Ho colto la lettura de “I meccanismi di difesa”, scritto a quattro mani da White e Gilliland, come un’occasione per passare in rassegna e approfondire dei concetti di cui ero già edotto, non ultimo quello di “permanenza oggettuale”, ovvero la capacità della quale i bambini sono sprovvisti fino ai diciotto mesi e la cui mancanza induce essi ad attribuire un’esistenza solo a quanto rientri nel loro campo visivo. Un altro punto capitale in apertura del testo riguarda la distinzione tra paura e angoscia con le loro differenti implicazioni, laddove la prima riguardi un pericolo concreto mentre la seconda abbia ragioni indefinite e una natura endogena.
Dopo queste e altre premesse nelle pagine si susseguono disamine ed esempi per tredici meccanismi di difesa di cui la rimozione figura come quello principale, difatti opera per escludere dalla coscienza un impulso insopportabile e il suo relativo ricordo, ma il materiale escluso (e anche questa nozione compone la parte introduttiva del libro) non ne decreta né ne riduce la portata, bensì lo tiene sotto custodia come se fosse un carcerato; a corredo di ciò aggiungo una celebre citazione di Freud che secondo me in una certa misura rimarca il concetto: “Le emozioni inespresse non moriranno mai. Sono sepolte vive e usciranno più avanti in un modo peggiore”.
Oltre alla rimozione le forme di difesa sono la conversione, l’inibizione, lo spostamento, il diniego, la razionalizzazione, la formazione reattiva, l’annullamento, l’isolamento dell’affetto, la regressione, la proiezione, il rivolgimento contro il Sé e la dissociazione: di queste tredici ve ne sono due (razionalizzazione e diniego) che fanno parte anche delle cosiddette cinque fasi del lutto, ma si tratta di una mia libera associazione più o meno corretta di cui il testo non fa menzione. Non è un volume corposo, consta di appena duecento pagine, ma tanto denso quanto utile per chi sia digiuno di tali nozioni e voglia meglio comprendere sé e gli umanoidi.
I meccanismi di difesa di Robert B. White e Robert M. Gilliland
Pubblicato giovedì 17 Febbraio 2022 alle 22:45 da FrancescoLa crisi economica pone in risalto una putrefazione sempreverde, quella della psiche. La morte è il leitmotiv che non può più essere celato dal consumismo o dalla frivolezza, però smette anche di trovare come unico spazio la cronaca nera e così riguadagna i palcoscenici delle notti insonni. La paura del domani, le incertezze sul futuro, l’ombra della spada di Damocle: tutto ciò angustia chiunque sia cresciuto nell’illusione di potersene liberare con la buona volontà e solamente con questa. Il dramma dell’esistenza travalica i numeri di un conto corrente: su questo punto sono assai esplicite le casistiche dei suicidi dei paesi più sviluppati. Il clima di insicurezza e sconforto può aiutare il seme dell’autodistruzione a diventare una pianta rampicante verso l’oblio.
Vorrei che ogni individuo avesse delle garanzie materiali, quantomeno per dare a tutti accesso alle stesse possibilità, tuttavia mi domando se taluni sarebbero riusciti a conseguire determinati risultati se non fossero partiti da condizioni di netto svantaggio. La crudeltà della natura per me non è sottoponibile alla morale in quanto la precede e la prescinde, ma ai miei occhi resta uno spettacolo efferato che in qualche misura impatta sulla mia empatia. Non ho soluzioni da dare a terzi e non mi aspetto che altri possano averne per me. Di sicuro la clemenza è umana, ma non del mondo in quanto mondo, bensì in quanto proiezione consolatoria e salvifica.
La mia esistenza è mossa dalla spinta verso la vita e forse è proprio per questo che il pensiero della morte è così ricorrente in me. Per Seneca “è cosa egregia imparare a morire” e non vedo come dargli torto. Non sono eterno né voglio esserlo, ma qui semplifico la faccenda e non tengo in considerazione il finalismo, l’escatologia e tutto l’ambaradan dei pensatori o dei presunti tali. Mi confronto con l’idea della fine senza soccombervi ed è questo che mi appaga; ciò mi permette di condurre un’esistenza che mi auguro longeva, ma che in determinate condizioni potrei anche decidere di terminare anzitempo. Emil Cioran ha campato tanto e sosteneva che per lui la vita non sarebbe stata possibile senza l’idea del suicidio; a tutto ciò si riallaccia anche un libro che sto leggendo ultimamente, Il suicidio e l’anima di James Hillman che mette in risalto l’importanza di esperire la morte. Mi reputo fortunato a frequentare gli abissi con chi già ne ha scandagliato i fondali. Thanatos mi apre sempre di più all’amore, o forse alla sua idea: concretizzarla o meno non è così importante e credo che anche questa sia una delle ragioni per cui non mi pesa il perdurare dello stato virgineo, che è tale sia sotto il profilo platonico che sotto quello carnale. Queste non sono considerazioni meste, ma maestose: è imponenza, non impotenza.
È un po’ di tempo che ho tra le mani “Il mito dell’analisi” di James Hillman, un libro nel quale la psicologia del profondo viene messa in discussione. Vi sono critiche al linguaggio psicologico e al modus operandi dei terapeuti, ma questo allievo di Jung (a cui egli fa spesso riferimento) non si limita a contestare l’analisi e ne propone una lettura archetipica per opporsi al primato della razionalità. La mia esperienza mi obbliga a riconoscere l’importanza della mitologia e dei simboli nel mondo interiore, ma, pur consapevole di tutti i suoi limiti, prediligo l’approccio più scientifico e illuminista di Freud che Hillman contesta apertamente.
La psicologia del profondo è per sua stessa natura indefinita, maculata di zone d’ombra, perciò guardo con circospezione tutto ciò che possa confonderne ulteriormente le acque. Non mi piace uscire dai ridotti confini dello scibile a meno che non si tratti di una gita fuoriporta nei dintorni del mondo onirico o della fabulazione. Non mi appartiene alcuna spiritualità, però al contempo non mi reputo né un materialista né tanto meno lascio una porticina aperta con l’agnosticismo. Mi guardo bene da usare un termine come “anima” in luogo di “psiche” perché ho l’impressione che possa prestarsi ad ambiguità svianti, talvolta persino volute. La preminenza del mito non mi convince e trovo parimenti limitativa la scientifizzazione della psiche, ma credo che quest’ultimo approccio abbia ampi margini di miglioramento con il progresso delle neuroscienze. Purtroppo è pressoché impossibile trarre conclusioni definitive in un processo che è in continuo divenire e di conseguenza non c’è modo d’imbrigliare l’epistemologia. Io ho riscontrato più volte il concetto di inconscio collettivo che Jung propone nella psicologia analitica, credo inoltre che non sia difficile trovarne conferma qualora si abbia la possibilità di entrare in contatto con culture diverse dalla propria, ma non riesco a reputare il ruolo degli archetipi più importante di quanto già lo ritenga. Non porto l’organicismo sul palmo della mano perché è assodata l’efficacia di approcci antitetici a quest’ultimo (altrimenti non mi sarei mai interessato alla psicodinamica). Mi domando se la mia ritrosia ad accogliere pienamente l’interpretazione archetipica dipenda dalla mia avversione per ogni pantheon o se, invece, scaturisca da un moto verso quell’obiettività a cui tendo senza però mai illudermi di poterla raggiungere. Per me non è un problema stracciare le convinzioni, infatti queste sono quasi sempre valide per intervalli di tempo ristretti nonostante in proporzione alla durata della vita umana sembrino sfiorare l’eternità: io non mi faccio stregare dalle clessidre. Hillman non mi convince e mi pare che a tratti scada nella sterilità della teologia, però la lettura del suo libro non mi tedia e anzi, mi dà modo di pormi qualche dubbio.
Ho dato una scorsa ad un approfondimento generale del suo pensiero e mi è rimasto impresso un punto in cui la cultura italiana è chiamata in causa. Egli domanda per quale ragione i suoi colleghi italiani cerchino la psicologia al di fuori della loro tradizione quando le loro psiche sono legate al Rinascimento su cui ancor oggi vive tutta l’Europa. Dal punto di vista di Hillman ciò non fa una piega in quanto egli dà un valoro assoluto alla cultura classica che nell’epoca suddetta fu riscoperta, ma potrei obiettare che forse quei mitologemi avevano bisogno di altri interpreti per essere riproposti in chiave moderna, ovvero di qualcuno che fosse estraneo a quella tradizione. Per me quest’ultima questione è una faccenda di mero colore, ma la trovo simpatica. C’è invece una citazione di Hillman che ha catturato la mia attenzione sebbene non riguardi direttamente il tema di questo appunto ed è la seguente: “Anche coloro che credono nella pace e nella nonviolenza si radunano, marciano, manifestano. La fede è la miccia che accende la forza archetipica di Marte e avvia l’imprevedibile, rovinoso corso della guerra”.
Ho quasi terminato la lettura e lo studio de “La scoperta dell’inconscio”, mille paginette divise in due volumi che illustrano la storia della psichiatria dinamica. Avevo davvero bisogno d’affrontare un’opera del genere per approfondire alcune nozioni e per schematizzarle in ordine cronologico. Negli ultimi capitoli mi sono reso conto di quanto abbiano inciso i vissuti personali degli psichiatri nell’elaborazione dei loro sistemi. Se Freud fosse nato e cresciuto in una famiglia come quella di Adler forse egli non avrebbe mai ideato il complesso di Edipo.
Il mio interesse per la psicologia del profondo non è mai stato accompagnato dalla pretesa di trovare una via maestra che potesse risultare valida per ogni individuo. Poiché la psicoanalisi è nata dall’autoanalisi di Freud e la psicologia analitica di Jung ha tratto molto dalla cosiddetta nekyia del suo creatore, anch’io, nel mio piccolo, per scopi introspettivi ottengo parecchio da un attento esame della mia persona, ma attingo pure e a piene mani da alcuni concetti dei luminari succitati oltreché dall’opera di Heinz Kohut: inoltre, benché io non abbia ancora letto nulla della sua bibliografia, ho tratto degli spunti piuttosto interessanti dagli interventi di Eugenio Borgna. Per conoscere me stesso credo che l’introspezione sia fondamentale, tuttavia non la reputo sufficiente ed è per questa ragione che vedo nelle neuroscienze una risorsa importante al fine di oggettivare alcune risultati del processo di autoanalisi. In questo ambito non riesco proprio a separarmi da un concetto esoterico che non ho mai deriso, ovvero quello del ricordo di sé nella dottrina di Gurdjieff, ma l’atto di essere presenti è altra cosa rispetto all’introspezione e forse ha una valenza noetica in senso aristotelico a differenza della seconda che invece è discorsiva. Quest’epoca offre strumenti potenti per la conoscenza di sé stessi, però in taluni casi possono rivelarsi delle armi a doppio taglio. Il simpatico Nietzsche in “Così parlo Zarathustra” fece quel viaggio interiore di cui più tardi si rese protagonista Jung nella suddetta nekyia, tuttavia il primo impazzì poiché non aveva nulla e nessuno al mondo, il secondo invece ne uscì più forte perché grazie alla famiglia e al lavoro fu in grado di mantenere il contatto con la realtà.
La storia mi conferma qualcosa che in passato ho sottolineato più volte sulla base della mia esperienza personale, ovvero la pericolosità di un’introspezione che si arresti in dei punti critici. Forse la superficialità che spesso viene messa all’indice, in alcuni casi è meno deleteria di una introspezione incompleta: quasi una difesa naturale. Oltre un determinato limite, immagino che lo sforzo per conoscere sé stessi sia irreversibile e io penso di averlo già superato da tempo senza però pentirmene.