Nelle frequentazione postuma e cadaverica col pensiero di Georges Bataille ho trovato una certa consonanza, ma anche un ulteriore amico d’avello. Più che le carni, a me strappa un sorriso e un cenno d’assenso la sua visione della manducazione, della riproduzione sessuata e della morte come dei lussi: la prima perché evidenzia la maggiore complessità della catena alimentare ed energetica negli animali onnivori, la seconda in analogia col fenomeno della scissiparità e l’ultima, la morte, intesa quale maggiore tra i lussi in quanto dispendio rivelatore e trascendente. La cornice ovviamente non è quella della morale: è questione altra.
A mio parere ancor oggi si dimostra audace e suggestivo il concetto di dépense, così come attuali sono le implicazioni politiche ed economiche di cui è portatore, ma per me risultano più stimolanti le sue premesse etnografiche e la conclusione di Bataille col senso d’appartenenza a un certo misticismo. Mi vedo già fare un uso improprio anche di questo impianto speculativo per rivendicare e celebrare le beate distanze dai peggiori gravami dello zoon politikon.
La parte maledetta di Georges Bataille
Pubblicato giovedì 22 Febbraio 2024 alle 18:21 da FrancescoIl sé viene alla mente di Antonio Damasio
Pubblicato venerdì 16 Giugno 2023 alle 00:18 da FrancescoQualche settimana fa ho terminato la gradevole lettura de Il sé viene alla mente, un saggio neuroscientifico in cui Antonio Damasio si avventura in una speculazione volta a rintracciare le fondamenta fisiologiche della coscienza. È un lavoro articolato, certosino, in cui ho trovato una buona esposizione con uno stile potabile, perciò fruibile anche da chi non sia un addetto ai lavori. I miei pochi e sparuti appunti non rendono giustizia al testo.
Nello scritto il sé è presentato come un processo diadico diviso in sé-oggetto e sé-soggetto, laddove il secondo deriva dal primo benché il sé-oggetto abbia una portata più limitata: tra i due vi è continuità e progressione, nessuna opposizione. I concetti di proto-sé (sentimenti primordiali), sé nucleare (relazione tra organismo e oggetto) e sé autobiografico (“pulsazioni” del sé nucleare) sono gli stadi che rappresentano l’ascesa del sé alla mente e quindi la nascita della coscienza.
In merito alla soggettività Damasio nega a quest’ultima un ruolo alla base degli stati mentali, bensì lo attribuisce alla consapevolezza della medesima: per quanto sottile, a me pare una differenza evidente. Le cosiddette percezioni sono indicate come effetti derivanti dalla capacità del cervello di creare mappe (le quali sono tripartite in enterocettive, propriocettive ed esterocettive): tali mappe pare che si originino in strutture subcorticali che risiedono nel tronco encefalico. A corredo di tutto riporto quanto mi ha fatto ridere di gusto per ragioni sulle quali evito di soffermarmi, ovvero l’affermazione inconfutabile secondo cui l’intenzione di sopravvivere che si trova nella cellula eucariotica è identica a quella implicita nella coscienza umana.
Il lutto di Antonio Onofri e Cecilia La Rosa
Pubblicato sabato 2 Luglio 2022 alle 17:33 da FrancescoLa mia lettura più recente è stata quella de “Il lutto”, un saggio a quattro mani scritto da Antonio Onofri e Cecilia La Rosa che si occupa dell’argomento da una prospettiva EMDR (eye movement desensitization and reprocessing), ma il mio interesse non si è rivolto tanto a questo approccio terapeutico quanto all’analisi del fenomeno e quindi ai suoi caratteri più generali rispetto alla specificità di qualsiasi trattamento.
Per me approfondire il lutto è un espediente con cui esaminare a ritroso la composizione del desiderio e dell’attaccamento, qualcosa di simile a ciò che in informatica si chiama reverse engineering, ma almeno nelle mie intenzioni lo scopo precipuo è quello di mediare la questione attraverso una sorta di decostruzionismo alla Deridda.
A mio parere tramite la comprensione dell’assenza si possono ricavare le ragioni di una presenza compiuta o auspicata e dalla loro correlazione è poi possibile risalire alla meccanicità del tutto, incluso il ventaglio di gioie e afflizioni che a mo’ di tachimetro emotivo indica quelle espressioni artistiche che siano improntate a un’inconsapevole automazione, come se il libero arbitrio fosse un prodotto di fabbrica, frutto di un’alienazione di marxiana memoria.
Ecco dunque che tra le pagine de “Il lutto” concetti quali quello di catessi, la subdola funzione dell’autorimprovero, il riordino del sé dopo l’evento traumatico, i correlati fisiologici di processi interiori e molto altro di analogo permettono di circoscrivere il campo d’indagine mentre al contempo ne stabiliscono i canoni: la sterminata (in molteplici accezioni) realtà diviene così più a misura d’uomo. In ultima analisi mi sono servito di questo testo per un fine diverso da quello che immagino fosse nelle intenzioni degli autori, nondimeno ne ho apprezzato l’utilità.
I meccanismi di difesa di Robert B. White e Robert M. Gilliland
Pubblicato giovedì 17 Febbraio 2022 alle 22:45 da FrancescoHo colto la lettura de “I meccanismi di difesa”, scritto a quattro mani da White e Gilliland, come un’occasione per passare in rassegna e approfondire dei concetti di cui ero già edotto, non ultimo quello di “permanenza oggettuale”, ovvero la capacità della quale i bambini sono sprovvisti fino ai diciotto mesi e la cui mancanza induce essi ad attribuire un’esistenza solo a quanto rientri nel loro campo visivo. Un altro punto capitale in apertura del testo riguarda la distinzione tra paura e angoscia con le loro differenti implicazioni, laddove la prima riguardi un pericolo concreto mentre la seconda abbia ragioni indefinite e una natura endogena.
Dopo queste e altre premesse nelle pagine si susseguono disamine ed esempi per tredici meccanismi di difesa di cui la rimozione figura come quello principale, difatti opera per escludere dalla coscienza un impulso insopportabile e il suo relativo ricordo, ma il materiale escluso (e anche questa nozione compone la parte introduttiva del libro) non ne decreta né ne riduce la portata, bensì lo tiene sotto custodia come se fosse un carcerato; a corredo di ciò aggiungo una celebre citazione di Freud che secondo me in una certa misura rimarca il concetto: “Le emozioni inespresse non moriranno mai. Sono sepolte vive e usciranno più avanti in un modo peggiore”.
Oltre alla rimozione le forme di difesa sono la conversione, l’inibizione, lo spostamento, il diniego, la razionalizzazione, la formazione reattiva, l’annullamento, l’isolamento dell’affetto, la regressione, la proiezione, il rivolgimento contro il Sé e la dissociazione: di queste tredici ve ne sono due (razionalizzazione e diniego) che fanno parte anche delle cosiddette cinque fasi del lutto, ma si tratta di una mia libera associazione più o meno corretta di cui il testo non fa menzione. Non è un volume corposo, consta di appena duecento pagine, ma tanto denso quanto utile per chi sia digiuno di tali nozioni e voglia meglio comprendere sé e gli umanoidi.
Miti e simboli dell’India di Heinrich Zimmer
Pubblicato sabato 4 Dicembre 2021 alle 12:52 da FrancescoLa mia lettura novembrina è stata quella di Miti e simboli dell’India, un saggio concernente aspetti della religiosità vedica a me già noti, ma di cui il testo di Heinrich Zimmer mi ha offerto ulteriori e interessanti approfondimenti. Basilare ma doverosa la spiegazione iniziale di come ogni ciclo del mondo per l’induismo sia ripartito in quattro età definite yuga e il cui avanzamento va di pari passo con un impoverimento del dharma, ossia dell’ordine morale.
Altra definizione capitale e precipua riguarda i concetti di maya e shakti, laddove la prima indica il mondo fenomenico, quanto è manifesto e illusorio, mentre la seconda è l’aspetto dinamico della prima che ne genera e ne alimenta le epifanie. Zimmer dà conto in più occasioni degli apparenti dualismi che attraversano l’induismo, perciò egli spiega come la shakti rappresenti il potere attivo di una divinità e ne sia la consorte o regina, in complementarietà e opposizione all’elemento passivo maschile (l’eternità): in un passaggio l’unione dei due viene descritta come autorivelazione dell’Assoluto.
Molte sono le pagine dedicate ai simbolismi e alla cosmogonia che mi hanno avvinto, ma è stata in particolare la storia del tracotante Jalandhara a colpirmi poiché il suo tentativo di prendersi in sposa Parvati fa compiere all’autore un parallelismo con il mito edipico, paragonando la consorte di Shiva a Giocasta al fine di sottolineare come il possesso della moglie di un sovrano risponda a un preciso rituale di potere e sia quindi scevro di tutte le implicazioni freudiane.
Sessuale, archetipico e fortemente simbolico è il linga, oggetto fallico d’elezione per il culto di Shiva in quanto energia maschile creatrice, ma il dio è anche distruttore e questa sua duplice natura viene esplicitata dalle principali danze che egli padroneggia: la Tandava e la Lasya.
La gerarchia delle divinità, la differenza tra Brahma e Brahman, i vari aspetti di Shakti (di cui a me piace molto la Kali nera) e, soprattutto, lo stato di prigionia al quale ogni individuo è costretto dalla propria Maya-Shakti (e quindi dalla cosiddetta nescienza) che egli stesso genera, sono altri elementi ivi presenti e stimolanti la cui lettura mi ha ricordato di nuovo quanto verso tutto ciò sia debitrice parte della filosofia occidentale. Duecento pagine spese bene.
Ho letto “Origini” con lo scopo di procurarmi una visione d’insieme su quant’è successo dall’inizio dell’universo fino all’Olocene, un altro riepilogo delle puntate precedenti, ma non ho affrontato questa lettura con l’ansia di comprenderne ogni passaggio poiché quello di Baggott è un testo interdisciplinare.
Nelle prime pagine è ribadito il carattere relativo di spazio e tempo, ma anche la possibile assolutezza dello spaziotempo e la relazione di quest’ultimo con la materia così come è stata sintetizzata da un’acuta osservazione di John Wheeler: “Lo spaziotempo dice alla materia come muoversi, la materia dice allo spaziotempo come curvarsi”.
V’è poi tutta la carrellata dell’inventario atomico e subatomico con le relative proprietà: i leptoni, i vari tipi di quark, lo spin, il campo di Higgs e la massa delle particelle che deriva dall’interazione delle seconde col primo. Altresì immancabili l’esperimento della doppia fenditura, con tutto ciò che ne conseguì da una prospettiva quantistica, e il corpo nero quale oggetto teorico il cui studio fu propedeutico alla scoperta dei fotoni.
In buona sostanza, dalle prime fasi dell’universo il focus si sposta verso la formazione del sistema solare con ipotesi da me già incontrate in letture votate alla sola cosmologia: il testimone passa poi alla chimica, sezione che mi è risultata come al solito tanto ostica quanto interessante, alla biologia, alla genetica e infine all’antropologia, con doverose integrazioni paleontologiche e tassonomiche.
Quattrocento pagine piuttosto scorrevoli, scritte bene e nelle quali mi è parso centrato l’obiettivo di trovare un equilibro tra dovizia di particolari e proprietà di sintesi, tuttavia letture di questo tipo mi lasciano sempre un senso d’incompiutezza a causa degli attuali limiti epistemologici della mia specie. Secondo me la divulgazione rischia di diventare fine a se stessa qualora non si evolva in approfondimenti specifici che comunque non rientrano nelle mie corde, ragion per cui d’ora in poi virerò verso altre tematiche dello scibile.
La lettura de ”I vagabondi del Dharma” ha costituito invece un’eccezione narrativa alla mia predilezione saggistica. Nulla da eccepire su Kerouac: è uno dei pochi autori per cui sono ancora disposto a prendere un romanzo in mano, un fratello cosmico, un visionario, e infatti mi sono procurato anche una copia di “Big Sur”, mentre quella di “Sulla strada” campeggia ancora nella mia libreria e non c’è polvere che riesca a offuscarne la portata letteraria. Penso che la prosa di Kerouac sappia risollevare lo spirito di chiunque sia in grado d’immergercisi e questa peculiarità ai miei occhi ha sempre reso Jack qualcosa di più d’un semplice romanziere.
Prolegomeni ai paralogismi di puerpere e morituri
Pubblicato lunedì 28 Gennaio 2019 alle 21:16 da Francesco“Prolegomeni ai paralogismi di puerpere e morituri” è il mio quinto libro, ma anche il primo saggio: lo considero un vertice solipsistico e di conseguenza non potrebbe avere lettori neanche se potesse averne davvero. Se dovessi o volessi spiegarmi meglio prenderei in prestito il concetto di aseità dalla scolastica medievale, ma non intendo ritrovarmi con un’esposizione debitoria verso il passato.
Non posso cercare l’attenzione di chi si pulirebbe il culo coi rotoli del Mar Morto se solo fossero più economici della concorrenza, ma neanche quella di chi pensa a Shiva e Parvati come antesignani di Sandra e Raimondo.
Il logos ha limiti evidenti e sovente la reciprocità o anche la sola ricerca di una lieve risonanza ne causano un ulteriore restringimento. Est modus in rebus.
Secondo me un confronto autentico lo si può trarre dal parziale retaggio di alcuni pensatori che ebbero un cognome da Bundesliga: defunti e persuasivi.
C’è chi elude l’idea della morte con la fabbricazione di prole in un mondo sovrappopolato, con buona pace di Robert Malthus, e trovo questo espediente legittimo come il doppione di una figurina, ma dubito della sua efficacia: preferisco il “Si impersonale” di Heidegger alla paternità.
L’eros può risolversi in una fruizione eidetica qualora non abbia la velocità di fuga necessaria per uscire dall’orbita pulsionale, ovvero quando il gioco non valga la candela né l’emulazione di un missionario: una regolare masturbazione agevola l’esistenza più di quanto possano fare le pretese venefiche di un certo imprinting. La sublimazione è roba da ricchi di spirito e non ha tasse di proprietà.
È vero, talora la volpe non arriva all’uva, ma nulla le vieta di riprovare con la mela adamitica.
C’è un po’ tutto qui, compreso il flusso di coscienza e l’assenza di un vero interesse per Joyce. Le mie sono parole al vento come quelle che pronunciò Ulisse al cospetto di Eolo.
Breve storia di chiunque sia mai vissuto
Pubblicato giovedì 12 Aprile 2018 alle 16:52 da FrancescoQualche settimana fa ho terminato la lettura di “Breve storia di chiunque sia mai vissuto”, un saggio di Adam Rutherford sulla storia della genomica il cui taglio divulgativo è venato da un’apprezzabile ironia. Prima di leggere questo libro covavo l’intenzione di sottoporre un campione del mio DNA a un’analisi che mi desse più informazioni sulle mie origini e una panoramica delle patologie verso cui i miei geni mi conferiscano un’eventuale predisposizione, ma le pagine di Rutherford dedicate a tale strumento mi hanno fatto cambiare idea poiché ne mettono in luce l’inattendibilità.
Ho incontrato anche in quest’occasione un ulteriore esempio di quanto certe risposte siano destinate ad aprire nuovi interrogativi, ossia il caso del Progetto Genoma Umano che innanzitutto consentì agli scienziati di comprendere quanto fossero limitate le loro conoscenze in tale ambito.
Sono stato pervaso da una sensazione di déjà-vu quando ho letto della sovrapposizione in Europa dell’Homo Sapiens sull’Homo Neanderthalensis, a discapito di quest’ultimo e in ragione delle migrazioni del primo dall’Africa e dal Medio Oriente; se fossi politicamente scorretto e intellettualmente disonesto, ma al contempo benevolo verso un certo e pragmatico razzismo, allora supporrei che tutto sommato le differenze sostanziali siano ancor oggi le stesse, rifiutando così un uguaglianza di specie e accettando solo quella di genere tassonomico.
Per quanto banale v’è una frase che mi ha colpito, una di quelle da silloge aforistica: “Le uniche forme di vita che non cambiano sono quelle già morte”.
Nel ripercorrere la storia della genomica, disciplina piuttosto giovane, ho trovato un parallelismo con la lettura di riepiloghi analoghi, ossia quello in cui la fantasia superi l’apparente limite dell’attualità, quasi esso fosse il termine ultimo dell’evoluzione, e si risolva a immaginare come sarà la normalità tra milioni di anni: quali i tratti somatici, quali le capacità cognitive, quale il grado di differenziazione dagli esseri umani del presente (un presente che è già passato).