Qualche settimana fa ho terminato la gradevole lettura de Il sé viene alla mente, un saggio neuroscientifico in cui Antonio Damasio si avventura in una speculazione volta a rintracciare le fondamenta fisiologiche della coscienza. È un lavoro articolato, certosino, in cui ho trovato una buona esposizione con uno stile potabile, perciò fruibile anche da chi non sia un addetto ai lavori. I miei pochi e sparuti appunti non rendono giustizia al testo.
Nello scritto il sé è presentato come un processo diadico diviso in sé-oggetto e sé-soggetto, laddove il secondo deriva dal primo benché il sé-oggetto abbia una portata più limitata: tra i due vi è continuità e progressione, nessuna opposizione. I concetti di proto-sé (sentimenti primordiali), sé nucleare (relazione tra organismo e oggetto) e sé autobiografico (“pulsazioni” del sé nucleare) sono gli stadi che rappresentano l’ascesa del sé alla mente e quindi la nascita della coscienza.
In merito alla soggettività Damasio nega a quest’ultima un ruolo alla base degli stati mentali, bensì lo attribuisce alla consapevolezza della medesima: per quanto sottile, a me pare una differenza evidente. Le cosiddette percezioni sono indicate come effetti derivanti dalla capacità del cervello di creare mappe (le quali sono tripartite in enterocettive, propriocettive ed esterocettive): tali mappe pare che si originino in strutture subcorticali che risiedono nel tronco encefalico. A corredo di tutto riporto quanto mi ha fatto ridere di gusto per ragioni sulle quali evito di soffermarmi, ovvero l’affermazione inconfutabile secondo cui l’intenzione di sopravvivere che si trova nella cellula eucariotica è identica a quella implicita nella coscienza umana.
Il sé viene alla mente di Antonio Damasio
Pubblicato venerdì 16 Giugno 2023 alle 00:18 da FrancescoArcheologia della mente di Jaak Panksepp e Lucy Biven
Pubblicato lunedì 22 Giugno 2020 alle 22:53 da FrancescoIl ritorno alla saggistica l’ho compiuto con un corposo scritto di Jaak Panksepp e Lucy Biven intitolato Archeologia della mente: origini neuroevolutive delle emozioni umane. In me alberga da tempo immemore il naturale e vano bisogno di capire cosa muova gli esseri umani, quali siano le cause prime di sua maestà la coscienza e del cosiddetto libero arbitrio, perciò a intervalli più o meno regolari investo del tempo su letture che indaghino tali questioni dalle prospettive dei rispettivi campi. La visione di Panksepp poggia anzitutto sulla suddivisione delle regioni sottocorticali in sette sistemi affettivi: ricerca, paura, collera, desiderio sessuale, cura, panico e sofferenza (accomunati), gioco. In ragione di questa ripartizione l’accento è posto sui processi primari, ossia quelli della cui espressione dà conto l’attività neuronale di base che sorge dalle strutture cerebrali più antiche e profonde; i processi secondari invece ruotano attorno all’apprendimento e quindi alle interazioni del soggetto con l’ambiente. I processi terziari sono i più sofisticati della triade e secondo l’approccio del testo occupano una posizione di eccessivo rilievo nella comunità scientifica, quantomeno per ciò che concerne l’esatta localizzazione dei sentimenti emotivi. A sostegno delle proprie posizioni Panksepp espone una mappatura dei sistemi suddetti e ricorda al lettore che la coscienza affettiva è indipendente dal linguaggio come dimostrano pazienti afasici o colpiti da ictus, ma fa anche notare quanto si dimostrino emotivi quegli esseri umani e quegli animali ai quali manchi o venga rimossa la neocorteccia. Sono molteplici e doverose le digressioni sui ruoli dei vari neurotrasmettitori, anche e soprattutto per chi come me ha bisogno di un costante ripasso poiché non è un addetto ai lavori. Lungo queste cinquecento pagine ho scoperto con un po’ di sorpresa l’importanza del grigio periacqueduttale per quelle funzioni che io invece attribuivo primariamente all’amigdala e infatti in merito a quest’ultima il testo ne chiarisce l’esatta posizione gerarchica.L’esposizione di Panksepp non è risolutiva poiché nessuna trattazione di questo genere può esserlo, ma risulta molto interessante anche per un profano quale io sono ed è arricchita da alcuni drammatici aneddoti dello stesso Panksepp (la prematura morte della figlia in un incidente stradale e la sua neoplasia) che egli riesce a impiegare a favore della propria indagine. Nonostante ne fossi già edotto, ho riletto con piacere la spiegazione degli oppiacei endogeni poiché con l’attività fisica ne faccio esperienza da molti anni e ancor oggi non mi capacito della stoltezza con cui taluni ricerchino quegli stessi effetti tramite mezzi venefici. Altri due punti che ho apprezzato molto sono le cosiddette omologie sulla scorta di cui anche agli altri animali (in particolare al resto dei mammiferi) viene riconosciuta una vita affettiva, ma oltre a ciò pure la possibilità di rendere malleabili i ricordi a scopi terapeutici tramite quel processo che risponde al nome di riconsolidamento, e quest’ultimo punto a dispetto delle pregresse convinzioni che in passato andavano per la maggiore in tale ambito.
Sulla scorta di una lettura recente mi sono trovato a riflettere sull'eventualità che un giorno la coscienza possa essere tutta determinata come mera attività cerebrale, ma paradossalmente un'ipotesi così fisicalistica è al momento tanto metafisica quanto quelle a cui indirettamente si oppone. Il riduzionismo meccanicista fa storcere il naso ai miei aneliti più profondi, ma se fosse davvero alla base di tutto non potrei che prenderne atto; d'altro canto una simile accettazione renderebbe la tristezza meno dolorosa poiché inevitabile, non più gravata dalla responsabilità del libero arbitrio. Qualora si verificasse un tale scenario mi chiedo a quale grado assurgerebbe una siffatta attività compensatoria, non soltanto nel ridimensionamento delle emozioni negative (ancorché talora queste risultino formative), ma soprattutto in rapporto a quelle positive; forse ne risulterebbe un appiattimento sempre maggiore, proporzionato al livello di consapevolezza dell'ipotesi suddetta, fino al punto di un annullamento pressoché totale della polarità? Fino alla scomparsa d'ogni dicotomia? E così che fine farebbero i rapidi e impercettibili movimenti del Tao? Questa mia congettura conclusiva mi ricorda il concetto del nirvana buddhista e se vi trovasse risonanza allora per taluni (me compreso) potrebbe rivelarsi persino auspicabile.
Mi domando se il solo bisogno di aspirare ad una libertà superiore non testimoni già l'esistenza di quest'ultima su dei piani altrettanto elevati. Come può essere meccanico qualcosa che sia in grado di aspirare a ciò che per i limiti della sua natura non dovrebbe riuscire manco a concepire? Ai miei occhi, e non escludo che io pecchi di semplicismo (o ne tragga vantaggio), è come se i componenti di un circuito elettrico cessassero le proprie funzioni per interessarsi all'ontologia; diodi, resistenze e condensatori intenti a chiedersi quale sia il loro ruolo, il loro scopo, la ragione ultima della loro presenza in uno schema così limitato…
Un individuo come me è interessato alla verità, qualunque essa sia, però io in quale misura mi distinguo da qualcun altro per la disponibilità d'accoglierla a dispetto dei miei legittimi desideri? Si tratta soltanto di connessioni neurali sulle quali hanno agito un imprinting di un certo tipo e determinate influenze dell'ambiente in cui sono cresciuto? Tutto si riduce ad una commistione di processi fisiologici e culturali? Non sono un apologeta in alcuna accezione del termine, inoltre mi professo ateo per ragioni di cui non digredisco affinché questo breve appunto non ne risenta, ma è proprio l'autenticità che tento d'imprimere alla mia ricerca interiore (quindi il metodo qui è prioritario al fine stesso, com'è giusto che sia) ad impedirmi una posizione netta. Di sicuro io ho solo delle intuzioni, ma i contenuti di queste non sono altrettanto certi.
I tipi di memoria, l’ippocampo, l’intuizione…
Pubblicato mercoledì 25 Maggio 2011 alle 01:39 da FrancescoDa quanto ho appreso, la memoria può essere di tre tipi: semantica, procedurale ed episodica. Nella prima sono stivate quelle informazioni che con doverose virgolette si possono etichettare come “oggettive”: queste comprendono ad esempio le regole grammaticali e le leggi fisiche che vengono apprese durante l’interazione con il mondo.
La memoria procedurale invece riguarda le capacità motorie, perciò contiene le informazioni che determinano la coordinazione dei movimenti di routine e quelle abilità che s’imprimono talmente a fondo da non sembrare neanche delle procedure riattivabili all’uopo. Insomma, in questo tipo di memoria la ripetizione incide la prassi. Nel libro da cui ho appreso queste nozioni è riportato un aforisma divertente a proposito dei contenuti della memoria procedurale, perciò io a mia volta lo riporto tra queste righe: “Difficili da apprendere e difficili da dimenticare”.
Per delineare efficacemente le differenze tra memoria semantica e memoria procedurale il testo propone di prendere in esame la differenza che intercorre tra la competenza di un individuo che pratica un determinato sport e la conoscenza astratta che un altro individuo ha di quella stessa attività. Devo appuntare qualche altra parola sulla memoria procedurale. Quest’ultima agisce in maniera implicita e ad esempio, per esperienza diretta, posso confermare che quando uno si trovi a riflettere sull’esecuzione dei propri movimenti questa possa risentirne negativamente. Nonostante ancora embrionale, mi ha assai affascinato l’ipotesi secondo la quale certe reazioni emozionali di tipo automatico funzionerebbero come memorie procedurali.
I ricordi autobiografici sottostanno alla memoria episodica e anatomicamente questo terzo tipo di memoria chiama in causa l’ippocampo. Il contenuto della struttura summenzionata prevede che il passato venga risperimentato ed esige quindi che un determinato evento venga rivissuto affinché diventi cosciente. Alla luce di ciò, per quanto m’è dato comprendere, tutte quelle che gli psicoterapeuti chiamano memorie inconsce in realtà presenterebbero soltanto delle somiglianze con la realtà degli eventi passati che invece viene loro attribuita.
Ho appreso ulteriormente come gli esseri umani spesso siano in balìa di influenze inconsapevoli. La memoria a lungo termine contiene e segreta le fonti che condizionano le convinzioni, perciò in questo caso la memoria episodica ne resta fuori poiché sua prerogativa è la consapevolezza. Sempre in merito alla memoria, ho letto che alcuni ricordi non possono essere recuperati poiché in origine non sono stati codificati in una forma accettabile dalla memoria episodica.
Tra le patologie legate ai problemi mnemonici mi ha colpito la cosiddetta psicosi di Korsakoff che prevede un assemblaggio improprio dei ricordi dell’individuo. Questa patologia spesso è dovuta all’alcolismo cronico e alla carenza di vitamina B che è strettamente correlata all’abuso di alcolici. La sindrome di Korsakoff negli adulti presenta somiglianze con le reminiscenze dei bambini d’età inferiore ai due anni, periodo durante cui la corteccia frontale e l’ippocampo non hanno ancora raggiunto un determinato sviluppo. Qua è possibile collegare il concetto di rimozione di Freud alla difficoltà di recupero delle memorie infantili a causa di come queste vengono registrate in un primo tempo e di come poi si cerchi di rievocarle successivamente in una forma assai diversa. I ricordi rimossi pur non riuscendo ad affiorare nella memoria episodica continuerebbero a influenzare il comportamento tramite gli altri due tipi di memoria, ovvero quella procedurale e quella semantica, con tutti i condizionamenti che ne derivano sotto la soglia della coscienza…
Infine voglio annotare due righe sul test del gioco d’azzardo dello Iowa. Da questa prova sono emersi dati interessanti. Due gruppi di partecipanti sono stati chiamati a scegliere due mazzi tra i quattro disponibili per giocare a carte. Due mazzi consentivano vincite ingenti e perdite della medesima portata, mentre gli altri due mazzi permettevano di vincere cifre modeste a fronte di perdite trascurabili, inoltre a differenza dei primi garantivano un guadagno a lungo termine.
Tutti i partecipanti hanno cominciato con i primi mazzi, ma gli individui sani dopo poco hanno optato per i secondi e tra questi v’erano anche giocatori d’azzardo accaniti. I partecipanti affetti da problemi neurologici invece hanno insistito sui primi mazzi.
Da questo esperimento s’è evinto che vi è un avvertimento emotivo che i pazienti neurologici con determinate lesioni riescono ad avvertire soltanto in ritardo, ovvero quando hanno già compiuto la loro scelta: in costoro viene meno la capacità di predire il risultato delle loro azioni.
Dai risultati del test suddetto è possibile notare come determinate scelte s’affidino all’intuizione laddove pare che la razionalità sia insufficiente. In realtà alcune decisioni vengono prese dalla sinergia delle informazioni cognitive e di quelle affettive. Tutto ciò seduce la mia curiosità.
Nell’ambito delle emozioni di base mi ha incuriosito il sistema del panico a causa del suo legame con il comportamento materno. Quando la donna è puerpera aumentano i livelli di ossitocina e prolattina, e l’incremento di questi ormoni rafforza il rapporto tra la madre e il nascituro.
Pare che l’ossitocina svolga un ruolo di rilevo nello sviluppo dell’empatia e dell’autostima, perciò gode anche del nome di “ormone della fiducia”: io suppongo di secernerne quantità industriali. Non ho trovato granché per quanto concerne la prolattina nell’uomo, ma sembra che alti livelli di questo ormone nei maschi indichino un abbassamento del testosterone nel sangue e un calo della libido. Immagino che nel mio caso i valori siano nella norma poiché la mia masturbazione è regolare. Ho anche notato che l’ossitocina viene adoperata nei casi di autismo per migliorare la capacità relazionale dei soggetti affetti da questa patologia, tuttavia trovo sconvolgente il fatto di condizionare l’equilibrio d’un individuo attraverso delle somministrazioni endovenose o nasali. Certe volte penso che un ricorso saggio all’eugenetica (quindi nulla a che vedere con la follia dei nazisti) potrebbe dare a tutti una buona salute di base, eliminando quasi del tutto gli svantaggi con i quali certuni purtroppo si trovano a combattere ancor prima d’emettere i primi vagiti.
Mi sento molto fortunato ad essere nato sano, tuttavia non dovrei mai darlo per scontato. Mai. Addentrandomi superficialmente nei meccanismi della memoria ho incontrato una tesi sui sogni che mi ha fatto sorridere. Secondo due studiosi (Crick e Mitchison) il mondo onirico è composto da spazzatura mnemonica, ovvero fatti di scarso rilievo che l’esperienza del sogno mostrerebbe nel loro transito verso l’oblio. Questa prospettiva suscita in me un po’ d’interesse, perciò conto di approfondirla in un secondo momento.
Infine devo ricordarmi che l’uomo non percepisce il mondo per come questo gli si presenta, ma tende a ricordarlo in base a quanto ha imparato. Solitamente e in larga misura è attribuito alla percezione quanto invece rientra nella sfera delle memoria. A questo proposito, nel libro che sto leggendo è riportato un esperimento in laboratorio che esemplifica quanto scritto poco sopra. Ad un gatto fu condizionata la corteccia visiva nel corso del suo sviluppo in modo che venisse privato di ogni riferimento sull’orizzontalità. In seguito l’animale dinanzi agli ostacoli orizzontali si comportò come se questi non fossero mai esistiti e di conseguenza ci andò a sbattere contro. In merito ad argomenti simili mi è tornato in mente “Waking Life”, una pellicola particolare che a suo tempo suscitò in me vivido interesse e stupore.
Se io mi fossi lanciato nella lettura de “Il cervello e il mondo interno” da una base di convinzioni religiose o filosofiche forse avrei finito per prendere in considerazione l’eventualità di suicidarmi. Ritengo che un approccio sbagliato al libro summenzionato possa creare derive materialistiche e disincanto, ma per fortuna io non sono andato incontro né alle une né all’altro e non ho avuto problemi ad accettare la nicchia genotipica delle emozioni di base.
Al momento mi trovo ad affrontare quelle pagine che trattano delle emozioni e dei luoghi in cui queste si originano. Non nego (né d’altro canto potrei) d’aver provato un po’ di disagio quando ho compreso pienamente che le emozioni possono essere accese, spente e modificate con la somministrazione di alcune sostanze, per mezzo di ablazioni chimiche o con interventi chirurgici. Ovviamente non mi sono stupito di quello che ho letto poiché ero già a conoscenza di quanto le emozioni siano ascrivibili ai processi neurobiologici, tuttavia mi ha colpito la freddezza di come è stato sottolineato questo rapporto; d’altronde non potevo nemmeno aspettarmi qualcosa di diverso poiché ho tra le mani un testo scientifico, mica “Cime tempestose”.
Le cosiddette “emozioni di base” sono comandate da quattro sistemi e le strutture che questi chiamano in causa si concentrano in una regione cerebrale circoscritta, più precisamente tra le zone superiori e mediali del tronco encefalico. Ho appreso che durante alcuni esperimenti certe cavie animali subordinavano le azioni biologicamente utili all’esecuzione di compiti che, con la tecnica del bastone e della carota, permettevano loro di ricevere una stimolazione elettrica del sistema di piacere, sito in gran parte nel prosencefalo basale. Il parallelismo tra le cavie di cui sopra e i tossicodipendenti è sorto spontaneamente in me, ancor prima che il libro me l’offrisse. Il sottotitolo di questo volume è “Introduzione alle neuroscienze dell’esperienza soggettiva” e lo trovo significativo. La mia formazione autodidattica è prevalentemente umanistica benché di fatto non lo sia secondo certi canoni e forse per questa ragione ho impiegato un po’ di tempo a mettere le mani su determinati testi. Alla mia introspezione sta giovando la trattazione di questi argomenti e sarebbe stato meglio se già in passato me ne fossi interessato con più attenzione.
La mente, la coscienza e il corpo: triumvirato esistenziale
Pubblicato giovedì 28 Aprile 2011 alle 16:26 da FrancescoSono un vile perché zucchero il tè verde, ma espio le mie colpe levando le zecche ai miei gatti. Quando Freud affermò che la coscienza è solo una proprietà della mente egli ricevette molte critiche dai luminari del suo tempo, però in seguito la sua posizione fu ripresa da vari neurologi. Secondo quanto ho letto, la coscienza si originerebbe nel tronco encefalico e riguarderebbe una percentuale assai ridotta delle azioni umane che in larga parte (per oltre il novanta percento) si svolgerebbero inconsciamente.
Sono stato un po’ spiazzato dallo stretto legame che pare intercorrere tra l’evoluzione biologica e la coscienza, però non sono riuscito a convincermi che tale rapporto non sussista. Sono stato colpito anche dalla questione dell’esperienza unificata della coscienza, difatti gli stimoli sui quali si poggia quest’ultima seguono percorsi differenti nel cervello e non è chiaro come poi risultino inscindibili all’individuo. Per chiarire questo punto alcuni studiosi hanno cercato di identificare le strutture che accolgono ed elaborano gli stimoli delle percezioni, io tuttavia sono rimasto più affascinato dall’ipotesi dei quaranta hertz che declina la questione in termini temporali. Secondo l’ipotesi summenzionata, e stando a quanto ho letto limitatamente all’esperienza visiva, vi sono cellule corticali che effettuano scariche sincronizzate con un ritmo di quaranta hertz, perciò ogni secondo di coscienza sarebbe suddiviso in quaranta momenti che si alternano in modo talmente rapido da garantire alla coscienza la sua parvenza continuativa e unitaria. Durante la lettura di questo argomento mi è venuta in mente una citazione olistica di Aristotele: “Il tutto è maggiore della somma delle sue parti”.
Ho esteso il mio sorriso quando mi sono imbattuto sul ruolo che gioca l’intelligenza nella mente. Attraverso alcuni esempi che prendevano in esame l’intelligenza artificiale per il test di Turing è emerso chiaramente come non sia possibile riprodurre anche una mente, difatti un software su un computer non ha consapevolezza di sé e non può generare il bagaglio emotivo che risulta proprio di un individuo. Tutto ciò avalla la tesi secondo la quale la coscienza è legata al tronco encefalico che a sua volta è in stretto collegamento con i visceri del corpo, perciò anche a me pare plausibile che la presenza di quest’ultimo determini la coscienza. Quanto ho appreso mi è chiaro, o almeno credo, e da profano non ho ragione di obiettare qualcosa, però io credo che sarebbe un errore considerare tutto ciò come bieco materialismo.
Prima di affrontare l’argomento in una lettura recente, non avevo mai considerato la possibilità che un comportamento cosiddetto “intelligente” potesse verificarsi anche laddove mancasse la coscienza. A riprova di quanto appena scritto vi sono casi di pazienti neurologici in cui sono state riscontrate delle capacità cognitive nonostante queste non fossero accompagnate affatto dall’esperienza cosciente. Da questo punto si genera una domanda interessante sul ruolo e il fine della coscienza, difatti se i comportamenti intelligenti sono possibili anche in sua assenza allora sorge spontaneamente la necessità di spiegare il motivo della sua esistenza.
A costo di saltare di palo in frasca (ma non credo di correre questo rischio) mi sono imbattuto in un’intervista a Michelle Thomasson, moglie di Henri che diffuse in Italia il pensiero di Gurdjieff. Costei afferma delle cose interessanti in cui mi rivedo e parte da considerazioni sull’estetica per estenderle coerentemente fino a questioni esistenziali: notevoli gli ultimi tre minuti e mezzo.
Da circa una settimana mi sono immerso nella lettura de “Il cervello e il mondo interno” di Mark Solms e Oliver Turnbull. Questo testo costituisce un punto d’incontro tra le neuroscienze e la psicoanalisi, ma forse sarebbe più opportuno definirlo come un ricongiungimento poiché Freud riconobbe i limiti di cui soffriva la neurologia al suo tempo e l’abbandonò per battere una strada che ancor oggi certuni (specialmente nel mondo scientifico) fanno oggetto di ludibrio.
Un paio di anni fa ho letto un manuale di neuroscienze, però ne ho ricavato un’infarinatura che soltanto adesso mi risulta meno confusionaria, grazie all’integrazione con la lettura del libro suddetto, e di cui, in ogni caso, conservo pochi concetti di base. Temi quali la neurofisiologia, la neurochimica e la psicofarmacologia mi attraggono, tuttavia non intendo profondere sforzi per studiare compiutamente queste branche del sapere perché, oltre a dubitare d’esserne in grado, posso limitarmi ad attingere quanto mi è necessario e indirizzare altrove le mie energie.
Il tentativo di mappare la coscienza nelle aree del cervello è affascinante e, con un approccio un po’ naif, mi domando se i progressi in questa direzione possano portare l’uomo a svelare cosa si celi dietro (o dopo) la perdita della coscienza nel senso tanatologico del termine.
Di difficile accettazione e di stampo materialistico, voglio annotare una citazione di Francis Crick che tuttavia dal basso della mia ignoranza non sottoscrivo affatto: “Tu, con le tue gioie, i tuoi dolori, i tuoi ricordi e le tue ambizioni, non sei altro che la risultante del comportamento di una miriade di cellule nervose e delle molecole in esse contenute”.
Sulla relazione tra cervello e mente la filosofia ha creato varie scuole di pensiero (eh, penso che non vi sia espressione più adatta in questo caso) e le più diffuse sono sintetizzate nelle pagine de “Il cervello e il mondo interno”. Tra le varie teorie sono stato colpito da quella del monismo dal duplice aspetto percettivo. Secondo questa concezione un essere umano non è in grado di conoscere la materia di cui è composto senza prima rappresentarsela attraverso le percezioni. Di conseguenza, secondo il monismo dal duplice aspetto percettivo non è possibile conseguire una visione diretta della materia della mente, bensì solo rappresentazioni figurate: dei modelli. Stando a quanto ho letto e capito, la mente appare fisica quando viene osservata dall’esterno e assume un aspetto “mentale” da una prospettiva interna, rendendola perciò una produzione delle percezioni e ciò sottolinea una sorta di conflitto d’interessi dove l’osservatore della mente è anche il mezzo attraverso cui la suddetta viene osservata. Da qui (o meglio, anche da qui) continua l’indagine sul legame che correla la soggettività di un individuo ai processi del cerebro.