23
Mar

Vox clamantis in deserto

Pubblicato sabato 23 Marzo 2013 alle 13:41 da Francesco

Sono sette anni che corro. Ho lasciato dietro di me migliaia di chilometri e ho la ferma intenzione di macinarne ancora molti, infatti ogni volta che completo i diciotto e mezzo del mio percorso mi sento più vicino a me stesso, del tutto intimo con la mia parte migliore e profondamente amato da quella spinta per la vita che mio malgrado ho sempre esperito come solipsistica.
Incominciai a correre per pura disperazione, spontaneamente; un processo simile a quello della crisalide. Le prime uscite furono brevi, incerte e notturne, però passo dopo passo divennero sempre più lunghe, risolute e mattutine o pomeridiane: esperienze sia esaltanti che salvifiche. Non rimembro affatto quando sono riuscito per la prima volta a coprire la distanza sulla quale m’alleno tutt’oggi, ma forse ho appiattito il ricordo a forza di calpestarlo sulla strada in cui si è originato e oramai l’ho reso parte integrante di un presente che si rinnova ad ogni mia falcata. La corsa ha una valenza archetipica, la quale s’adatta a molteplici interpretazioni: credo che io all’inizio l’abbia vissuta come una fuga e successivamente come l’inseguimento di una persona migliore. Non so di preciso cosa sono diventato, ma di sicuro non quello che ho superato di volta in volta. Prima o poi dovrò smettere di correre; potrei diventare un invalido permanente, morire in un incidente o invecchiare senza proroghe, ma spero di essere pronto per ognuna di queste eventualità. Anch’io ho attraversato stagioni, emozioni e condizioni atmosferiche assai diverse e qualcosa mi ha sfiorato appena, tuttavia fino a questo momento la mia strada è stata abbastanza sgombra e ho mantenuto costantemente la distanza di sicurezza da quanto avrebbe potuto rallentarmi.
Non corro per scappare da qualcosa, ma forse non ho mai imboccato la direzione che avrebbe potuto condurmi verso traguardi migliori: tutto sommato va bene lo stesso e sono a posto così. Il narcisismo per me è stata una scelta obbligata e la corsa ne è una conseguenza benefica, ma non penso che una diminuzione del primo nuocerebbe alla seconda. Resto autoreferenziale in quanto non ho ancora incontrato una forza in grado di strapparmi da me stesso, dall’autarchia affettiva che considero un’arma a doppio taglio e di cui però non ho ancora ragione di disfarmi.

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21
Lug

La smania dell’applauso

Pubblicato lunedì 21 Luglio 2008 alle 19:59 da Francesco

Per taluni è inconcepibile che qualcosa venga fatto senza pretese. Credo che ogni opera umana per essere tale abbia bisogno di un atuore e non vedo come la sua esistenza possa dipendere dall’attenzione che le viene riservata. Un disco non ha bisogno di ascoltatori, a un libro non occorre necessariamente un lettore e non è indispensabile che qualcuno usufruisca di un prodotto dell’ingengo affinché quest’ultimo sia tale. Trovo che il mio ragionamento sia abbastanza banale e per questo motivo rimango perplesso quando alcune persone non lo comprendono o fingono di non comprenderlo. Io capisco perfettamente che alcune volte si realizzino delle cose in funzione della considerazione altrui, ma questa premessa non è un dogma per ogni occasione di questo tipo e in particolare non lo è per quelle attività che oggettivamente non possono puntare a risultati eclatanti in termini di popolarità. Non credo che qualcuno abbia perso il gusto di fare le cose per sé, ma credo che le manifestazioni istrioniche di alcune persone emergano più facilmente rispetto alla passione taciturna di altri individui e mi sorprenderei se le cose andassero diversamente. I successi e gli apprezzamenti possono essere piacevoli, ma non costituiscono le fondamenta di ciò a cui si rivolgono e qualcuno si ostina a ritenere che loro mancanza sia il sinonimo di un fallimento. Per me non è vitale che qualcosa venga riconosciuto da un giudizio esterno a meno che io non abbia precedentemente espresso questo bisogno, perciò reputo un fallimento qualsiasi cosa che sia destinata a rimanere incompiuta. L’ossessione per la considerazione altrui è una patologia grave che nega al suo portatore i propri meriti e allo stesso tempo produce una relazione morbosa tra il singolo e la società. Quanto ho scritto finora non è un inno alla misantropia, infatti credo che quest’ultima sia altrettanto nociva. Non so esprimere correttamente cosa intendo e dubito che in italiano ci sia un termine adatto per sintetizzare il concetto che ho espresso finora. In altre parole penso che serva un’interiorità irredentistica per evitare che le aspettative esterne dominino i propri giudizi e le proprie azioni, ma non imputo nessuna colpa ai promulgatori di tali aspettative e credo che la responsabilità di tutto questo ricada esclusivamente su chiunque le tolleri all’interno della propria forma mentis.

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