Ieri ho compiuto trent’anni a settanta esatti dallo sbarco in Normandia e mi sento più giovane di quando ne avevo venti perché oggi sono più forte e più sereno rispetto ad allora.
Non so quanto mi resti da vivere, ma conto di scoprirlo in un biscotto della fortuna la prossima volta che andrò a mangiare in qualche bettola cinese. Se mi guardo indietro non vedo nessuna traccia di nostalgia, nessuna età dell’oro e niente che possa mettere i bastoni tra le ruote del mio presente. Ho corso migliaia di chilometri e mi sono lasciato alle spalle molte cose senza che di nulla abbia mai avvertito una reale vicinanza. Credo che il bello debba ancora venire, tuttavia non so davvero cosa possa riservarmi il futuro. Tra altre tre decadi potrei ritrovarmi a rimandare ancora una volta il momento di tirare le somme, o il prossimo anno potrei essere a tu per tu con una malattia incurabile e allora ne approfitterei per stringere amicizia con le cellule impazzite. Quanta inquietudine e superstizione aleggia ovunque il passaggio del tempo sia recepito come una condanna invece che come un atto di clemenza: le idee non mi spaventano.
Ho ancora il primo bacio da scoccare e spero di farlo in modo autentico, tuttavia lo conserverei volentieri qualora avessi la garanzia di poterlo dare in un’eventuale aldilà ad Afrodite, ad una valchiria oppure ad una ninfa (Calipso su tutte!) in visita di cortesia alle divinità ctonie.
Forse in questi miei primi trent’anni la sublimazione è stato il mio più grande successo perché è da quest’ultima che hanno proliferato le mie parti migliori. Ho tramutato la verginità in una forza virile e non mi sono negato nulla che non valesse la pena d’evitare: certe privazioni mi hanno dato più di quanto avrei potuto trarre dal loro esatto opposto. Alchimia, nient’altro che alchimia. Comunque, chi non abbia mai perso tempo appresso a Jung può vederci quello che vuole, come in una macchia di Rorschach.
Il respiro della coscienza: la genesi
Pubblicato mercoledì 24 Ottobre 2007 alle 00:47 da FrancescoUn uomo e una donna istituiscono un vertice straordinario di quarantasei cromosomi e attendono l’esito della gestazione per accoglierne il risultato a braccia aperte. Talvolta il cordone ombelicale diventa un cappio al collo per le libertà di uno dei procreatori ed è possibile che questa asfissia progressiva provochi dei gesti inconsulti. Il collante che lega una donna incinta all’uomo che l’ha ingravidata può assumere le forme più disparate: la cieca obbedienza a una dottrina religiosa, l’osservanza di una tradizione, l’abitudine alla figliolanza, un interesse morboso, l’incapacità di sottrarsi a un presunto obbligo verso la propria prole o un sentimento profondo verso quest’ultima. In ogni ora del giorno una donna può essere fecondata tramite un gesto d’amore del suo compagno, con uno stupro violento o grazie ai ritrovati della fecondazione artificiale. Alcune madri sono delle vittime egoiste e vogliono a tutti i costi un figlio a cui non possono garantire un futuro, ma non riescono a sopportare l’astinenza dalla maternità e alla fine concepiscono per via uterina un metadone vivente di qualche chilo. Ogni tanto un po’ di curaro cade in un biberon e un infante resta tale nella memoria di chi continua a vivere, ma da molte mammelle grondano gocce bianche che proteggono i fiocchi azzurri e rosa dalle tinteggiature nere. I primi anni di vita appartengono alla pedagogia, ma durante l’inconsapevolezza neonatale l’imprinting trivella l’inconscio. I giocattoli occupano il tempo del bambino e quand’egli cresce gli viene consegnato il balocco gnostico degli adulti: una delle tante religioni che sono nate in seno alle esigenze del quieto vivere. Nella fase pubescente la distinzione tra il bene e il male assume una forte discrezionalità e, qualora non siano considerate le innumerevoli sfumature morali, possono comparire delle mostruosità antitetiche: una vocazione altruistica e misticheggiante o un amore sfrenato per una forma di nichilismo distruttivo. Oltre a questa divisione dicotomica e alle sue diramazioni vi è una corrente piuttosto vasta che verte sulla mansuetudine dell’individualità a cui è semplice omologarsi per avere un facile accesso alle forme di anticonformismo convenzionale e alle valvole di sfogo che hanno la forma delle promesse utopiche dei vizi schiavisti. La ricerca di un’identità avviene con lo sfoglio dei cataloghi di stereotipi nelle volte mediatiche o in qualche sotterraneo adiacente che pretende ingenuamente di differenziarsi da quanto lo sovrasta. Tutto questo non è altro che l’inizio.