6
Apr

Si vis pacem, para bellum

Pubblicato sabato 6 Aprile 2013 alle 07:20 da Francesco

Sono trascorsi quasi sei anni dal mio viaggio in Corea del Sud. Di Seoul ricordo il contrasto tra la fatiscenza e la modernità, più netto di quello che in seguito ho notato in Giappone e a Taiwan. L’Estremo Oriente ha sempre esercitato su di me un’attrazione naturale e mi auguro di tornarci quanto prima, tuttavia i soggiorni a quelle latitudini mi hanno dato di modo di apprezzare ancor di più il mio luogo natio malgrado io sia riuscito sempre ad eludere l’asineria del campanilismo. Non sono un esterofilo e al contempo non nutro alcuna forma di orgoglio nazionale; mi sento un apolide, ma di questo status non faccio una bandiera sennò tanto varrebbe che mi avvolgessi in quella sotto cui sono nato. Non è semplice sfuggire alle definizioni, alle identità e soprattutto a tutto ciò che si presta all’identificazione; forse negarsi al logos significa anticipare in parte la morte, tuttavia sembra che questo sia lo scopo ultimo dell’esistenza, o almeno è quanto mi è suggerito a gran voce dai silenzi dei cimiteri in cui talora metto piede; ad ogni modo io non attribuisco un senso funereo e nefasto a questi pensieri.
Non voglio perdermi in troppe digressioni, anche se esse ormai si sono insediate in larga parte di questo appunto col mio beneplacito. Ho evocato i miei ricordi coreani in quanto pare che al nord del trentottesimo parallelo siano in atto i preparativi di una catarsi nucleare. Il regime di Pyongyang nel corso degli anni ha attirato più volte il mio interesse, perciò non c’è nulla che mi stupisca nelle disamine offerte dalle testate giornalistiche e dalle emittenti televisive. È banale ogni citazione che attinga dal più celebre romanzo di Orwell, quello il cui titolo è uguale all’anno della mia nascita, ma è altresì scontato ogni spunto che prenda piede dall’immaginario nato in seno alla Guerra Fredda: corsi e ricorsi storici. Non cerco la coerenza nei potenti della Terra, e forse mi stucca di più il buonismo d’ogni aspirante analista che l’efferatezza di un dittatore, ma nella figura merdosa del papa l’uno non esclude l’altra e difatti trovano un punto d’incontro che rassomiglia al buco del culo. V’è il fanatismo dell’Occidente, in apparenza pacato, ma più simile ai modelli a cui si oppone di quanto le contrapposizioni illusorie facciano credere: un po’ come il denaro che è solo carta alla quale viene attribuito un valore di comodo, lo stesso assegnato ai crocefissi. Mi torna alla mente una celebre citazione degli indiani Cree, la quale paventa come soltanto una volta distrutta ogni forma di sostentamento l’uomo scoprirà che non si possono mangiare i soldi: io vi aggiungo un monito sull’altrettanta scarsa digeribilità delle icone sacre.

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18
Nov

Al di là del bene, del male e di me stesso

Pubblicato domenica 18 Novembre 2012 alle 09:16 da Francesco

Il cristianesimo inquina la morale anche in coloro che apparentemente l’avversano, perciò non è facile sottrarsi alle pastoie di questa cultura. D’altro canto c’è il rischio che un affrancamento del genere dia luogo alla pazzia o fornisca la licenza per qualsiasi atto d’offesa. Spesso mi sembra che tutti si affrettino ad aggettivare azioni, vicende, concetti, come se la nudità dei fatti in sé fosse un’oscenità. Mi sono reso conto che per tendere verso una maggiore obiettività io devo rinunciare alle definizioni di comodo, a quei totem morali che costituiscono il perno d’una società apparentemente pacifica. Non posso negare come l’incrocio di Nietzsche con Hobbes dipinga nel modo più brutale e netto la storia dell’uomo da quando costui s’è fatto tribale.
Vale tutto e i principi ordinatori sono fatti da deterrenti, talora imbellettati con le apparenze di una volontà disinteressata e infinitamente buona che in realtà risponde agli stessi meccanismi delle intenzioni più abiette: la prima semplicemente combacia con la convenienza e così sembra più nobile (che aggettivo fuorviante) di quanto sia in realtà. Io non riesco a smentire un quadro così crudele senza forzare l’onestà verso me stesso, un’onestà scevra di valenza morale che qui è intesa esclusivamente come strumento di precisione.
La pericolosità di uno svincolamento dalla morale è insita nella libertà che ne consegue, quella in cui ogni atto non si piega più ad un principio, bensì al caso specifico e finisce così per attuare un dinamismo che ogni volta ridefinisce il bene e il male. Assimilare davvero tutto ciò significa farsi carico di sé stessi, ma anche questa assunzione di responsabilità per me non deve cadere nella trappola del buono o del cattivo, del nobile o del deplorevole: forse si tratta di un percorso che può essere per taluni un ulteriore passo verso la propria evoluzione, o come la definirebbe Carl Gustav Jung “l’individuazione di sé”; per qualcun altro una  caduta verso la propria distruzione. A cosa serve un faro nella notte se guida verso ombre distorte? Qua non manifesto amore per la verità, ma disagio per le deformazioni di comodo che comunque mi consentono di lambiccarmi senza dover stringere costantemente il coltello tra i denti.
Non ci sono soltanto gravami in questa configurazione del pensiero, ma anche alleggerimenti e sollievi. In ogni sua interpretazione il cristianesimo talora uccide o segrega con i sensi di colpa, né più né meno come altre malattie teocratiche fanno in maniera diretta ed altrettanto efferata. Ho intenzione di applicarmi con maggior intensità a tutto ciò e so già che non di rado mi vedrò costretto a prestare il fianco a fraintendimenti, ma questi per me saranno un ulteriore mezzo di scrematura e non un ostacolo.

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15
Ott

Lo strumento sporco

Pubblicato mercoledì 15 Ottobre 2008 alle 03:06 da Francesco

Qualcuno crede che io sia afflitto dalla tristezza a causa delle mie analisi interiori, ma le cose stanno diversamente. Attraverso l’introspezione ho toccato punti molto profondi della mia intimità senza curarmi di eventuali conseguenze. Ho sempre ritenuto che fosse importante liberarmi il più possibile dai condizionamenti esterni e per questo motivo non ho mai avuto problemi ad affrontare argomenti personali, ma questa disinvoltura titanica ha creato un’apparenza cupa sulla mia persona. Non sono un masochista che ama vessarsi con indagini impietose, ma cerco di utilizzare l’introspezione in modo distaccato e razionale per facilitarmi la vita. Non posso avere il controllo su ogni cosa, ma ho la possibilità di aumentare l’emancipazione della mia capacità decisionale dall’impulsività e dai paralogismi. Questo processo non si svolge presso i prati fioriti di Heidi ed è normale che talvolta emergano argomenti quasi imbarazzanti, ma ritengo che in casi simili si veda la volontà di studiarsi. Io tendo verso l’oggettività, ma so che non posso raggiungerla e allo stesso tempo compio sforzi per avvicinarla quanto più possibile. Alcune cose che ho scritto in passato possono sembrare disgustose e altre ingenue, ma io penso che rappresentino le estremità sincere della mia morale. Ho ripetuto altre volte che io non credo nell’amore perché non ho bisogno di credere in qualcosa che esiste e si manifesta senza avalli ulteriori, ma questa posizione può essere ritenuta ingenua da chiunque la interpreti in maniera superficiale. Ciò che viene comunemente indicato come “amore” probabilmente non lo è altrimenti rimarrebbe tale e non provocherebbe reazioni che non lo riguardano, ma per taluni è impossibile ammettere una cosa del genere poiché si tratta di un attentato alle strutture di difesa dell’Ego. Trovo che sia più facile pensare all’amore come qualcosa di elitario, romanzesco o reazionario, ma io che tendo verso l’oggettività non posso fermarmi di fronte agli alibi dell’incoerenza e della paura. Le mie parole non vogliono convincere nessuno, infatti io mi rivolgo sempre ed esclusivamente a me stesso, ma posso conoscermi meglio lambendo alcuni aspetti dei miei simili senza preoccuparmi delle scelte private di costoro poiché non mi competono né possono influenzarmi. Un discorso simile si adatta alle parti più macabre e disgustose della mia scrittura. Io non amo l’horror: lo trovo banale ed estremamente noioso. A me interessano gli orrori reali e per questo a un film come “Begotten” preferisco un documentario sugli esperimenti di Josef Mengele. Il mio approccio nei confronti degli orrori umani non è adolescenziale. Non mi interesso al male per stupirmi o per stupire. A me interessa la realtà e penso che quest’ultima sia più difficile da scorgere attraverso scenari che la alterino, tuttavia non nego che possano avere ugualmente una certa valenza in un’ottica metaforica. Non posso farci nulla se sembro un individuo triste e anche se potessi liberarmi da questa nomea non lo farei perché non è un problema che mi riguarda. Credo che la tristezza sia fondamentale e sono contento di averla sperimentata in passato, ma ho già imparato da lei tutto ciò che poteva insegnarmi e ormai preferisco frequentare i miei risultati positivi. Penso che la comunicazione sia una sorta di selezione naturale che premia chiunque provi ad agire e riflettere abbattendo ostacoli senza il timore dei pregiudizi e dell’imbarazzo.

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3
Nov

La schiava del tempo

Pubblicato sabato 3 Novembre 2007 alle 07:54 da Francesco

Mi chiedo quale aspetto avranno gli esseri umani in futuro e come cambieranno i loro modi di relazionarsi. Probabilmente l’amore e l’odio assumeranno nuove vesti. Un giorno questa epoca sembrerà tremendamente primitiva, ma forse ci saranno ancora dei professori canuti che si dedicheranno allo studio di questo tempo. Ogni fatto storico ha una data di scadenza e credo che persino un evento come la Shoah sia destinato a perire sotto la freddezza cronologica di uno studio asettico. Molti eventi storici hanno perso il loro pathos e sono stati declassati nelle pagine dei libri. I massacri di molti secoli fa, le torture, i soprusi e gli eventi bellici non scuotono le coscienze a differenza dei grandi stermini del novecento, perciò ritengo che sia inevitabile che ogni evento storico perda il suo valore emotivo e rimanga soltanto una soma di date e di statistiche. Il tempo provoca dei cambiamenti profondi nella morale umana, ma questa sua capacità modificativa mi induce a ritenere che ogni sentimento intenso abbia un timer che scandisca il conto alla rovescia del suo esaurimento. Come si possono costruire delle certezze sulla propria personalità se il tempo la rende mutevole e inadatta all’edificazione? Suppongo che per sfuggire alla morsa tirannica del tempo occorra radicare alcune parti di sé al suo interno senza atrofizzare il proprio pensiero e credo che sia molto difficile agire in questo modo poiché trovo labile il confine tra un’azione costruttiva e una simile ma con esiti anestetizzanti.

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