15
Lug

Al di là del principio di piacere

Pubblicato venerdì 15 Luglio 2016 alle 10:54 da Francesco

Freud riteneva la pulsione di morte un'ipotesi irrefutabile e il proprio pessimismo un risultato, a differenza dell'ottimismo dei suoi avversari che invece egli considerava una premessa.
Il principio di piacere è volto alla gratificazione immediata e al mantenimento di un basso livello dell'eccitamento, ma talora gli subentra il principio di realtà che dilaziona la gratificazione e si fa carico di una temporanea tolleranza al dispiacere per questioni di adattamento alle circostanze.
La pulsione di morte pare che sia la tendenza al ritorno allo stato inorganico, ovvero a quella fase primeva dell'evoluzione in cui la vita si instillò in una sostanza inanimata; una concezione del genere mette in discussione quella visione della vita che verte sulla ricerca dell'evoluzione, come nel perseguimento del superuomo di nietzschiana memoria, tuttavia è lo stesso Freud a sottolineare subito quanto possa risultare dolorosa la rinuncia a una credenza così consolidata. Fatico ad accettare in toto un tale postulato, ma escludo che la mia ritrosia sia d'ordine emotivo e la ritengo invece propria di un sano atteggiamento dubitativo. Invero dalla mia prospettiva atea non sarebbe per me gravoso accogliere l'idea di riassumere la vita nello scopo di morire, ma forse non ci riuscirei lo stesso in quanto mi sembrerebbe troppo bella perché fosse vera.
Alle luce di cotanta foschia il richiamo alla filosofia di Schopenhauer è un moto spontaneo a cui anche Freud fa cenno in un passo del suo scritto, precisamente quand'egli riporta le parole del filosofo tedesco sulla morte quale "vero e proprio risultato, e, come tale, scopo della vita".
Mi domando se Thanatos, la pulsione di morte, sia davvero latente in ognuno di noi, ovvero in ciò che Jung chiama inconscio collettivo; mi chiedo inoltre se i capitoli più neri della storia della civiltà, non ultimo quello odierno del fanatismo islamico, siano da attribuire alla manifestazione di questo principio che, in determinate circostanze e presso certi gruppi, non trova gli ostacoli del principio opposto, cioè di Eros, la pulsione di vita. Ecco dunque che dietro ogni massacro può essere scorto il tentativo di riportare tutta l'umanità a ciò che fu in principio poiché "gli esseri privi di vita sono esistiti prima di quelli viventi".
Sono un uomo, mi ritengo empatico in un giusto grado e mi limito al mero esercizio speculativo di considerare la violenza senza fine come una mera coazione a ripetere, ma non faccio mia una tale veduta poiché non ne avverto l'autenticità; d'altro canto penso che sia importante lo sforzo di sospendere talvolta ogni tipo di emotività, blanda o parossistica che sia, affinché la lucidità possa operare nelle migliori condizioni possibili come un chirurgo in un ambiente asettico.

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10
Set

I miei riti di passaggio: parte due

Pubblicato giovedì 10 Settembre 2015 alle 23:09 da Francesco

Cadono i corpi dei molti, invero di tutti: prima furono padri e madri, poi divennero dei cadaveri e un domani anch’essi saranno sterminata dimenticanza. Qualche volta sui figli non si ripongono più speranze, ma rose, crisantemi o qualsiasi altra cosa che si confaccia ai costumi funebri della cultura d’appartenenza. Il silenzio dei morti è identico ovunque e ovunque inamovibile.
Lungo le strade dei miei anni terreni scorgo come spesso certuni seppelliscano una parte di sé assieme alle salme nelle quali un tempo vibrava la vita e su cui essi proiettavano i propri umori. Sono intero, io, non ho mai impugnato il badile né ho mai strappato un fiore dalle proprie radici per aggiungere morte a morte. Mi volto verso l’altrui sofferenza per puro caso o forse qualcosa mi induce a farlo senza che me ne renda conto, però quelle coltri di dolore sono troppo distanti perché io possa comprenderle davvero. Non mi manca l’empatia, bensì il ponte sul quale farla scorrere e una destinazione verso cui dirigerla, perciò la lascio assisa sul suo trono, regina d’un regno senza nome nel nome di un Io senza regno.
Un obolo alle prefiche e libero accesso alle frasi di circostanza affinché tutto si ripeta secondo i crismi dei fantasmi. Sono orfano nella mia lingua madre e non partecipo alle feste né alle veglie. Condivido dettami antichi che agiscono sottopelle, ma ne seguo le tracce senza coprire le mie e non mi chiedo dove conducano. C’è chi fatica a stare al mondo e chi se lo porta in groppa senza fiatare più di tanto, tuttavia sapere cosa sia giusto è talora una questione dal sapore insoluto. Proferir parola e preferire di non averlo mai fatto, non per uno smodato amore verso il silenzio, ma per scongiurare i fastidi del rumore. Cosa c’è da dire che non sia ancora stato detto? Forse ciò che manca davvero è il modo giusto di ripetere quanto è già stato pronunciato, però io non dirigo i cori e m’illudo di farne parte solo nelle scene mute, quando al Logos viene negato anche l’onore delle armi e appare in tutta la sua futile apparenza, funzionale solo al quieto vivere.
Così divàgo, solìvago, e un altro mio giorno cangia il proprio senso, perdendolo e ritrovandolo. Oggi la quiete si fa discorsiva, non ci sono arcieri che mirino all’aorta e un vento fresco decreta il principio di qualcosa mentre sancisce la fine di qualcos’altro. La calma prima della tempesta è un’occasione di ristoro e non un presagio di morte: è un momento d’utile quiete e di cui io intendo aumentare la durata sempre di più, al punto che si metta al passo della mia.


Marina con nuvole di pioggia di John Constable, 1827
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1
Ott

Oltre le turbolenze

Pubblicato mercoledì 1 Ottobre 2014 alle 17:27 da Francesco

Le ferite narcisistiche si sono rimarginate, l’Io e i suoi fratelli sono rientrati nei ranghi, è venuta meno l’utilità delle più cupe fantasie e sulle macerie dell’incantamento una desolazione foriera di nuove prospettive ha trovato la propria epifania: tutto qua?
Ho seguito l’intero decorso della mia disfunzione emotiva come se ne fossi stato io l’artefice, il deus ex machina, ma ancora una volta l’introspezione ha rivelato la mia tendenza strutturalista. Al di là dei paroloni (o immediatamente prima) si trova un silenzio più consono alle circostanze e nient’affatto rivelatore: per renderlo mistico dovrei ordinare dei pezzi di ricambio compatibili con la mia indole. Forse a restarsene chiusi tra gli infrarossi e gli ultravioletti si rischia di sviluppare una forma di claustrofobia esistenziale: è disarmante quanto v’è d’inosservabile tra le anguste strettoie del visibile. Non voglio scadere nell’ontologia né in audaci e inutili cerebralismi, ne ho le palle piene delle elucubrazioni, ma cerco di restare attonito il più a lungo possibile davanti alla precarietà della vita perché non confido nell’imminenza di altre meraviglie.
Adesso non ho progetti a lungo termine e la mia attenzione agisce a corto raggio, sicché non ho un posto dove ripararmi dalle folate del futuro che sferzano il mio atollo; e tutt’attorno l’oceano. Qualche volta ho la sensazione che la strada più agevole per l’avvenire si snodi a ritroso, lungo le profonde e insondabili radici genealogiche, laddove i nomi e le azioni dei miei antenati sono tutt’uno con la dimenticanza. Potrei imparare molto dalle esistenze che mi hanno preceduto se mi fosse concesso di vederne le repliche sul grande schermo della memoria: secolo dopo secolo, a forza di notare sempre gli stessi errori, sono certo che verrei colto da più d’un déjà vu e finirei per guardare il presente a colori, senza prove tecniche di trasmissione.
Chissà tra i miei progenitori qual è stato colui (o colei) che più s’è distinto nella ricerca di sé, in pieno accordo con ciò che è (o non è) il tempo biologico: chissà in quale epoca ha vissuto, quali sono state le sue tappe evolutive e il suo ultimo pensiero, il moto di congedo della sua mente. Che il progresso tecnologico espanda i limiti dello scibile è innegabile, ma oltre al sapere v’è un ordine di problemi che riguarda l’essere e per quest’ultimo forse la strada è già stata battuta in tempi lontani: le orme sono molte ed è difficile capire quali siano quelle da seguire, ammesso e non concesso che poi debbano portare da qualche parte. In fede, io e il mio ateismo.

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14
Ago

Imparare a morire

Pubblicato martedì 14 Agosto 2012 alle 05:41 da Francesco

Qualche settimana fa ho letto Lezioni spirituali per giovani samurai di Yukio Mishima, una raccolta di scritti che comprende anche il proclama con cui egli tentò di risvegliare lo spirito giapponese prima di suicidarsi col rito del seppuku. Anche se in passato ho cercato di entrare nell’esercito io mi considero lontano dal militarismo e non scarificherei mai la mia vita per un ideale, però trovo qualcosa di affascinante nella coerenza di Mishima. Qualche volta mi chiedo se egli si sia ucciso per rispettare davvero il suo pensiero e dare un esempio o se invece egli abbia colto l’occasione in modo da mascherare con l’eroismo una sofferenza insopportabile.
Vorrei appropriarmi dell’essenza del bushido perché credo che soltanto una piena accettazione della morte possa consentire di vivere davvero, ma non ne sono all’altezza, almeno non ancora. Per quanto io mi sforzi, la mia è e resta una mente strutturata in modo occidentale, perciò non posso pretendere di cambiarla con l’autoconvinzione. Non mi spaventa la morte di per sé, ma il dolore che può precederla. Non temo di assecondare quella pulsione che secondo Freud vuole ripristinare lo stato inorganico, ma è il passaggio che temo, ovvero l’attraversamento di quella che qualcuno ha descritto come la porta dello spavento supremo. In tutto questo c’è anche un richiamo al nichilismo, più al concetto di superuomo che all’inclinazione distruttiva, infatti vi vedo la necessità di superare sé stessi per accettare serenamente di superarsi. Malgrado il mio forte ateismo, ho ragione di sospettare che a livello inconscio agisca ancora in me qualche elemento della cultura cristiana, forse interiorizzato in tenera età e sedimentatosi contro la mia volontà. Quando mi confronto con il pensiero della morte mi rendo conto di quante attività diurne siano svolte con l’unico scopo di scacciarlo, però io non voglio consolazioni né distrazioni così forti da negarmi un disagio talmente propedeutico per la dissoluzione.
Non elogio la morte, non ne faccio un totem adatto alle provocazioni adolescenziali, ma la porto al giusto grado d’attenzione per non farmi trascinare via dalle futilità quotidiane a cui talvolta io cedo troppo terreno. Non ho fretta di raggiungere la fine, ma non voglio illudermi che non ve ne sia una. Nella sua apparente mancanza di senso, nella sua antica efferatezza, forse anche nella sopravvalutazione stereotipata di cui è stata vittima, la cultura giapponese, più d’ogni altra, mi ha offerto una visione in cui in tempi passati hanno saputo unirsi bellezza, morte e lucida follia. Un altro accostamento che sono solito fare è quello legato ad un certo satanismo, nel quale il suicidio è una libera scelta a cui ricorrere una volta che sia stato raggiunto il momento apicale della propria vita, perciò ne consegue un esercizio del libero arbitrio lontano dalla disperazione. Mi domando tuttavia come si possa certificare l’autenticità di un gesto del genere, infatti il mio sospetto è che talvolta dietro scelte apparentemente lucide e ammirevoli (almeno dal mio punto di vista) vi siano ragioni più prosaiche. Io vorrei invecchiare bene e vivere oltre i cent’anni, ma potrei rinunciare all’eventuale longevità se in me dovesse farsi strada la capacità di vivere al di sopra della mediocrità in cui sguazzo assieme al resto della ciurma. Un discorso del genere pare contorto e contraddittorio, ma io cerco di andare al di là di quanto mi è stato insegnato, al di là di quanto non ho avuto l’accortezza di disimparare, al di là di dell’attaccamento parassitario alla vita a cui sono omologato. Non è facile esporre un tema del genere senza essere inquadrati in una spirale depressiva, in una sterile provocazione o in un esercizio di stile, ma fortunatamente tutto ciò è autoreferenziale e ha un fine migliore dei preconcetti di cui può essere bersaglio, più precisamente ha una fine.

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27
Feb

Morte e ramen

Pubblicato domenica 27 Febbraio 2011 alle 20:15 da Francesco

Ieri, tra le mura medicee di Grosseto, ho scoperto un negozio di cibo etnico in cui non ho esitato a comprare alcune delizie. Mi sono portato a casa un po’ di ramen e me lo sono preparato per il pranzo d’oggi e per quell’altro pasto della giornata che solitamente si consuma durante la sera. Devo proprio risolvermi a fare una scorta di ramen: in questo caso l’imperativo è d’obbligo.
Nel circo mediatico oltre agli elefanti e alle puttane tirano molto anche i morti. Gli indici d’ascolto si alzano come in un’erezione al cospetto dei cadaveri, difatti la morbosità diffusa costituisce una necrofilia platonica. Quando la carne viene meno e lo spettacolo sembra finito, c’è sempre qualche virtuoso del cattivo gusto che riesce immancabilmente a sfregiare finanche la memoria. Avvezzi alla violenza, alla prevaricazione, ma sempre al soldo delle loro insicurezze, un numero consistente di miei simili si diletta a esorcizzare le paure con l’infantilismo dei bambini, tuttavia senza avere più a disposizione la cattiveria innocente che ricorre spesso nei fanciulli. A me pare che a molte persone piaccia stringersi attorno ai lutti per adoperare il proprio dolore o quello di estranei come collante emotivo. Talvolta la solidarietà veicola aspetti meno nobili e altrettanto essenziali per il quieto vivere. Un raduno di motociclisti non è poi tanto diverso da una veglia funebre. Gli usi e i costumi sono sempre più raffinati, il pudore rasenta l’ipocrisia e la condotta si modella su schemi canonici, ma c’è sempre un fondo primitivo alla dipartita di un essere umano come al suo arrivo. Dall’efferatezza alla commozione mi pare che ancora sia difficile svincolarsi dagli istinti e dai retaggi comportamentali per muoversi in regioni più alte del pensiero. Ci provo.

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21
Ott

Quandunque il Sé si trasmetta in differita

Pubblicato giovedì 21 Ottobre 2010 alle 00:14 da Francesco

Anni fa mi denigravo giustamente. Se non avessi insultato me stesso non sarei mai riuscito a svegliarmi dall’apatia. Non ho mai trovato un maestro né qualcosa che potesse guidarmi, sennò avrei risparmiato un po’ di tempo. Ho sempre ricevuto esempi negativi che fortunatamente sono stati ottenebrati dalla mia lungimiranza. Anche quando ero sfiduciato e versavo nella mestizia in me sopiva la forza interiore che ancor oggi mi permette di camminare a mezzo metro di altezza. Potrei essere invulnerabile emotivamente, ma se assecondassi questa tentazione arrogante e arida dimostrerei soltanto una forma di debolezza meno palese, invece sono ancora disposto ad abbassare ogni difesa qualora delle circostanze eccezionali lo richiedano e proprio in questa capacità venata di consapevolezza io intravedo la parte migliore di me: non sono affatto freddo.
Il mio approccio ai sentimenti non è passionale né razionale, ma è dettato dall’unione di Psiche ed Eros alla luce del sole e non tramite incontri al buio come nell’opera di Apuelio o nelle usanze pulsionali delle decadi più recenti.
Il tempo non mi inganna più benché io qualche volta riesca a buggerare lui. Sono giovane, però comincio a rischiare di non vivere alcun trasporto emotivo e non mi faccio fregare da un timore che dovrebbe sorgere in me: fanculo, io lascio che divori le energie di qualcun altro. Il futuro è in divenire per definizione e così come non lo metto nelle mani di una cartomante, non lo depongo neanche sulle paure millantatrici che tra l’altro non trovano spazio nella mia lettura della realtà. Nei paraggi della mia persona, dalle anime in pena si levano cassandre esagerate e previsioni cupe, pare inoltre che per costoro ogni passo avanti debba essere seguito da un salto indietro. Mi disgusta questo leitmotiv depressivo e tendo a non dare fiducia a chiunque non l’abbia in sé. Spesso avverto grandi reticenze, sovente più assordanti delle verità che nascondono. L’onestà nei confronti altrui è auspicabile per vivere bene, però credo che quella verso sé stessi diventi addirittura imprescindibile per sventare certi disastri. Proroghe continue, rinvii ingiustificati e vari ricorsi a impegni abituali possono ritardare molto l’incontro di un individuo con i limiti a cui prima o poi dovrà dare udienza. Un tumore che viene lasciato ingrandire, un nemico a cui si concede il tempo di rinforzarsi: a terribili infermità porta la ferma decisione di lasciare altrettanto ferme le questioni insolute a livello interiore. Non critico la società poiché è troppo eterogenea per prestare il fianco a dei giudizi attendibili, però cerco di comprenderne una parte per non farmi contagiare dalla cecità volontaria. Lo ripeto per l’ennesima volta: io non pretendo di cambiare il mondo, d’altronde sarebbe un moto infantile di romanticismo, ma compio gli sforzi intellettuali e fisici per evitare che accada l’esatto contrario. Insomma, i conflitti intestini hanno ripercussioni sull’esterno e prima di puntare il dito contro gli altri forse un individuo dovrebbe domandarsi se non sia stato lui per primo a commettere l’errore di avvicinarsi a persone incompatibili. Talvolta l’incompatibilità è del tutto artificiale e viene evocata per negare qualsiasi valenza ad un’affinità che oltre alla gioia porterebbe anche la necessità di un confronto personale in uno dei soggetti interessati. Credo che nei veri inetti la felicità sia subordinata alla sopravvivenza di determinate istanze psichiche malgrado la parvenza di normalità e d’integrazione sociale che può risultare da un’attività febbrile in più campi o dalla semplice ripetizione di una routine cristallizzata.
Nei mezzi d’informazione forse la questione dei suicidi non viene affrontata spesso per evitare un aumento del tasso di mortalità, ma non sono rari i casi in cui una mancanza di insight porta alla morte come se si trattasse di una carenza organica. Forse una morte vivente insorge anche in coloro che si adattano alla tristezza e dunque l’adattamento a livello personale non rientra nei principi della selezione naturale perché quest’ultima, secondo me e limitatamente al campo emotivo, si spinge al di là di quanto è stato teorizzato per la sopravvivenza. Non compatisco chi decide di togliersi la vita sebbene per questa regola io preveda doverose eccezioni, contenute nel numero e mai nelle circostanze. Il suicidio fisico e quello emozionale per me rappresentano le lezioni più convincenti della natura per quanto riguarda la salvaguardia di sé stessi.

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28
Ago

Dicotomie evitabili

Pubblicato sabato 28 Agosto 2010 alle 09:32 da Francesco

In quest’epoca di pace apparente ci sono individui che cercano ugualmente un rifugio e alcuni di loro lo trovano nella cultura. Mi fa sorridere chiunque ritenga che sia sufficiente coltivare le virtù dianoetiche per tenere a debita distanza i propri limiti. Io non entro in una torre d’avorio, però una pisciata prospiciente il suo ingresso sono sempre disposto a concederla.  
Pare che per qualcuno la lettura di certi libri e la frequentazione di determinati corsi forniscano un voucher con cui ritirare subito un attestato per la propria personalità. Ai miei occhi la sete di sapere è pressoché identica a quella di potere ogniqualvolta dismetta i panni della necessità evolutiva per diventare la tonalità dominante del proprio autoritratto. L’edonismo intellettuale è piuttosto squallido. Per fortuna non sono abbastanza acculturato da tenere più alle nozioni che a me stesso. Non di rado odo invettive vivaci contro certe figure dell’intrattenimento televisivo e solitamente queste critiche feroci provengono da individui che sentono il bisogno di sminuire quanto risulti contrario al loro mondo per avallare ulteriormente quest’ultimo. Nemmeno io sono sempre estraneo a questi infantilismi, perciò posso tenere per me qualche frase di scherno da rivolgermi all’uopo; come si suol dire: “Prendi l’arte e mettila da parte”.
Nella mia esistenza non cerco di forzare ogni cosa dentro determinati confini per aggrapparmi all’illusione di controllare ogni aspetto della vita. Io non sono né la somma delle mie conoscenze frammentarie né il feto di un futuro gravido e non sento proprio la necessità di definirmi poiché già negarmi per me costituisce un certo impegno. La morte di Raimon Panikkar mi ha riportato alla mente Jiddu Krishnamurti e in particolare un passaggio di una sua conferenza che ho letto mesi fa in quel di Taiwan.

“Per poter sperimentare la morte mentre siamo ancora vivi, dobbiamo abbandonare ogni sotterfugio mentale, ovvero tutto ciò che ci impedisce un’esperienza diretta. Siamo plasmati dal passato, dalle abitudini, dalla tradizione, dagli schemi di vita; siamo invidia, gioia, angoscia, zelo, godimento, ognuno di noi è questo, ovvero il processo di continuità. Ognuno è attaccato alle proprie opinioni, al proprio modo di pensare, ed ha paura che senza i suoi attaccamenti non sarebbe nulla, allora si identifica con la casa, la famiglia, il lavoro, gli ideali… ma quanti sono quelli capaci di porre fine a tale attaccamento e realizzare il distacco? È necessario comprendere i processi del pensiero e la comprensione del pensiero è la cessazione del tempo. Il pensiero, tramite un processo psicologico, crea il tempo, e il tempo poi controlla e configura il nostro pensiero. Il senso di continuità è stato edificato dalla mente, quella mente che guida se stessa per mezzo di precisi schemi e che ha il potere di creare ogni sorta di illusione. Lasciarsi intrappolare mi sembra una scelta tanto inutile quanto priva di maturità”.

Non mi ritengo ancora in grado di esperire il distacco a cui si riferisce Krishnamurti e di cui comunque fiuto la validità, però lo inquadro come un atto episodico da compiere a tempo debito e nient’affatto come un invito a praticare un’ascesi vitalizia. D’altronde egli derideva spesso i santoni, i guru, le meditazioni e ogni altro balocco mistico con un’ironia fantastica. Ricordo che una mattina, mentre ero intrappolato nella metropolitana di Taipei, sul mio volto comparve per l’ennesima volta un’espressione divertita e in quell’occasione l’innesco dell’ilarità fu una frase di Krishnamurti che paragonava l’ashram a un lager.
Io non mi avvicino a certe tematiche per sopperire alle  mancanze della mia vita e non cerco un pensiero al quale uniformarmi per denigrarne degli altri. Raccatto qualche visione d’insieme qua e là per prenderne ogni spunto che mi possa tornare utile nell’introspezione. Non m’interesso all’interpretazione del mondo in senso lato benché spesso l’autoanalisi la chiami in causa. Sono io la mia priorità, ma allo stesso tempo non posso inquadrarmi al di fuori del contesto sociale in cui vivo e se provassi a fare una cosa del genere mi limiterei a coltivare una nevrosi autoreferenziale. Faccio parte di questo mondo a tempo determinato e ormai, dopo quasi due decenni di adattamento, posso affermare di trovarmici bene.

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23
Gen

Ritorsione a domicilio

Pubblicato venerdì 23 Gennaio 2009 alle 19:49 da Francesco

Una sera invernale il signor Tommasini perse improvvisamente ogni motivo per vivere. Si trovava nell’abitazione che aveva acquistato quindici anni prima grazie a un mutuo trentennale, ma ormai non aveva più intenzione di onorare il suo impegno con la banca ed era in procinto di pagare un prezzo più alto per qualcosa di intangibile. La sua esistenza non era stata scossa da un avvenimento particolare, ma durante un pomeriggio assolato si era fermato a riflettere sulla sua vita e allo stesso tempo aveva finto di prestare attenzione ai progetti per le vacanze che un suo collega gli aveva esposto con entusiasmo; in quel momento di distensione apparente egli aveva iniziato ad approfondire la conoscenza dei suoi fantasmi. Il protagonista di questa breve storia era uno stronzo qualunque, uno di quei tipi che cercano una moglie insofferente per calarsi nei panni del martire sposato. Non era mai salito agli onori della cronaca e durante tutta la sua vita non aveva mai mostrato doti straordinarie in qualsivoglia campo, ma sfoggiava sempre banconote di grosso taglio quando voleva abbassare i pantaloni ai figli dei suoi vicini indigenti e le famiglie dei prostituti imberbi chiudevano sempre un occhio per aprire la mano a quel compenso torbido. Ormai anche le peggiori nefandezze non riuscivano più ad appagare la coscienza arida dell’uomo succitato. Il signor Tommasini si sentiva stanco e non riusciva più a placare i sensi di colpa che battevano forte contro le barriere omertose della sua interiorità, perciò era intenzionato a porre fine alla sua vita prima che il peso morale lo schiacciasse. La forza derivante dalla spinta suicida aveva indotto l’uomo a regolare i conti con alcune persone. Prima di togliersi la vita egli voleva uccidere coloro verso cui nutriva un odio profondo e ponderava la strage mentre affettava una mela davanti a un televisore spento. Non aveva bisogno di un’arma poiché possedeva già una pistola di piccolo calibro con la quale di tanto in tanto si dilettava a sparare presso un appezzamento di terra che uno zio gli aveva lasciato in eredità. La notte si era quasi esaurita nella sua oscurità e per il signor Tommasini stavano sorgendo le ultime luci. Nei piani dell’aspirante omicida era prevista una prima tappa a una scuola elementare in cui avrebbe ucciso i figli dei suoi nemici e poi si sarebbe introdotto negli uffici del comune per ferire i veri bersagli del suo risentimento e instillare traumi insanabili nelle loro menti. Costui sapeva bene come agire, ma aveva trascorso tutta la notte ad appuntare più volte le sue intenzioni sopra un vecchio quaderno a quadretti e ormai la punta della sua matita si era consumata come l’ultimo baluardo del suo raziocinio. Tutti i preparativi erano stati fatti e mancavano poche ore prima che un nuovo fatto di cronaca nera sconvolgesse per qualche giorno l’opinione pubblica e rimpinguasse i giornali. Tommasini uscì di casa con la pistola in tasca e la chiave dell’auto in mano, ma sul pianerottolo venne fermato da un giovane carabiniere dall’accento meridionale che gli chiese se si ricordasse di lui. Prima che Tommasini potesse rispondere il ragazzo del sud estrasse una nove millimetri che aveva sequestrato a un pregiudicato e sparò nell’orbita destra all’uomo che era andato a cercare. Il pubblico ufficiale gettò la pistola sul corpo esanime del suo obiettivo e poi si tolse il guanto in lattice con cui aveva impugnato l’arma, infine si voltò e uscì tranquillamente dal condominio come se non fosse accaduto nulla. Nelle settimane seguenti le indagini degli inquirenti non portarono a nulla e dopo alcuni anni il caso venne archiviato. Il carabiniere che aveva commesso l’omicidio era stato vittima degli abusi di Tommasini e senza saperlo, oltre a vendicarsi, aveva impedito che quest’ultimo compisse una strage, tuttavia era ugualmente in pace con sé stesso e quel gesto non gli pesava affatto.

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26
Ott

Il respiro della coscienza: l’evasione dalla fuga

Pubblicato venerdì 26 Ottobre 2007 alle 00:53 da Francesco

Un interrogativo si propaga con la stessa cadenza dei suoi colleghi: “L’amore ruota attorno al popolo della Terra oppure quest’ultimo si limita a roteare una delle sue manopole eteree per sintonizzarsi sulle frequenze dell’utopia?”. La vocazione congenita per l’amore assomiglia a uno spiraglio da cui qualcuno tenta di passare per scappare dalla morte, ma credo che una tale lettura corrompa ogni manifestazione di questo sentimento. Talvolta l’amore e la morte compongono dei drammi ampollosi che si svolgono sulle pagine di un libro, sul palco di un teatro, nell’occhio inflessibile di una telecamera o in una stanza che è destinata a rimanere vuota, ma in tutto questo non vi trovo né pathos né romanticismo fosco. Mi sembra che a volte il desiderio di amare nasconda il timore della morte e penso che queste due entità psicologiche si incrocino più di quanto io riesca a presumere. Ritengo che l’amore non possa essere disinteressato, ma in questo caso al vocabolo “interesse” conferisco un significato più “filosofico” per affrancarlo dalle connotazioni materialistiche dell’eloquio popolare. Talvolta sembra che si debba vivere per sempre e non è semplice emanciparsi da questa illusione poiché è tanto confortante quanto errata. Può risultare sgradevole e difficoltoso guardare le prime avvisaglie della propria finitezza nel fiore degli anni e forse l’impresa diventa ancora più ardua quando si giunge in prossimità della morte senza averla messa in conto. Non penso che sia salutare trascorrere una vita a contemplare la propria finitezza, ma forse questo è ciò che accade quando l’amore viene considerato come un modo per evadere dalla fuga della vita. Qualcuno pretende che l’amore giri in senso antiorario per accedere a un’esistenza perpetua, ma questo genere di pretese assomigliano a quelle di un bambino che non vuole andare a dormire. Trovo che sia indispensabile accettare integralmente la presenza futura della propria assenza qualora si voglia amare in modo sublime. Suppongo che l’amore e la morte agiscano su due piani diversi e si incrocino al sorgere delle problematiche esistenziali nella sfera introspettiva. Non ho mai amato e credo di non essere mai morto finora, ma non ritengo che la mia inesperienza possa pregiudicare in qualche modo le mie considerazioni trascurabili.

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