Nel corso degli anni (o, forse, per perduta memoria, dei millenni ) sono già stati molteplici i miei approcci alla filosofia indiana e alla conoscenza vedica, quindi la lettura dello scritto di Guénon ne ha costituito un’ulteriore tappa.
Sulle questioni metafisiche mi guardo sempre da un’assimilazione letterale e tendo invece a trarne delle interpretazioni simboliche che eludano le sterili critiche di possibili pregiudizi. Talora concetti brevi e densi mi elargiscono ampi spunti di riflessione, sebbene nel mio caso tutto ciò si risolva spesso in una contemplazione da cui non pretendo né risposte né ipotesi affinché essa non tradisca se stessa né la sua funzione più autentica.
Guénon mi ha fatto notare una sottigliezza a cui non avevo mai prestato attenzione, ossia che le parti finali dei Veda, le Upanishad, vanno considerate nel doppio significato di conclusione e scopo. Ho anche còlto l’occasione per chiarirmi un po’ le idee su alcuni aspetti di quella che impropriamente e per mera comodità io definisco gerarchia cosmica, almeno così per com’è stata ribadita ed esposta da Adi Shankaracharya: Brahma come supremo ordinatore, Purusha quale sua espressione nell’uomo (e in rapporto a ogni stato dell’essere) e la correlazione di quest’ultimo con Prakriti in quanto conditio sine qua non della manifestazione.
Piuttosto elementare, ma a mio avviso carica di una semplicità parmenidea, ho incontrato una considerazione di carattere ontologico che ha destato il mio interesse: “Ciò che è al di là dell’Essere è metafisicamente molto più importante dell’Essere stesso”. Tra le varie ed esemplari chiarificazioni da parte di Guénon m’è rimasta particolarmente impressa quella sulla natura distruttrice di Shiva, la quale non è fine a se stessa poiché consiste in un’opera di trasformazione.
Paradossalmente in questa visione non dualistica ho appreso però il duplice significato con cui vanno impiegati taluni termini, per esempio il Sé, qui intesto come il principio degli stati manifestati che può essere anche quello degli stati non manifestati dell’essere.
L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta di René Guénon
Pubblicato venerdì 14 Dicembre 2018 alle 16:23 da FrancescoDopo molti anni ho trovato il momento giusto per colmare una lacuna verso cui avvertivo un crescente disagio, ovvero un’attenta lettura della Divina Commedia che ho portato a termine poco più d’un mese fa, tuttavia non ho affrontato l’opera di Dante per una questione prettamente umanistica ed è stata invece un’altra la ragione in virtù di cui mi sono risolto a cotanto investimento di tempo, ossia la prospettiva di poterne poi leggere l’interpretazione datane da René Guénon.
Il mio approccio da profano non mi ha fatto sentire entusiasmo alcuno verso i vari rimandi ai personaggi pubblici dell’epoca né alle ripartizioni dei luoghi e tanto meno ai dettagli delle gerarchie celesti, ma d’altronde non mi ci sono affacciato con lo spirito del tempo e forse non ho còlto il valore simbolico di questi elementi per i quali, comunque, non escludo futura contezza. Le suggestioni più sincere le ho tratte dalle descrizioni dei gironi infernali, dei fiumi che là si snodano, delle bolge nell’ottavo cerchio, ma nei riguardi del mio interesse questi ritratti hanno perso d’intensità con l’arrivo al Purgatorio e lo hanno poi riacceso nei primi canti del Paradiso. Immagino che anche tripartire la Commedia in tal modo sia un errore benché essa si presenti effettivamente così, però sono consapevole di come la sua fruizione vada intesa integralmente e di quanto, parti meno avvincenti, siano funzionali per la comprensione di altri episodi legati a doppio filo con esse. Ho gradito oltremodo molteplici terzine e me le sono segnate per ritrovarle all’uopo, ma è stata la tensione spirituale dell’intero viaggio iniziatico ciò che mi ha reso la lettura assai scorrevole.
Ho scelto deliberatamente un’edizione piuttosto essenziale, con poche e indispensabili note, cosicché le spiegazioni non soverchiassero il testo originale, ma desideravo pure le immagini evocative con cui Gustav Doré illustrò l’opera a suo tempo e di cui, secondo il mio gusto, non ne sono mai state prodotte di altrettanto efficaci, così mi sono procurato un libro che le raccogliesse. Soddisfatte quindi le premesse nozionistiche, conto di leggere presto “L’esoterismo di Dante” nella chiave di lettura summenzionata, ossia quella di un’iniziazione, ma con la viva speranza di trarne più di quanto il titolo altisonante lasci presagire.
Ieri ho incontrato di nuovo una ragazza tedesca che ho conosciuto sul volo da Los Angeles a Kona. Siamo rimasti in contatto via e-mail e abbiamo deciso di trascorrere una giornata insieme. In aereo ho scoperto che è stata anche a Orbetello: quante erano le possibilità che io sedessi accanto a lei? Per me è stato un incontro bizzarro! Mi ha divertito la sua accesa spiritualità, ma non l’ho mai irrisa. Abbiamo cominciato a parlare perché lei ha notato la copertina del libro che stavo leggendo, ovvero “Simboli della scienza sacra” di René Guenon.
Sono andato a prenderla in un ostello squallidissimo nel centro di Kona e l’ho aiutata a trovare un posto migliore a sud della città, ma prima abbiamo pranzato insieme in un posto incantevole ed economico sul mare, poi abbiamo esplorato dei negozietti dai cui traboccavano cianfrusaglie d’ogni tipo. In uno di questi posti ho scovato un vinile che non m’aspettavo di trovare, un album che per me ha un significato particolare, “Sacred Hymns”: è un disco di Keith Jarrett dedicato a Gurdjieff e l’ho pagato appena dieci dollari! Alla cassa una signora prim’ancora che della merce mi ha chiesto conto del mio accento e io le ho detto: “Guess!”. Dopo due tentativi ha indovinato la mia nazionalità, che un tempo fu anche la sua, difatti è emigrata trentadue anni fa da Livorno e ora gestisce un grazioso negozio d’antiquariato (con parecchi vinili) insieme ad altre persone.
Verso l’imbrunire ho accompagnato la viaggiatrice teutonica in un ostello più confortevole e là ci siamo salutati come in un film. All’inizio le ho detto che non mi sentivo a mio agio con lei, infatti per quanto piacevole fosse stata la giornata avevo avvertito della distanza e grandi differenze. Ad un certo punto dopo un silenzio interminabile mi ha detto: “I like how you’re handling it”.
Allora abbiamo cominciato a parlare in auto e siamo rimasti là per un paio di ore. Dopo questa lunga e profonda conversazione l’ho vista sotto un’altra luce, ma ci siamo detti comunque addio perché in patria ha qualcuno che l’aspetta. Le ho spiegato che se l’avessi incontrata di nuovo me ne sarei potuto innamorare o forse avrei trovato un’ulteriore conferma delle differenze che avevo avvertito in un primo tempo, perciò avremmo perso in ogni caso: “Great, in any case we cannot win, no way out!”. Alla fine ci siamo messi a ridere perché è stato tutto così surreale.
Per me quelli di ieri sono stati i momenti più romantici della mia vita. Entrambi avremmo voluto che tutto finisse e continuasse, in un paradosso insostenibile per questo piano dell’esistenza. Alla fine lei è scomparsa sotto un’orribile insegna al neon che recitava “open” anche se per me rappresentava un’altra porta chiusa. Prima di andarmene le ho lanciato un bacio dall’auto e lei mi ha aspettato per ricambiare. Non la dimenticherò mai.
Ho messo insieme dei filmati che ho registrato a tempo perso durante questa prima settimana in mezzo al Pacifico: frammenti di quotidianità. Oggi sono pervaso da sensazioni agrodolci, ma nulla che non mi sia già noto. Forse ad altre latitudini è una citazione inflazionata, ma per me continua ad essere qualcosa di più: “Per aspera ad astra!”.