14
Dic

Editori a pagamento

Pubblicato lunedì 14 Dicembre 2020 alle 22:43 da Francesco

Circa quattro settimane fa sono stato contattato da una casa editrice benché non sia stato io a sollecitarne l’interesse. Un’addetta della società in oggetto, forse mentre cercava istruzioni su come fabbricare ordigni artigianali, s’era imbattuta in un mio libercolo di qualche anno fa, Nuovo nichilismo solidale, e così, illico et immediate, mi aveva chiesto di inviarle il testo completo affinché un presunto comitato di lettura potesse valutarne un’eventuale pubblicazione.
Dopo una rapida ricerca sulla sua casa editrice avevo capito che si trattava di un editore a pagamento, ovvero un’entità verso cui nutro la stessa simpatia che gli azeri riservano agli armeni e viceversa. Per gentilezza e invero anche per curiosità avevo risposto quasi subito alla collaboratrice di cui sopra, avendo cura di specificarle come non fossi affatto interessato a condividere il rischio d’impresa con la sua azienda, ma a seguito di questa mia precisazione lei mi aveva invitato a spedirle comunque il PDF dello scritto poiché il presunto comitato di lettura ne avrebbe valutato una pubblicazione che non avesse richiesto contributi di sorta da parte mia.
Qualche giorno addietro, ormai quasi del tutto dimentico della circostanza testé raccontata, mi è giunta una telefonata da un tizio a cui la collega aveva passato la palla. La conversazione è stata rapida e indolore, ho persino reso edotto il mio interlocutore di come a mio avviso sia meglio spendere del denaro per la promozione di un’opera piuttosto che usarlo per l’acquisto di eroina, ma ho ribadito come non sia interessato alla faccenda poiché detesto tanto le illusioni quanto le droghe. Non pago di questa mia risposta, costui ha sottoposto alla mia attenzione una “proposta di contratto” tramite posta elettronica, perciò mi sono sentito in dovere di rispondergli a mia volta con un’epistola digitale che riporto di seguito.

Per me si tratta di una proposta irricevibile poiché sono contrario a qualunque forma di editoria a pagamento, ma questa mia posizione era già emersa nel corso della nostra telefonata.
Se il mio scritto fosse davvero valido e presentasse realmente una potenziale commerciabilità allora non sussisterebbe l’esigenza di condividere il rischio d’impresa.
Il vostro modus operandi è adottato anche da altri, tuttavia non è la prassi e posso affermarlo senza tema di smentita poiché conosco realtà editoriali, piccole e grandi, che non chiedono contributi agli autori. Comprenderei e accetterei finanche la proposta di un editore che mi chiedesse di rinunciare per sempre a qualunque diritto per lo sfruttamento commerciale dell’opera, ma per principio non sborserei mai del denaro di tasca mia a meno che non decidessi di investire su me stesso in piena autonomia.
Dieci anni fa, per il mio secondo libro, rifiutai l’offerta di un piccolo editore che mi chiese soltanto un modesto contributo per i bollini SIAE, ergo su questo punto sono inamovibile. Inoltre non ho mai avuto velleità da scrittore proprio perché conosco lo stato dell’arte (in senso lato e letterale) e difatti consiglio a chiunque di preferire la pratica dell’atletica leggera all’esercizio della cultura, giacché quest’ultima ormai s’è fatta asettico numero e solo in rari casi assurge allo stesso grado del bilancio aziendale.
Vi ringrazio comunque per l’interesse, vi porgo cordiali saluti e vi auguro un buon Sol Invictus.



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19
Ott

Un incipit e poco più

Pubblicato lunedì 19 Ottobre 2020 alle 17:30 da Francesco

Quello seguente è il testo iniziale d’un romanzo che non ho mai portato avanti e al quale ho deciso di negare ogni possibile sviluppo, perciò mi sono convinto a riversarlo su queste pagine virtuali.

Anche le fronde degli alberi erano esposte a mezz’asta e in quella giornata invernale di grandi sconvolgimenti non sembrava che fosse la tramontana a piegarle, bensì il loro avvilimento dava l’idea di una spontanea e arborea compassione. Il pronto soccorso era gremito di malati immaginari e di pazienti gravi, però infermieri e medici riservavano a entrambi il distacco di chi ormai si era assuefatto alle sventure altrui. Da un ginepraio di priorità policromatiche e confuse emerse improvvisamente un ambasciatore in camice bianco: costui non proferì parola poiché aveva imparato a rinunciarci come in un voto di silenzio e, nondimeno, con un lieve cenno del capo, fece intendere ai diretti interessati l’ineluttabilità della situazione, la perdita d’ogni speranza, la resa della medicina.
Guardai con la coda dell’occhio chi avevo accompagnato in quel luogo dove ogni dì si smistavano decessi e remissioni. Mi aspettai che all’improvviso il rumore di fondo fosse divelto da urla strazianti e da una scena madre di cui anche l’empatia più parca avrebbe dovuto dare conto, ma evidentemente il sipario era già calato su tutte le reazioni percepibili dall’esterno: il crollo del mondo finì per riguardare solamente quanti fossero tenuti a prendervi parte nelle rispettive coscienze. Alfredo e Monica si strinsero in un dolore di cui ignorai del tutto l’entità in quanto non ero un genitore e, soprattutto, non volevo diventarlo.
Non ci scambiammo manco una frase e a malapena i nostri sguardi s’incrociarono, tuttavia ci intendemmo sul daffarsi e quindi ci avviammo all’uscita, noi che ancora ne eravamo capaci sulle nostre gambe. Salimmo in macchina e mi misi al volante. Non appena inserii la chiave l’autoradio emise un successo di qualche decade prima, ma ebbi un attimo di esitazione a spegnerla poiché la melodia non mi dispiaceva affatto e avvertivo l’inopportuna voglia d’una certa leggerezza. Scrutavo la strada per non incombere in un’occhiata di troppo con i due e ascoltavo il silenzio imperfetto dell’utilitaria. Sorse in me una riflessione trascurabile appena scorsi alla mia sinistra delle persone allegre che socializzavano sotto il gazebo di un bar, al riparo dalla pioggia e probabilmente da altri aspetti ancor più precipitanti di quella loro quotidianità. Mi venne da pensare all’incommensurabile differenza che in quel preciso momento sussisteva tra il microcosmo là assiso e il dramma di cui mi ero ritrovato traghettatore e testimone, ovvero alla differenza di situazioni così opposte e prossime. Per l’ennesima volta fui investito da una conclusione che mi trascinò via con la portata di un’alluvione ciclica in una zona della mia mente a rischio idrogeologico, con straripamenti di liquido rachidiano, frane esistenzialistiche e lampi di gnosi. Quel giorno io ero del tutto equidistante dal dolore di chi mi stava vicino e dalla gioia di quanti invece avevo còlto a breve distanza con lo sguardo mio, però in altri periodi, allora già sfociati nel delta d’un passato più remoto rispetto a quello della presente narrazione, anch’io a mio modo e con gradazioni diverse ero stato un interprete di quegli stati emotivi. Possibile mai che l’esistenza si risolvesse in una successione di umori e sentimenti, ognuno dei quali avanzava senza ritegno né posa il primato della sua caduca reggenza? E quale cattivo gusto persuadeva taluni a industriarsi in opere d’ingegno per celebrare quelle polarizzazioni, a loro volta incensate da quanti sapevano rispecchiarsi in tutta quella pece?
Mi atterriva l’idea di come io stesso in una certa misura fossi ancora in balìa delle fluttuazioni emozionali e al contempo mi consolava il grado di affrancamento al quale ero assurto in quell’àmbito, però ne ravvisavo il suo segno più evidente e gravoso proprio in quest’ultimo rilievo che così ripartivo. Non potevo liquidare i moti più profondi dei recessi altrui con un’aspirazione stoica e anacoretica, anche perché non ne sarei stato capace con i miei, però ne ero oltremodo tentato. Dopo un po’, assorto com’ero in ragionamenti di tale risma e ramingo lungo tortuosità mentali assai diverse dal rettilineo asfaltato sul quale stavo avanzando meccanicamente, mi resi conto che avevo superato la prima uscita utile per giungere a casa dei miei passeggeri; con maggiore prontezza invece mi accorsi di come costoro non mi avessero detto nulla in merito sebbene avessero notato sùbito lo sbaglio.
L’uscita successiva non distava molto e il tragitto si sarebbe allungato di poco se Alfredo non avesse cambiato i piani col mesto placet della moglie: ne assecondai le richieste perché rispettavo il suo lutto e non avevo niente di meglio da fare. «Non ci va di tornare a casa, è troppo presto, fa ancora troppo male. Andiamo a mangiare qualcosa, non importa dove, fai tu» disse l’ormai ex pater familias dopo che ebbe poggiato la sua mano sulla mia spalla per richiamare l’attenzione, anch’essa di mia proprietà.
Sentii il peso di cotanta libertà e fui incerto su quale luogo scegliere per desinare, difatti da quella decisione sarebbero poi dipese le successive cacate. Non tenni affatto conto delle preferenze di terzi benché le conoscessi e optai per una pizzeria poiché quel giorno non volevo avere a che fare con altri cadaveri. Da un po’ di tempo non riuscivo più a consumare carne né pesce e mi pentivo profondamente per averlo fatto in passato, tuttavia non infastidivo il mio prossimo con le scelte etiche a cui mi ero risolto e cercavo per me un gusto superiore, qualcosa che rendesse naturali le piccole rinunce. Invero la mia preferenza non fu dettata soltanto da codeste inezie di carattere personale e dalla prospettiva di assumere grandi quantità di carboidrati, bensì pensai sul serio che una margherita o una quattro formaggi potessero aiutare qualcuno a superare la morte d’un figlio e, cotale idea, mi costrinse ad allungare la lista dei caduti, difatti già dalle prime e sconvenienti avvisaglie fui costretto a soffocare una risata fragorosa che, celere, mi era cresciuta dentro in piena autonomia.
Guardai il mondo attraverso il parabrezza per altri dieci chilometri e alla fine raggiunsi il centro desolato di un comune limitrofo. Quasi tutte le sparute anime che v’erano nei paraggi vestivano corpi avvizziti e crani canuti, ma era solamente una questione di tempo prima che i prodromi della bella stagione sottoponessero quell’isolamento e quella senescenza al salvifico vassallaggio dell’impero turistico.
Non fui costretto a lottare contro forze superiori per trovare un parcheggio e me ne rallegrai, ma ancora una volta fui attento a non lasciare che quella piccola frivolezza mi contaminasse il volto e si traducesse in un’espressione equivoca. Nel paese fantasma Alfredo e Monica sapevano confondersi meglio di me con gli evanescenti autoctoni, difatti negli ultimi mesi erano diventati le ombre di loro stessi; io invece mi sentivo come l’Alighieri nel suo viaggio agli inferi ancorché la mia catabasi assomigliasse di più a una gita fuori porta. M’incamminai lentamente verso il corso cittadino e appena vi misi piede fui rapito dai secoli che promanava, come se in qualche vita precedente avessi già respirato quell’aria antica. Non era la prima volta che in quel luogo o altrove qualcosa mi proiettasse verso un passato lontano, in erranza tra ricordi dalle nulle certezze e dal largo anticipo sulla mia nascita. Rallentai il passo e serrai gli occhi per consentire alla fantasia di riempire a piacimento i vuoti di memoria, autentici o apocrifi che fossero: non pretendevo verità né consolazioni. Mi fermai dopo pochi metri dall’inizio delle presunte reminiscenze e alle mie spalle percepii l’assenza della coppia in lutto. Alzai lo sguardo al cielo come per trovare una conferma a quella mia sensazione, tuttavia non ottenni aiuto dalla regia, qualunque essa fosse, così mi voltai per avere la certezza di quella mancanza.
La mia vista si perse oltre l’arco a tutto sesto che aggettava su un fosco orizzonte, ma non vi era traccia alcuna di terzi e forse costoro se le erano portate dietro in un repentino oblio.
Ripercorsi la brevissima andata, alla stregua di chi avverta l’imminenza della morte e rovisti tra i propri ricordi per trovarvi qualcosa da farle indossare a mo’ di senso apparente. Entrambi genuflessi, si consolavano a vicenda in un reciproco abbraccio e da tergo ne osservavo le schiene curve mentre udivo il di lei pianto: così pativano marito e moglie.
I due erano stati colpiti dalla vista di una targa che campeggiava all’ingresso del paese: le incisioni su quel marmo ingiallito commemoravano un ragazzo del posto, vittima di un incidente sul lavoro, ed erano state scritte nella lingua del lutto, la stessa in cui le avevano appena lette i tristi coniugi. Inavvertita e superflua, dalla mia comparsa trassi la prospettiva migliore per contemplare il grande struggimento della posa plastica nella quale ero incorso, una scena quasi scultorea che mi ricordò una pietà rinascimentale ed effettivamente i miei occhi vi si attardarono con quella chiave di lettura.

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1
Set

Poco più d’un incipit

Pubblicato domenica 1 Settembre 2019 alle 22:24 da Francesco

Queste sono le prime e uniche pagine di un romanzo che presi a scrivere un po’ di tempo fa, ma di cui quasi subito mi pentii. Invero oggi trovo che lo stile sia apprezzabile, ma ne ho scritti quattro di romanzi brevi e non intendo aggiungerne un quinto alla mia opera omnia.

  
Anche le fronde degli alberi erano esposte a mezz’asta e in quella giornata invernale di grandi sconvolgimenti non sembrava che fosse la tramontana a piegarle, bensì il loro avvilimento dava l’idea di una spontanea e arborea compassione. Il pronto soccorso era gremito di malati immaginari e di pazienti gravi, però infermieri e medici riservavano a entrambi il distacco di chi ormai si era assuefatto alle sventure altrui. Da un ginepraio di priorità policromatiche e confuse emerse improvvisamente un ambasciatore in camice bianco: costui non proferì parola poiché aveva imparato a rinunciarci come in un voto di silenzio e, nondimeno, con un lieve cenno del capo, fece intendere ai diretti interessati l’ineluttabilità della situazione, la perdita d’ogni speranza, la resa della medicina. Guardai con la coda dell’occhio chi avevo accompagnato in quel luogo dove ogni dì si smistavano decessi e remissioni. Mi aspettai che all’improvviso il rumore di fondo fosse divelto da urla strazianti e da una scena madre di cui anche l’empatia più parca avrebbe dovuto dare conto, ma evidentemente il sipario era già calato su tutte le reazioni percepibili dall’esterno: il crollo del mondo finì per riguardare solamente quanti fossero tenuti a prendervi parte nelle rispettive coscienze. Alfredo e Monica si strinsero in un dolore di cui ignorai del tutto l’entità in quanto non ero un genitore e, soprattutto, non volevo diventarlo.

Non ci scambiammo manco una frase e a malapena i nostri sguardi s’incrociarono, tuttavia ci intendemmo sul daffarsi e quindi ci avviammo all’uscita, noi che ancora ne eravamo capaci sulle nostre gambe. Salimmo in macchina e mi misi al volante. Non appena inserii la chiave l’autoradio emise un successo di qualche decade prima, ma ebbi un attimo di esitazione a spegnerla poiché la melodia non mi dispiaceva affatto e avvertivo l’inopportuna voglia d’una certa leggerezza. Scrutavo la strada per non incombere in un’occhiata di troppo con i due e ascoltavo il silenzio imperfetto dell’utilitaria. Sorse in me una riflessione di poco conto quando notai alla mia sinistra delle persone allegre che socializzavano sotto il gazebo di un bar, al riparo dalla pioggia e probabilmente da altri aspetti ancor più precipitanti di quella loro quotidianità. Mi venne da pensare all’incommensurabile differenza che in quel preciso momento sussisteva tra il microcosmo là assiso e la struggente realtà di cui mi ero ritrovato traghettatore: la inconciliabilità di stati così opposti e prossimi l’uno all’altro. Per l’ennesima volta fui investito da una conclusione che mi trascinò via con la portata di un’alluvione ciclica in una zona della mia mente a rischio idrogeologico, con straripamenti di liquido rachidiano, frane esistenzialistiche e lampi di gnosi. Quel giorno io ero del tutto equidistante dal dolore di chi mi stava vicino e dalla gioia di quanti invece avevo còlto a breve distanza con lo sguardo mio, però in altri periodi, allora già sfociati nel delta d’un passato più remoto rispetto a quello della presente narrazione, anch’io a mio modo e con gradazioni diverse ero stato un interprete di quegli stati emotivi. Possibile mai che l’esistenza si risolvesse in una successione di umori e sentimenti, ognuno dei quali avanzava senza ritegno né posa il primato della sua caduca reggenza? E quale cattivo gusto persuadeva taluni a industriarsi in opere d’ingegno per celebrare quelle polarizzazioni, a loro volta incensate da quanti sapevano rispecchiarsi in tutta quella pece?

Mi atterriva l’idea di come io stesso in una certa misura fossi ancora in balìa delle fluttuazioni emozionali e al contempo mi consolava il grado di affrancamento al quale ero assurto in quell’àmbito, però ne ravvisavo il suo segno più evidente e gravoso proprio in quest’ultimo rilievo che così ripartivo. Non potevo liquidare i moti più profondi dei recessi altrui con un’aspirazione stoica e anacoretica, anche perché non ne sarei stato capace con i miei, però ne ero oltremodo tentato. Dopo un po’, assorto com’ero in ragionamenti di tale risma e ramingo lungo tortuosità mentali assai diverse dal rettilineo asfaltato sul quale stavo avanzando meccanicamente, mi resi conto che avevo superato la prima uscita utile per giungere a casa dei miei passeggeri; con maggiore prontezza invece mi accorsi di come costoro non mi avessero detto nulla in merito sebbene avessero notato sùbito lo sbaglio.

L’uscita successiva non distava molto e il tragitto si sarebbe allungato di poco se Alfredo non avesse cambiato i piani col mesto placet della moglie: ne assecondai le richieste perché rispettavo il suo lutto e non avevo niente di meglio da fare. «Non ci va di tornare a casa, è troppo presto, fa ancora troppo male. Andiamo a mangiare qualcosa, non importa dove, fai tu» disse l’ormai ex pater familias dopo che ebbe poggiato la sua mano sulla mia spalla per richiamare l’attenzione, anch’essa di mia proprietà.

Sentii il peso di cotanta libertà e fui incerto su quale luogo scegliere per desinare, difatti da quella decisione sarebbero poi dipese le successive cacate. Non tenni affatto conto delle preferenze di terzi benché le conoscessi e optai per una pizzeria poiché quel giorno non volevo avere a che fare con altri cadaveri. Da un po’ di tempo non riuscivo più a consumare carne né pesce e mi pentivo profondamente per averlo fatto in passato, tuttavia non infastidivo il mio prossimo con le scelte etiche a cui mi ero risolto e cercavo per me un gusto superiore, qualcosa che rendesse naturali le piccole rinunce. Invero la mia preferenza non fu dettata soltanto da codeste inezie di carattere personale e dalla prospettiva di assumere grandi quantità di carboidrati, bensì pensai sul serio che una margherita o una quattro formaggi potessero aiutare qualcuno a superare la morte d’un figlio e, cotale idea, mi costrinse ad allungare la lista dei caduti, difatti già dalle prime e sconvenienti avvisaglie fui costretto a soffocare una risata fragorosa che, celere, mi era cresciuta dentro in piena autonomia. Guardai il mondo attraverso il parabrezza per altri dieci chilometri e alla fine raggiunsi il centro desolato di un comune limitrofo. Quasi tutte le sparute anime che v’erano nei paraggi vestivano corpi avvizziti e crani canuti, ma era solamente una questione di tempo prima che i prodromi della bella stagione sottoponessero quell’isolamento e quella senescenza al salvifico vassallaggio dell’impero turistico.

Non fui costretto a lottare contro forze superiori per trovare un parcheggio e me ne rallegrai, ma ancora una volta fui attento a non lasciare che quella piccola frivolezza mi contaminasse il volto e si traducesse in un’espressione equivoca. Nel paese fantasma Alfredo e Monica sapevano confondersi meglio di me con gli evanescenti autoctoni, difatti negli ultimi mesi erano diventati le ombre di loro stessi; io invece mi sentivo come l’Alighieri nel suo viaggio agli inferi ancorché la mia catabasi somigliasse di più a una gita fuoriporta. M’incamminai lentamente verso il corso cittadino e appena vi misi piede fui rapito dai secoli che promanava, come se in qualche vita precedente avessi già respirato quell’aria antica. Non era la prima volta che in quel luogo o altrove qualcosa mi proiettasse verso un passato lontano, in erranza tra ricordi dalle nulle certezze e dal largo anticipo sulla mia nascita. Rallentai il passo e serrai gli occhi per consentire alla fantasia di riempire a piacimento i vuoti di memoria, autentici o apocrifi che fossero: non pretendevo verità né consolazioni. Mi fermai dopo pochi metri dall’inizio delle presunte reminiscenze e alle mie spalle percepii l’assenza della coppia in lutto. Alzai lo sguardo al cielo come per trovare una conferma a quella mia sensazione, tuttavia non ottenni aiuto dalla regia, qualunque essa fosse, così mi voltai per avere la certezza di quella mancanza.

La mia vista si perse oltre l’arco a tutto sesto che aggettava su un fosco orizzonte, ma non vi era traccia alcuna di terzi e forse costoro se le erano portate dietro in un repentino oblio.
Ripercorsi la brevissima andata, alla stregua di chi avverta l’imminenza della morte e rovisti tra i propri ricordi per trovarvi qualcosa da farle indossare a mo’ di senso apparente. Entrambi genuflessi, si consolavano a vicenda in un reciproco abbraccio e da tergo ne osservavo le schiene curve mentre udivo il di lei pianto: così pativano marito e moglie.
I due erano stati colpiti dalla vista di una targa che campeggiava all’ingresso del paese: le incisioni su quel marmo ingiallito commemoravano un ragazzo del posto, vittima di un incidente sul lavoro, ed erano state scritte nella lingua del lutto, la stessa in cui le avevano appena lette i tristi coniugi. Inavvertita e superflua, dalla mia comparsa trassi la prospettiva migliore per contemplare il grande struggimento della posa plastica nella quale ero incorso, una scena quasi scultorea che mi ricordò una pietà rinascimentale ed effettivamente i miei occhi vi si attardarono con quella chiave di lettura.

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1
Lug

Pubblicazione di Nuovo nichilismo solidale

Pubblicato venerdì 1 Luglio 2016 alle 23:59 da Francesco

A quattro anni dalla sua stesura ho deciso di rendere disponibile il mio ultimo libro in formato cartaceo e digitale. Non penso che nello spazio profondo o sul globo terracqueo qualcuno sia davvero interessato a ciò che scrivo, però ai miei occhi la mancanza di un qualsiasi seguito non toglie nulla al valore proprio della cosa: si tratta di aseità.
Mi preme ricordare come Nuovo nichilismo solidale fu scelto da una platea di cinquemila testi per concorrere in un talent letterario di dubbio gusto che andò in ondà su Rai Tre nell’anno di grazia duemilatredici; io stesso mi recai a Torino per prendere parte alla trasmissione e nonostante il consenso unanime dei tre giudici fui eliminato. Contro di me vinse una concorrente che manco poteva partecipare al concorso poiché aveva già all’attivo una pubblicazione e tale circostanza era espressamente vietata dal regolamento; regolamento al quale, come sovente capita nelle terre italiche, fu data scarsa importanza, tanto da sembrare quasi facoltativo.
Comunque poco male: pochi giorni dopo le registrazioni del programma partecipai alla cento chilometri delle Alpi e arrivai sesto, stabilendo il record personale di nove ore spaccate che non ho ancora battuto. Ah già, il mio cazzo di libro. Se qualcuno volesse azzardarsi a prenderne una copia a spese degli alberi può trovarlo qui; invece chi preferisse il formato digitale può trovare l’e-book su Amazon.

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18
Ott

Ricorsi ideografici

Pubblicato martedì 18 Ottobre 2011 alle 02:17 da Francesco

Ho sistemato un po’ di cose su queste paginette: in particolare refusi e collegamenti mancanti. Da alcune settimane mi sono riavvicinato alla lingua nipponica. Ho ripreso a scrivere ideogrammi e per adesso sono riuscito a ricordarne centosessantacinque, però penso di poterne rievocare almeno duecento dalla memoria e mi aspetto di impararne molti altri. Sono contento di ricordare un’ampia parte di ciò che ho studiato, ma dovrei apprendere molto di più per essere in grado di sostenere una conversazione: taluni non ci riescono manco nella loro lingua madre nonostante sappiano parlarla e scriverla…
Al momento non conosco abbastanza ideogrammi per leggere una rivista, però tratto ogni kanji come se fosse il pezzo di una collezione e mi diverto ad ampliare la mia raccolta. Insomma, più che allo studio vero e proprio questo passatempo (che non escludo di abbandonare e riprendere in futuro) è più vicino alla filatelia. Una delle prime parole che ho imparato in giapponese è stata “on-ko-chi-shin”, formata da quattro ideogrammi il cui significato è il seguente: imparare dal passato. Vorrei tornare in Giappone, ma in questo momento non posso e anche se ne avessi la possibilità non partirei poiché non lo reputo affatto un frangente adatto.
Comunque nella scrittura ideografica ho imparato a rispettare l’ordine dei tratti, almeno per i kanji meno complessi. La mia calligrafia (per vedere l’immagine ingrandita è sufficiente cliccarci sopra) è un po’ incerta, ma d’altronde anche in italiano, sia in stampatello che in corsivo, ho sempre lasciato a desiderare. In compenso sono una scheggia con la tastiera.

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27
Mar

Pubblicazione de “L’atea verginità, la beata verginità”

Pubblicato domenica 27 Marzo 2011 alle 23:10 da Francesco

Dopo mesi di ritardo e un contratto stracciato, ho deciso di pubblicare il mio secondo libro attraverso Internet. Il testo può essere scaricato come e-book alla faraonica cifra di un euro e cinque centesimi su Amazon.
In una sezione del blog intitolata “I miei libri” ho inserito anche il mio primo scritto che può essere richiesto gratuitamente in formato PDF: “La masturbazione salvifica: diario agiografico di un onanista”.
Non ho i mezzi di una casa editrice e dubito che io possa ottenere qualsivoglia riscontro, tuttavia sono soddisfatto di ciò che ho creato e conto di ripetermi. La scrittura mi aiuta a vivere meglio e assieme alla lettura mi consente di sopportare agevolmente le carenze affettive: un po’ come l’assunzione di ferro per gli anemici.

L'atea verginità, la beata verginità
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3
Mar

Opera omnia

Pubblicato giovedì 3 Marzo 2011 alle 21:21 da Francesco

Finalmente sono riuscito a svincolarmi dalla casa editrice che avrebbe dovuto pubblicare il mio secondo libro. Cercherò di distribuire “L’atea verginità, la beata verginità” sia come e-book che in formato cartaceo attraverso un servizio di print on demand. Non mi aspetto grandi risultati né d’altronde vi ambisco, ma voglio che le mie unità di memoria non abbiano più l’esclusiva sul mio materiale. Probabilmente all’inizio di aprile renderò disponibile il testo suddetto, ma intanto ripropongo su queste pagine (alle quali l’avevo sottratto) il mio esordio, seppur con un editing migliore e un’altra copertina: La masturbazione salvifica: diario agiografico di un onanista.
Non sono molto legato al primo libro e già in altri appunti ho sottolineato il carattere obsoleto dello scritto, tuttavia nelle note alla seconda edizione ne ho ribadito i limiti per l’ennesima volta.
Per adesso il file è in formato PDF, però nei prossimi giorni cercherò di creare altre copie con estensioni  specifiche per i lettori di e-book ed eventualmente aggiornerò questo post.

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18
Feb

Questioni editoriali

Pubblicato venerdì 18 Febbraio 2011 alle 19:05 da Francesco

Tra me e la mia casa editrice c’è una questione insoluta legata alla SIAE, un ente che secondo me dovrebbe scomparire assieme ai suoi fautori. Probabilmente questo bracco di ferro finirà con la risoluzione del contratto, senza tarallucci né vino di cui non sentirò certo la mancanza poiché in questo periodo non tocco dolciumi e sono astemio: al massimo potrei usare il vassoio come corpo contundente. Ho ventisei anni e mi sento appagato. Su di me non c’è nessuno che possa fare leva sul narcisismo artistico poiché quest’ultimo io non lo conosco, tuttavia quando sono in forma devo ammettere che pratico l’autocompiacimento davanti allo specchio ed è questo che io voglio riprendermi dopo il soggiorno nipponico. A me non frega una beneamata minchia di pubblicare a tutti i costi il mio secondo libro.
Qualche mese fa ho deciso di confrontarmi con l’editoria italiana poiché ritenevo che fosse un atto dovuto verso la mia scrittura, ma non mi aspettavo nulla pur riconoscendo al mio scritto un certo valore. Non ho bisogno di critici per valutare il mio operato e difatti ho evitato di spedire il mio primo libro in giro per l’Italia poiché non soddisfaceva i miei canoni. Ovviamente mi sarebbe piaciuto avere le spalle coperte da una casa editrice e fruire della possibilità di fare lo scrittore. La vita è fatta anche di rinunce, ma le mie sono poca cosa rispetto a quelle di tanti altri. C’è chi immola la propria felicità per pagarsi un abbonamento vitalizio al senso del dramma e vivere in base alle scelte che altri hanno preso per lui. Come la stragrande maggioranza delle persone io non sono completamente libero, però lo sono in larga misura dalle catene che potrei impormi e questo è un privilegio tale che per taluni risulta addirittura inconcepibile. Probabilmente non sarò mai nessuno e nessuno mai mi farà la cortesia d’aprirmi il suo cuore, però cazzo, quanto mi diverto in questa vita. Intanto che i miei simili si struggono, inseguono successo o potere, io mi diletto ad ascoltare Nuvole Senza Messico di Giorgio Canali e Rossofuoco.

È la vita che va è la vita che va,
è una piccola morte che viene
esercizi di stile che scorrono nelle vene

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