È un caldo afoso quello che avvolge la sera dalla quale scrivo e nulla sembra poterne ridurre l’impatto in tempo utile per gridare al miracolo climatico. Già che mi trovo al mondo ne approfitto per scrivere qualcosa sebbene io stesso non abbia un’idea precisa da mettere nero su bianco. Se mai avessi avuto delle vere aspettative adesso mi ritroverei nell’età giusta per cominciare ad ammirarne il tramonto, ma non ho nulla né nessuno da utilizzare come feticcio per una nostalgia transitoria. La vita passa e manco la saluto, tuttavia spero che la mia disattenzione non venga intesa come uno sgarbo. Non ho in sospeso debiti di riconoscenza e nessuno né ha nei miei confronti. Le cose da fare potrebbero essere molteplici se solo fossi disposto a raggiungere un livello di stress sufficiente che finisse per farmele disprezzare. Evito per quanto mi sia possibile ogni genere d’impegno che implichi il confronto con la volontà altrui: mi basto per abitudine, per cause di forza maggiore, per comodità e per pigrizia.
Non mi è nota l’ora della mia morte, o perlomeno non mi è stata comunicata né per posta né in sogno, di conseguenza non so quanto mi resti da vivere e non me la sento di azzardare calcoli, inoltre non tiro a indovinare né sotto l’incrocio dei pali, bensì campo per i fatti miei e mi vedo autoreferenziale fino al termine delle trasmissioni sinaptiche. Manca sempre qualcosa anche quando tale impressione risulti assente dalle percezioni, ma poco importa e nulla cambia: per me è fondamentale che io riesca ad accordarmi con il luogo e le circostanze di mia pertinenza. Tutto il resto va da sé, al di là che qualcuno se ne avveda o meno, oltre la testimonianza di ogni coscienza: è così da miliardi di anni e lo sarà per le scomparse venture nei silenzi dei mondi.
Mi piace la lucidità che traspare dalle mie parole. Adoro oltremodo le critiche che muovo a me stesso perché non le esacerbo più del necessario. Faccio le veci d’ogni interlocutore e mi sforzo di essere talmente munifico da anticiparne i pensieri.
Poco importa che le mie esternazioni siano truculente, oniriche, ben ponderate o parzialmente poetiche: in ogni agglomerato di parole vergato dal sottoscritto scorgo, in misura variabile, degli esercizi di attenzione. Non mi areno nella forma, non ho la caratura dell’esteta letterario e non è neanche mia velleità conseguirla, ma punto al mantenimento della lucidità, fino al parossismo. Voglio incatenarmi alla realtà in segno di protesta contro quanto cerchi di negarla; mi sento del tutto libero quando avverto i legacci dell’autenticità e non è sufficiente un paradosso banale per spiegare ciò che provo. Le definizioni hanno poca importanza in contesti così autoreferenziali. Se fossi autodistruttivo avrei dei seri problemi a trovare un modo efficace per piegarmi, perciò sono contento di possedere le carte in regola per transitare in sfere del pensiero più adeguate alla mia indole. Defletto e rifletto quando accade nel mondo e dentro di me. Sporadiche cadute e motti di spirito sono i segni della mia umanità, limiti tangibili che abbraccio fortemente perché non voglio aggrapparmi a delle ideazioni che distorcano il reale, a meno che non dimostrino di poterlo estendere. Non corro il rischio di essere un pioniere di qualche cosa e di conseguenza posso dormire tra due guanciali senza agognare di pormene un terzo sul volto fino alla cianosi.