L’avanzata nel tempo è una scalata e gli appigli sono le lancette dei tanti orologi fermi che ne tempestano la parete. A volte uno sguardo nel vuoto dà l’idea di quanto tempo sia trascorso dall’ultima volta che qualcuno abbia degnato di considerazione il proprio passato.
La caduta a ritroso non è eventuale, ma certa: la salita è propedeutica al suo esatto contrario. All’orizzonte si muovono ombre che non temo affatto, però alimento lo stesso un po’ di circospezione. Qualche volta non mi vedo a una certa quota sopra la mia nascita, sospeso o in progressione sull’asse delle ordinate, bensì vi sono dei momenti o addirittura interi periodi nei quali mi sento sotto una piccola cascata mentre il tempo mi scivola addosso. Ho il sospetto che la durata della mia esistenza non conti poi molto nel grande gioco del cosmo, ma assecondo l’istinto di conservazione e le auguro una buona longevità.
Mi reputo risolto in una determinata misura e mi rendo conto di come tale asserzione potrebbe apparire pretenziosa o persino tracotante se venisse letta o appresa da chi avesse l’ardire di spendersi sulle mie parole, ma non sono giunto a tale giudizio con la negligente indulgenza di chi non abbia mai dilaniato se stesso in lunghe, drastiche e decisive schermaglie introspettive.
Ho come l’impressione che quanto ancora rimanga del mio tempo su questo pianeta sia una sorta di surplus e per me non v’è nulla di negativo in ciò, anzi, ma non ne ho la certezza e non so se il futuro abbia in serbo per me nuovi sensi con cui ammantare il mio rapporto con lui.
La mia vaghezza è lo specchio opaco su cui mi rifletto e sul quale rifletto. Non pretendo di scrivere o dire nulla di più di quanto non ci sia bisogno di scrivere e di dire. Se dovessi davvero aggiungere qualcosa in questo preciso istante, allora volgerei un plauso alla notte incipiente e alle voci di Otis Redding e Sam Cooke che mi ci traghettano mentre parlo con me stesso e sempre per me stesso scrivo.