23
Apr

Uovo di Jung

Pubblicato giovedì 23 Aprile 2015 alle 10:16 da Francesco

Mi sono soffermato su due capitoli del Libro rosso: il nono e l'undicesimo.
Il mio interesse s'è destato all'incontro di Jung con Izdubar, l'uno diretto verso oriente e l'altro verso occidente; il nome del secondo protagonista è quello con cui gli assiriologi indicavano il personaggio di Gilgamesh quand'ancora non ne era nota la giusta traslitterazione.
Izdubar irrompe come un gigante che brandisce un'ascia bipenne e anela all'immortalità, tratti che di primo acchito me l'hanno fatto associare alla mitologia norrena, però egli cade presto vittima delle parole di Jung che involontariamente lo avvelena col sapere scientifico di cui costui si fa inconsapevole nunzio: da qui l'enantiodromia oscura i cieli e riempie le pagine.
Così prende piede il noto gioco degli opposti, che prima chiamerei "incontro" e poi "accordo" dei contrari se volessi rendere un po' più serio il mio approccio al tema, ma questa volta lascio i riferimenti alchemici a chi vuol credere più del necessario a ciò che scrive o a quello che legge.
La razionalità quasi uccide il dio (in quanto Izdubar lo rappresenta col pensiero orientale), però l'altro vuole salvarne l'esistenza e s'ingegna per farlo. Alla fine Jung riduce Izdubar a una mera fantasia e così può trasportarlo in un uovo (e la semplicità della soluzione a me ricorda proprio l'espressione "uovo di Colombo"). Portato in una casa e fatto oggetto di incantesimi, così sono chiamate nel decimo capitolo quelle che a me sembrano preghiere, l'uovo viene aperto e il dio rivive: mi ha colpito molto l'immagine che Jung ha realizzato per descrivere questo momento.
La rinascita di Izdubar non è letterale e io ne associo il senso lato a quello della morte di dio secondo Nietzsche; nel primo caso si manifesta un rinnovamento di sé stessi, nell'altro invece v'è un preludio al superamento dei vecchi valori (poiché ne viene decreta la fine).
Jung non filosofa con il martello, forse non filosofa affatto, inoltre suppongo che i suoi scopi siano altri, perciò non metto in contrapposizione due pensatori di così diversa natura che io vedo comunque vicini laddove il tempo è quasi un orpello della metafisica.
Oltre alle dotte (in apparenza) elucubrazioni, personalmente non riesco a trasporre nulla di ciò nella mia realtà, perciò ne elogio la forma e ammetto la mia totale incapacità di identificarmici.
Non mi sognerei mai (eh già, il verbo è proprio adatto, e anch'esso lo è, "il verbo", come in una scatola cinese da calembour) di screditare la tecnica dell'immaginazione attiva di cui Jung si è avvalso, ma riconosco come questa non mi appartenga; d'altronde, in modo tutt'altro che ermetico, è egli stesso a mettere in guardia il lettore in un passo del Libro rosso: "Quello che vi do, non è né una dottrina né un insegnamento. E da quale pulpito potrei indottrinarvi? Vi informo della via presa da quest'uomo, della sua via, ma non della vostra. La mia via non è la vostra via, dunque non posso insegnarvi nulla. La via è in voi, ma non in dèi, né in dottrine, né in leggi. In noi è la via, la verità e la vita".

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8
Apr

Lo spirito del tempo, lo spirito del profondo

Pubblicato mercoledì 8 Aprile 2015 alle 15:39 da Francesco

Alcune volte accantono dei libri in attesa che il momento opportuno ne propizi la lettura: per me si tratta di uno stratagemma con cui prevengo un approccio meccanico a quei testi che reputo importanti e ai quali riservo un attento esame. Uno degli scritti in questione è Il libro rosso di Carl Gustav Jung: l’ho acquistato in autunno ed è soltanto da una settimana che sono incorso nelle condizioni giuste per addentrarmici con tutto il mio spirito.
Quest’opera mi rispecchia in toto e intuisco con altrettanta pienezza in quale stato d’animo Jung ci si sia dedicato nel corso di decenni. In alcuni tratti riscontro l’influenza di Nietzsche e del suo Zarathustra, soprattutto nei dialoghi visionari che lo svizzero sostiene con la propria anima.
I suoi peripli mi ricordano i miei, perciò quasi mi commuovo a scorgere quant’egli si sia spinto a ridosso della pazzia per superare il cosiddetto spirito del tempo; a tal proposito mi sono rimaste impresse le parole di Schelling che compaiono in una nota del testo, ovvero quelle per cui esiste “una classe di persone che riescono a dominare la follia e che, proprio esercitando questo controllo, mostrano in sommo grado la forza dell’intelletto”.
L’esperienza nel deserto di Jung con la sua anima mi conferma quanto gli archetipi vivano nella mia specie: io stesso sono ricorso a quell’immagine ancor prima di conoscerla nella sua opera e medesime sono state le intenzioni del suo utilizzo. V’è un altro punto che mi ricorda da vicino le mie elucubrazioni e si tratta di un breve passaggio nel quale ritrovo compiuta anzitempo una critica all’accumulo di nozioni che più volte è sorta spontaneamente in me: “Non vi è cultura creata dalla mente che sia sufficiente a trasformare la tua anima in giardino; io avevo curato la mia mente, che era lo spirito di questo tempo in me, ma non lo spirito del profondo che si volge alle cose dell’anima, al mondo dell’anima”.
Jung per affrontare queste scoperte e per sostenerne il rischio fece affidamento sulla famiglia e sul proprio lavoro, tuttavia io non ho la prima e nel mio caso le mansioni del secondo non hanno punti di contatto con questo àmbito. Sono da solo nella traversata del deserto, ma per fortuna posso contare su tante risorse interiori. Qui il linguaggio si fa rarefatto, quasi viene meno al suo compito, perde polisemia e si presta ad accuse di vaghezza: ulteriore riprova di quanto mi trovi distante da chiunque possa essermi affine. Il cammino continua.

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