’arco a tutto sesto che aggettava su un fosco orizzonte, ma non vi era traccia alcuna di terzi e forse costoro se le erano portate dietro in un repentino oblio.
Ripercorsi la brevissima andata, alla stregua di chi avverta l’imminenza della morte e rovisti tra i propri ricordi per trovarvi qualcosa da farle indossare a mo’ di senso apparente. Entrambi genuflessi, si consolavano a vicenda in un reciproco abbraccio e da tergo ne osservavo le schiene curve mentre udivo il di lei pianto: così pativano marito e moglie.
I due erano stati colpiti dalla vista di una targa che campeggiava all’ingresso del paese: le incisioni su quel marmo ingiallito commemoravano un ragazzo del posto, vittima di un incidente sul lavoro, ed erano state scritte nella lingua del lutto, la stessa in cui le avevano appena lette i tristi coniugi. Inavvertita e superflua, dalla mia comparsa trassi la prospettiva migliore per contemplare il grande struggimento della posa plastica nella quale ero incorso, una scena quasi scultorea che mi ricordò una pietà rinascimentale ed effettivamente i miei occhi vi si attardarono con quella chiave di lettura.