16
Lug

E qualcosa ricadde sulla mia transitorietà

Pubblicato martedì 16 Luglio 2019 alle 03:09 da Francesco

Premo una mano contro il vuoto e così arresto il cuore pulsante della notte per fermarmi sulle sue pareti, incurante della giovinezza che gli attribuisce chiunque s’illuda di allungargliela con il ricorso a siffatte adulazioni.
Ho bisogno di conferire in privato con l’universo e posso farlo ovunque perché in questo periodo mi sento di nuovo tutt’uno con esso. Le mie parole, le mie azioni e i miei pensieri non hanno incertezze e si muovono con reciproco rispetto delle dovute precedenze. Non posso aspettarmi che questo stato duri per sempre, ma posso fare il possibile per continuare ad alimentarlo e sulla consapevolezza delle sue intermittenze devo coltivare l’abilità di affrontare i futuri scontri con le forze contrarie. Forse proprio il mio attaccamento verso questa condizione di grazia dimostra come io non sia ancora all’altezza di trattenerla o d’esserne trattenuto. Mi sento rapito da un principio superiore che si origina da me e in me ricade, ma non è una suggestione passeggera né un inganno dei sensi: ne conosco la natura in quanto essa ha già permeato le fasi migliori della mia esistenza e pare che adesso la ammanti di nuovo.
Non so come si conservi ciò che è intangibile e al contempo avulso dai processi mentali, ma compirei già una grande impresa se riuscissi a descriverlo con la povertà delle parole. Non c’è modo di condividere ciò che in potenza già appartiene a tutti e di cui ognuno può fare solo una personale esperienza, o almeno questo è quanto intuisco.
Gioia e commozione risuonano e prorompono dal plesso solare, infine si allargano come se fossero dischi planetari a misura d’uomo, ma cosa mai posso scriverne? Forse la durata di certi fenomeni ha importanza fintantoché sussiste il concetto stesso di durata. Non cerco artifizi nelle elucubrazioni e il mio vandalismo diaristico si è protratto sin troppo.

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15
Apr

Attestato di coscienza

Pubblicato domenica 15 Aprile 2012 alle 12:56 da Francesco

Mi piace la lucidità che traspare dalle mie parole. Adoro oltremodo le critiche che muovo a me stesso perché non le esacerbo più del necessario. Faccio le veci d’ogni interlocutore e mi sforzo di essere talmente munifico da anticiparne i pensieri.
Poco importa che le mie esternazioni siano truculente, oniriche, ben ponderate o parzialmente poetiche: in ogni agglomerato di parole vergato dal sottoscritto scorgo, in misura variabile, degli esercizi di attenzione. Non mi areno nella forma, non ho la caratura dell’esteta letterario e non è neanche mia velleità conseguirla, ma punto al mantenimento della lucidità, fino al parossismo. Voglio incatenarmi alla realtà in segno di protesta contro quanto cerchi di negarla; mi sento del tutto libero quando avverto i legacci dell’autenticità e non è sufficiente un paradosso banale per spiegare ciò che provo. Le definizioni hanno poca importanza in contesti così autoreferenziali. Se fossi autodistruttivo avrei dei seri problemi a trovare un modo efficace per piegarmi, perciò sono contento di possedere le carte in regola per transitare in sfere del pensiero più adeguate alla mia indole. Defletto e rifletto quando accade nel mondo e dentro di me. Sporadiche cadute e motti di spirito sono i segni della mia umanità, limiti tangibili che abbraccio fortemente perché non voglio aggrapparmi a delle ideazioni che distorcano il reale, a meno che non dimostrino di poterlo estendere. Non corro il rischio di essere un pioniere di qualche cosa e di conseguenza posso dormire tra due guanciali senza agognare di pormene un terzo sul volto fino alla cianosi.

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