Scrivo qualcosa su quel passatempo con cui mi illudo di allungare i telomeri, ma sarebbe meglio che spendessi delle parole su qualcos’altro. Ieri alla Maratona di Roma ho corso di proposito senza orologio e con appena ventitré chilometri di allenamento nelle ultime tre settimane (di cui cinque in una staffetta e diciotto veloci qualche giorno prima della gara).
Sono partito forte, troppo forte, e per quasi venti chilometri ho seguito una kazaka che poi ha chiuso in due ore e quarantatré minuti: un tempo irrealistico per me.
Ho corso la prima metà in un’ora e ventuno minuti, la seconda in un’ora e trentacinque minuti: porco dio! La crisi è cominciata al ventottesimo chilometro, bella prematura come i mali incurabili che falcidiano i più sfortunati alla grande lotteria della genetica.
Ho pensato al ritiro fino al quarantesimo chilometro, ma a forza di ripetermelo come un mantra quel comprensibile intento ha perso di significato. Solo al mio secondo Passatore ho sofferto più di ieri mattina. Il paradosso è che in una gara gestita malissimo ho chiuso con un tempo per me soddisfacente, ovvero due ore, cinquantasei minuti e ventiquattro secondi: si tratta del mio secondo miglior risultato di sempre in maratona!
Non ho mai accusato così tanto le asperità dei sanpietrini: ottimi come armi improprie per gli scontri di piazza, un po’ meno per correrci. Alla fine ho chiuso 158° su 11486 e sulla via del ritorno, in una piccola libreria, ho anche trovato una buona versione dell’Eneide a sette euro.
Ho deciso di mettere a piè di pagina le foto impietose che mi ritraggono in prossimità dell’arrivo perché in quei quarantadue chilometri ho alzato ancora una volta la soglia di sopportazione del dolore: ieri la vera prestazione è stata caratteriale, non atletica.