Si avvicina il giorno de Il Passatore, ma vivo questa attesa come il preludio di un cambiamento. Ieri ho corso gli ultimi ventuno chilometri della mia preparazione e stamattina mi sono svegliato bene dopo un’ottima dormita. Non c’è tensione in me. Mi sento leggero e determinato, perciò se dovessi fallire non avrei scuse a cui aggrapparmi. Le previsioni meteorologiche sono infauste e indicano pioggia da Firenze a Faenza per tutta la durata della manifestazione, ma in parte ne sono contento perché se dovessero risultare corrette l’ammanterebbero di ulteriore epicità.
Sfido me stesso perché non mi nascondo nei lambiccamenti sui massimi sistemi, bensì cerco di guadare oltre le tenebre dei miei recessi, laddove l’invito al suicidio non manca mai. È il pericolo dell’introspezione che corro, e per il quale corro. Non c’è “la società”, non c’è “la storia”, non c’è “la politica”, non c’è “la morale”, non c’è “la filosofia”: gli unici presenti sono il sottoscritto e i suoi limiti, senza possibilità di riparo o dissimulazione. Sono i passaggi intimisti di Yukio Mishima che mi corroborano il morale. Per me la corsa è l’humus perfetto in cui prendere il polso della situazione, anche a costo di non sentire più il mio; è il punto ideale (poiché privo di stabilità) nel quale il dinamismo dell’azione porta su di sé la gravità del pensiero e soltanto la mia volontà sceglie se quella zavorra debba schiacciarmi o alleggerirmi. Io cerco un ritorno all’archetipo, ai primordi, quando ancora il linguaggio non aveva sviluppato quello strato di viltà che non di rado compone i filamenti del velo di Maya. Non è attraverso l’uso della parola o il consumo d’arte che io posso diventare ciò che sono, bensì solamente tramite l’azione. Questo appunto è superfluo ed è dettato dall’abitudine a scrivere, ma può aiutarmi ad aumentare la pressione della prova a cui sto per sottopormi. Avrò tempo e modo per riprendere il logos della situazione, però questo sarà sempre il subalterno di quanto ritengo ineffabile.
23
Mag