Mi rincuora la vista di un orizzonte crepuscolare che sfugge a ogni mia maldestra ipotesi e ancora godo del mio soggiorno su questo pianeta. Canti antichi, insistenti e ripetitivi destano in me forze sopite di cui ancora ignoro la vera portata.
Non ho punti di contatto con i miei simili, così come alcuni di essi non ne hanno tra di loro e dunque l’incomprensione rientra nella normalità, nello stato di fatto, qualunque esso sia. Sono un territorio inesplorato di cui io stesso non conosco bene i confini e mi chiedo quanto ancora possa scoprire sul mio conto. Tante metafore mi si parano davanti come se fossero meteore, ma il loro ricorso non lascia segni evidenti oltre a una prima impressione, anch’essa suscettibile d’incuranza. Non so cosa farebbe qualcuno se fosse al mio posto poiché io non sono al suo e anche se fosse possibile invertire i ruoli troverei tutt’altro che igienico un repentino cambio dei panni. A volte mi chiedo se l’esistenza umana sia l’esito di un intervento postoperatorio, poiché se così fosse capirei meglio quanti si fascino la testa prima di rompersela. Non mi stupisco di chi non sappia più stupirsi di nulla, ma io non mi annovero tra costoro perché intuisco la presenza sempiterna di realtà intangibili e conoscenze ineffabili da cui non pretendo l’onere della prova.
Veleggio nell’incostanza di eventi che tradiscono le proprie premesse, però non bado più di tanto alle condizioni variabili e cerco qualche riferimento al di là delle magnitudini apparenti, dove l’occhio si perde col rischio di darne uno in più alle Graie. Accolgo il divenire così com’egli accoglie me, in un gioco di cicli ineludibili in cui gli opposti si annullano in nozze mistiche.
Assisto senza stupore all'ascesa e alla caduta di molteplici enti che si avvicendano lungo un certo divenire di cui io sono un caduco testimone. Talora formulo persino qualche trascurabile opinione in merito a questioni d'apparente importanza, ma esse in realtà non contano nulla da una prospettiva cosmologica. Il tempo passa con tutti i suoi carichi di novità e sfocia puntualmente nell'obsolescenza affinché un altro corso delle cose si snodi tra le stesse anse.
Non v'è nessuno che mi attenda sull'uscio del futuro e io non aspetto Godot, perciò non corro il pericolo di perdere una coincidenza e quest'ultima non rischia di mancarmi. L'assenza di un appuntamento comporta l'impossibilità di un ritardo. Ripeto da anni le stesse cose mentre da anni le stesse cose si ripetono, ma questo è l'eterno ritorno di tutto e non posso negare quanto sia comodo avere un cerchio che si chiuda da sé. L'inutilità di una lingua madre è rumorosa e soltanto nel braille ravviso una granitica creanza. Mi chiedo cosa manchi in modo tale che tutto manchi: nel gioco delle coppie è insito quello degli opposti. Mi trovo al di fuori di sfide alle quali non ho mai preso parte, perciò non ho alcuna ansia da prestazione e non ho una tifoseria a cui rendere conto. Non mi basta puntare in alto poiché tendo a una realtà che non sia relegata alla miseria di tre dimensioni, anche al costo di precipitare laddove non ne esistano proprio. Intanto aumenta la già siderale distanza dai miei consimili e navigo in regioni così remote dell'esistenza da dove mi godo una grande visione d'insieme. I fotoni riescono a raggiungermi, ma l'interesse altrui si disperde nello spazio interstellare durante il suo vano viaggio: il mio, invece, neanche parte poiché mi precede e forma la mia coda come se fossi una cometa.
È davvero esile il filo logico a cui sono appese tutte queste frasi, perciò anche se qualcuno dovesse inciamparci sono certo che neanche se ne accorgerebbe. Continuano a risuonare in me alcune parole che ho sentito di recente, ma sospetto che esse già albergassero al mio interno nell'informe presenza del loro significato: "Il tempo non ci definisce e lo spazio non ci colloca".
Nel terzo volume dei seminari di Jung su Così parlò Zarathustra di Nietzsche mi sono imbattuto in un’interessante digressione secondo cui uomo e donna non si possono incontrare direttamente senza che ne risultino dei problemi; alla luce di questo assunto Jung riconosce un certo ruolo a quei riti che dovrebbero fungere da strumenti apotropaici, come il matrimonio nel cristianesimo. Sono stato colpito da questa riflessione perché io non sono mai riuscito a stabilire un ponte con l’altro sesso, ovvero una comunicazione efficace tra esseri senzienti: ci sono sempre state delle forze contrarie che mi hanno impedito un saldo allaccio con l’altro capo dell’esistenza e quando ho letto il passaggio summenzionato mi sono reso conto che in realtà l’ostacolo è sempre stato generato dallo scontro degli opposti, dal versante maschile e da quello femminile, nella totale assenza di una mediazione capace d’attenuarne l’onda d’urto. Ovviamente in quest’epoca e per un ateo anticlericale come me non può avere alcuna utilità uno strumento come il matrimonio né qualsiasi altro trucco espediente dogmatico, ma deve comunque esserci qualcosa che mitighi le forze in gioco, come suggerisce Jung; per quanto mi riguarda questo qualcosa non può che essere la somma di reciproche introspezioni, o almeno il versamento di quote eguali del proprio Io in un fondo comune, come se, tramite un ardito ossimoro, occorresse un’introspezione a due. Immagino che non potrei trovare delle parole migliori per spaventare chi anche nutrisse un pur minimo interesse nei miei confronti, di fatto complico tutto più di quanto già non lo sia, ma sono lieto che io abbia abbastanza lucidità per sottolinearlo.
In queste righe non mi riferisco a quelle relazioni che si basano sulla meccanicità e di cui potrei fare incetta se solo lo volessi: di fatto ho un potere a cui non ricorro perché mi avvelenerebbe a causa della mia lucidità, quasi come in una reazione allergica, uno shock anafilattico invece che addizionale, di conseguenza per me le cose devono seguire un determinato corso affinché non siano venefiche o foriere di disastro.
La mia lunga avventura nell’analisi dello Zarathustra da parte di Jung sta per volgere al termine e dopo oltre mille pagine trovo che talora le deviazioni dal tema principale siano più illuminanti della strada maestra, ma d’altronde ogni verità è ricurva e tutte le vie dritte mentono.
Arch of Hysteria di Louise Bourgeois, 1993
Mi sono soffermato su due capitoli del Libro rosso: il nono e l'undicesimo.
Il mio interesse s'è destato all'incontro di Jung con Izdubar, l'uno diretto verso oriente e l'altro verso occidente; il nome del secondo protagonista è quello con cui gli assiriologi indicavano il personaggio di Gilgamesh quand'ancora non ne era nota la giusta traslitterazione.
Izdubar irrompe come un gigante che brandisce un'ascia bipenne e anela all'immortalità, tratti che di primo acchito me l'hanno fatto associare alla mitologia norrena, però egli cade presto vittima delle parole di Jung che involontariamente lo avvelena col sapere scientifico di cui costui si fa inconsapevole nunzio: da qui l'enantiodromia oscura i cieli e riempie le pagine.
Così prende piede il noto gioco degli opposti, che prima chiamerei "incontro" e poi "accordo" dei contrari se volessi rendere un po' più serio il mio approccio al tema, ma questa volta lascio i riferimenti alchemici a chi vuol credere più del necessario a ciò che scrive o a quello che legge.
La razionalità quasi uccide il dio (in quanto Izdubar lo rappresenta col pensiero orientale), però l'altro vuole salvarne l'esistenza e s'ingegna per farlo. Alla fine Jung riduce Izdubar a una mera fantasia e così può trasportarlo in un uovo (e la semplicità della soluzione a me ricorda proprio l'espressione "uovo di Colombo"). Portato in una casa e fatto oggetto di incantesimi, così sono chiamate nel decimo capitolo quelle che a me sembrano preghiere, l'uovo viene aperto e il dio rivive: mi ha colpito molto l'immagine che Jung ha realizzato per descrivere questo momento.
La rinascita di Izdubar non è letterale e io ne associo il senso lato a quello della morte di dio secondo Nietzsche; nel primo caso si manifesta un rinnovamento di sé stessi, nell'altro invece v'è un preludio al superamento dei vecchi valori (poiché ne viene decreta la fine).
Jung non filosofa con il martello, forse non filosofa affatto, inoltre suppongo che i suoi scopi siano altri, perciò non metto in contrapposizione due pensatori di così diversa natura che io vedo comunque vicini laddove il tempo è quasi un orpello della metafisica.
Oltre alle dotte (in apparenza) elucubrazioni, personalmente non riesco a trasporre nulla di ciò nella mia realtà, perciò ne elogio la forma e ammetto la mia totale incapacità di identificarmici.
Non mi sognerei mai (eh già, il verbo è proprio adatto, e anch'esso lo è, "il verbo", come in una scatola cinese da calembour) di screditare la tecnica dell'immaginazione attiva di cui Jung si è avvalso, ma riconosco come questa non mi appartenga; d'altronde, in modo tutt'altro che ermetico, è egli stesso a mettere in guardia il lettore in un passo del Libro rosso: "Quello che vi do, non è né una dottrina né un insegnamento. E da quale pulpito potrei indottrinarvi? Vi informo della via presa da quest'uomo, della sua via, ma non della vostra. La mia via non è la vostra via, dunque non posso insegnarvi nulla. La via è in voi, ma non in dèi, né in dottrine, né in leggi. In noi è la via, la verità e la vita".