Nella morte ravviso un momento capitale in ogni sua accezione, dalla più figurata a quella letterale, perciò nutro un “vivo” interesse verso questo orizzonte sul quale tutto si staglia. Defungere riesce a tutti e quindi viene da pensare (finché è dato farlo) che la vera inclusione si dia nella dissoluzione organica. Nel Fedone Platone considera la filosofia la via regia per imparare a morire e ne fa suo scopo precipuo, asserzioni queste che fanno il paio con altre tradizioni sapienziali di un Oriente plurimillenario: per mia parte ho visto le mie convinzioni salire di loro sponte su questo carrozzone metafisico.
Conoscevo la von Franz come allieva junghiana, ma quando mi sono imbattuto in questo suo scritto ne ho subìto l’immediata fascinazione. È suggestiva l’ipotesi secondo cui sul punto di morte vengano meno i limiti dello spaziotempo e si apra una realtà superluminale in cui la sincronicità assurga a nuova regola. Ne “La morte e i sogni” la von Franz descrive e analizza casi in cui il mondo onirico annuncia l’imminente fine della dimensione fisica, rendendo così possibile un accostamento del testo alle esperienze di premorte riportate altrove e agli studi di psicotanatologia della Kübler Ross, tra l’altro anch’essa citata nel libro.
La morte e i sogni di Marie-Louise von Franz
Pubblicato venerdì 21 Giugno 2024 alle 23:16 da FrancescoIntendo soffermarmi su alcuni appunti delle mie letture junghiane. Anzitutto voglio ricordare a me stesso come l'inconscio abbia un concetto del tempo peculiare, diverso da quello della vita vigile: è un elemento chiaro nell'attività onirica e di cui è bene che anch'io tenga conto quando tento d'interpretare quest'ultima. A proposito dei sogni: da quanto ho letto sembra che questi svaniscano dalla memoria ogniqualvolta siano risolti i problemi di cui sono ambasciatori.
Mi ha colpito un'idea che ho trovato nel secondo volume dei seminari sui sogni dei bambini, ovvero quella per cui le emozioni derivano sempre da un mancato adattamento: è lo stesso Jung ad affermarlo e inoltre aggiunge che quelle si annidano dove l'individuo fallisce.
Appena mi ci sono imbattuto mi sono chiesto come andasse intesa una tale dichiarazione in quanto ho avuto subito la sensazione che fosse molto più articolata di quanto apparisse d'acchito, ma, come già mi era successo in casi analoghi, non ho trovato immediatamente degli approfondimenti né dei rimandi bibliografici.
Dopo una breve ricerca sono incorso in un virgolettato di Aion in cui Jung afferma che l'emozione non è un processo attivo dell'individuo, ma è qualcosa che gli accade e anche specchio (come già accennato) di una mancanza di adattamento a una certa situazione.
Queste considerazioni mi consentono d'introdurne un'altra, ovvero quella secondo la quale una persona talvolta ne desidera un'altra solo per possederne le qualità e di conseguenza mi chiedo quale ruolo svolgano le emozioni in simili eventi. Non dubito dell'esistenza di legami autentici e, quantunque io non abbia mai esperito nulla del genere, non posso certo credere che qualsiasi relazione scaturisca dalle dinamiche suesposte, ma allo stesso tempo concedo un giusto peso alle parole di Jung perché sono avallate da fatti ricorrenti che ognuno può constatare da sé.
Appunti sfusi del Libro rosso di Carl Gustav Jung
Pubblicato sabato 2 Gennaio 2016 alle 22:26 da FrancescoAncorché con estrema concisione e senza l'ausilio degli incisi necessari, intendo trasporre su queste pagine una parte dei miei appunti su uno dei testi più famosi e controversi di Jung, ovvero il Libro rosso a cui ho dedicato molteplici attenzioni sin dalla scorsa primavera.
Quanto mi accingo ad annotare non ha pretese di completezza, dunque lo vergo come meglio credo a mio esclusivo uso e consumo; mi riservo inoltre la possibilità di ampliare questo piccolo sunto di annotazioni che ho tratto dalla lettura del testo in questione e da quella della Guida al Libro Rosso di Bernardo Nante.
Il Libro rosso è disseminato di miti, ma è esso stesso un mito che esorta chi lo legge al recupero di una vita simbolica: quest'ultima consiste nell'unione degli opposti che è celebrata dalle nozze mistiche che ognuno deve narrare con l'unicità della propria esistenza. Jung precisa che il testo non dev'essere considerato alla stregua né di una dottrina né di un insegnamento, bensì solo un invito che è rivolto a chiunque intenda cercare dentro di sé la via della propria rivelazione.
Apprezzo molto quest'ultimo monito di Jung e dei suoi esegeti in quanto non riduce l'opera a un corpus di dettami per indoli pedisseque, ma pone il lettore al cospetto della vox media più bella e crudele, ovvero "libertà"; e mutatis mutandis, in tutto ciò sento odor di pelagianesimo.
Il primo passo che viene mosso nel Libro rosso è verso l'assurdo e si compie con l'assassinio di Sigfrido che invece rappresenta il senso. L'Io è il protagonista e deve rapportarsi con le figure più disparate, tra le quali il Diavolo e un anacoreta: il primo rappresenta la materia, il mondo terreno, il secondo invece l'ascesi e la spiritualità.
Viaggiando verso oriente l'Io s'imbatte in un gigante babilonese di nome Izdubar (che è l'errata traslitterazione di Gilgamesh) il quale procede in direzione opposta. Quest'incontro è quello tra l'uomo scientifico e l'uomo mitiologico con la dicotomia che è loro propria. Jung spiega al gigante la teoria eliocentrica ed egli s'ammala poiché gli vengono meno le convinzioni magiche, quindi Jung tenta di riparare al danno che ha causato e propone a Izdubar di diventare una fantasia in modo tale che lui possa portarlo in Occidente, racchiuderlo in un uovo e covarlo. Quando i passi anzidetti vengono compiuti Izdubar rinasce ma l'Io ne resta orfano.
A questo punto è sottolineata l'incapacità di vivere in pieno il mistero dell'unione degli opposti a causa della tensione tra lo scetticismo scientista e la devozione infantile.
L'Io riceve il dono della magia che richiede il sacrificio della consolazione e si reca da un mago affinché lo liberi dal destino: la magia consiste nell'imparare ciò che non può essere imparato e nel comprendere l'incomprensibile in quanto essa permette di sopportare le contraddizioni.
Il mago Filemone non comunica all'Io il segreto della magia per mezzo della parola, bensì egli si avvale del suo modo di vivere e ne fa un esempio. Compaiono poi i Cabiri, delle divinità ctonie che si mettono al servizio dell'Io per diventarne oggetto di sacrificio.
L'Io riconosce le esigenze dei morti e così può lasciare le aspirazioni personali, inoltre è in grado di non desiderare più che la sua volontà s'imponga agli altri o che di questi egli voglia la felicità.
Appaiono due figure, Salomè ed Elia: la prima rappresenta l'eros e il secondo il Logos.
Le nozze mistiche tra sopra e sotto generano un'anima spiritualizzata e il protagonista resta da solo con il suo Io: costui deve recuperare il passato che non ha ancora accolto poiché la pietra di paragone è l'essere soli con sé stessi. Questa è la via. L'Io non deve farsi carico dei morti perché deve restare fedele alla solitudine, ma non lo capisce e sprofonda nella tristezza, inoltre v'è un confronto con l'Ombra personale in cui ammette la propria inferiorità e accetta di farsi domare. Su questo orizzonte si staglia un concetto importante, ovvero che occorre comprendere sé stessi per superare la pretesa di essere compresi dagli altri.
Jung non si disfa dell'anima benché questa si presenti come una sgualdrina ipocrita poiché egli sa che comunque serba il tesoro più prezioso. Per procedere verso il Sé è necessario che vi sia un riconoscimento dei vizi e delle virtù.
Nel pleroma le coppie di opposti in realtà non esistono poiché si annullano, perciò nella misura in cui un individuo è attratto da un polo finisce per cadere in quello opposto: rimedio a ciò è l'essenza e non il pensiero. Filemone insegna il sapere che pone un freno al pensiero.
È Abraxas che abbraccia entrambi i poli, ovvero un dio da sapere e non da comprendere, cioè il signore di questo mondo. Filemone da parte sua non può insegnare ai morti il dio che è uno in quanto essi lo hanno ripudiato e così hanno dato potere alle cose, ovvero a molti dèi.
Essere in comunione dà calore mentre essere da soli dà luce: l'uomo deve differenziarsi dalla sessualità e dalla spiritualità che non possiede poiché ne è posseduto. Affinché l'integrazione si verifichi l'enantiodromia deve interrompersi. Secondo Filemone gli uomini non possono imparare nulla fino a quando non vivono la loro vita senza imitare nessuno: ciascuno deve realizzare la sua opera salvifica. Gli dèi sono insaziabli perché ricevono troppo e devono imparare la penuria dagli uomini, ma le atrocità dei mortali aumentano quando queste precedono la rinascita di un dio paradossale. Il dio unico è morto e la pluralità delle cose uniche è il dio uno.
Elia finisce per indebolirsi poiché passa a Jung una parte troppo grande del suo potere; egli e Salomè sono modelli archetipici per l'unione degli elementi maschili e femminili; riconoscere il valore della seconda rende possibile l'annullamento dell'identificazione del sapere con la mera erudizione. A un certo punto appare Cristo con le sembianze di un'ombra azzurra e Filemone lo porta a capire come la sua natura sia anche quella del serpente: egli ne conviene.
Nel terzo volume dei seminari di Jung su Così parlò Zarathustra di Nietzsche mi sono imbattuto in un’interessante digressione secondo cui uomo e donna non si possono incontrare direttamente senza che ne risultino dei problemi; alla luce di questo assunto Jung riconosce un certo ruolo a quei riti che dovrebbero fungere da strumenti apotropaici, come il matrimonio nel cristianesimo. Sono stato colpito da questa riflessione perché io non sono mai riuscito a stabilire un ponte con l’altro sesso, ovvero una comunicazione efficace tra esseri senzienti: ci sono sempre state delle forze contrarie che mi hanno impedito un saldo allaccio con l’altro capo dell’esistenza e quando ho letto il passaggio summenzionato mi sono reso conto che in realtà l’ostacolo è sempre stato generato dallo scontro degli opposti, dal versante maschile e da quello femminile, nella totale assenza di una mediazione capace d’attenuarne l’onda d’urto. Ovviamente in quest’epoca e per un ateo anticlericale come me non può avere alcuna utilità uno strumento come il matrimonio né qualsiasi altro trucco espediente dogmatico, ma deve comunque esserci qualcosa che mitighi le forze in gioco, come suggerisce Jung; per quanto mi riguarda questo qualcosa non può che essere la somma di reciproche introspezioni, o almeno il versamento di quote eguali del proprio Io in un fondo comune, come se, tramite un ardito ossimoro, occorresse un’introspezione a due. Immagino che non potrei trovare delle parole migliori per spaventare chi anche nutrisse un pur minimo interesse nei miei confronti, di fatto complico tutto più di quanto già non lo sia, ma sono lieto che io abbia abbastanza lucidità per sottolinearlo.
In queste righe non mi riferisco a quelle relazioni che si basano sulla meccanicità e di cui potrei fare incetta se solo lo volessi: di fatto ho un potere a cui non ricorro perché mi avvelenerebbe a causa della mia lucidità, quasi come in una reazione allergica, uno shock anafilattico invece che addizionale, di conseguenza per me le cose devono seguire un determinato corso affinché non siano venefiche o foriere di disastro.
La mia lunga avventura nell’analisi dello Zarathustra da parte di Jung sta per volgere al termine e dopo oltre mille pagine trovo che talora le deviazioni dal tema principale siano più illuminanti della strada maestra, ma d’altronde ogni verità è ricurva e tutte le vie dritte mentono.
Arch of Hysteria di Louise Bourgeois, 1993
Grazie ai seminari di Jung sto capendo come Così parlo Zarathustra non sia stato concepito dalla pazzia di Nietzsche, bensì quanto quest’ultima sia derivata dalla stesura dell’opera: egli scrisse al modico costo della propria salute mentale ed elaborò una filosofia tra le cui pagine… capitolò!
Jung pone l’accento su un errore fondamentale di Nietzsche, ovvero la sua identificazione con Zarathustra e quindi con il Sé, un processo insostenibile per chiunque, qualcosa che nel migliore dei casi può essere sopportata per un certo periodo prima di soccombervi, ma talora sembra che lo stesso Nietzsche profetizzi inconsciamente la propria caduta e ciò si ravvisa in un passo su cui Jung si sofferma: “Quando volevo elevarmi, anelavo al mio tramonto, e tu sei il fulmine che io attendevo!”. Quelle parole sono rivolte a Zarathustra da un giovane che rappresenta una parte di Nietzsche la quale rimane vittima del fulmine (cioè di Zarathustra e della conseguente follia) perché non ne è all’altezza: avviene un’esplosione improvvisa che Jung riscontra di frequente nei casi di schizofrenia. A breve distanza dalla cassandra succitata v’è poi un anticipo di un’idea che troverà posto nella psicologia moderna: “Il vostro nemico voi dovete cercare, e fare la vostra guerra, per i vostri pensieri”. Tali parole possono assumere un determinato significato qualora le si consideri sul piano politico, ma ne ottengono uno completamente diverso e più profondo nel caso in cui le si connoti a guisa di un conflitto individuale: opto per la seconda interpretazione.
Non ricerco nella filosofia delle verità assolute, non sono interessato ai destini ultimi dell’uomo né a tutto ciò che mi allontani dall’indole introspettiva, ma talora questi elementi collettivi mi si parano davanti poiché non sono slegato dall’umanità come non lo è nessun altro: insomma, consciamente o meno, non si può sfuggire dal confronto con gli archetipi e anzi, questo è di importanza fondamentale. Jung non ne è certo, però nel conflitto anzidetto egli vede da parte Nietzsche l’intuizione del processo d’individuazione, difatti quest’ultimo ha modo di verificarsi solo quando si trovi un centro più o meno equidistante dalle tendenze della personalità che sono in contrasto tra loro. L’identificazione con un unico versante di sé stessi è un pericolo e secondo Jung può dare l’idea che il nemico si trovi all’esterno: in termini pratici tutto ciò si nota nelle accuse che taluni rivolgono a terzi come forma di giustificazione per le proprie mancanze.
Finora nei seminari sullo Zarathustra non ho trovato da parte di Jung e dei suoi astanti nessuna forzatura, bensì delle interpretazioni con diversi gradi di attendibilità che non lasciano nulla al caso. Questo ciclo di conferenze, di cui finora ho letto e approfondito la prima metà, ovvero circa ottocento pagine, offre delle utili digressioni per le quali talvolta lo scritto di Nietzsche mi pare che sia solo un pretesto da cui sgorgare, ma non sottolineo quest’impressione come una critica ed è invece un segno di apprezzamento che tributo a tale modus operandi.
Ho già dedicato qualche parola in merito all’importanza che Nietzsche conferisce al corpo, però non ne ho ancora spese per soffermarmi su un’interessante osservazione di Jung a proposito della funzione imprescindibile della carne nel cosiddetto processo d’individuazione.
Gli oggetti conseguono una distinzione solo nello spazio e nel tempo poiché vi assumono delle caratteristiche definite che ne permettono la conoscenza, e parimenti un individuo necessita di specchi per scoprire quale sia il suo volto, tuttavia egli può anche rispecchiarsi nei suoi simili per conoscere se stesso; Jung parte da tali assunti, nei quali io percepisco una critica agli anacoreti e in particolare ai padri del deserto: egli finisce per indicare quanto il corpo sia fondamentale per delimitare il Sé e come l’idea di quest’ultimo non sarebbe possibile se non esistesse il primo.
Non riesco a capire se il confronto con i propri simili (poiché suppongo che lo specchiamento nel prossimo questo significhi) debba essere continuo, vita natural durante, o se, una volta tratte le debite conclusioni, si possa decidere di farne a meno: qualora quest’ultimo caso fosse quello corretto non potrei scorgere nessuna critica verso gli eremiti e all’indirizzo di chi nel corso della storia (e soprattutto della propria storia) abbia intrapreso un’ascesi più o meno solitaria.
A me piace immaginare che ogni individuo abbia un destino da compiere (e a ciò collego sempre un celebre aforisma di Nietzsche, ovvero “diventa ciò che sei”), però è proprio in forza di tale peculiarità che secondo me (e non solo) non possono esservi delle regole assolute in questo ambito. Trovo illuminante ciò che Jung scrive nelle stesse pagine (che ormai mi sono lasciato alle spalle da qualche settimana) da cui ho tratto lo spunto per queste righe: “Le persone che non sono consapevoli del proprio corpo risultano affette in misura variabile da un’irrealtà esistenziale”.
Io suppongo che la consapevolezza del proprio corpo possa venire meno anche quando a questo si riservino molte attenzioni e se ne soddisfino tutti i bisogni, dunque ipotizzo che la questione verta sul modo di rapportarsi alla propria carne: paradossalmente mi ritrovo di nuovo di fronte a delle astrazioni che in questo contesto possono sembrare erroneamente fuori luogo.
La realtà del corpo è diversa per ognuno e quindi il compito di scoprirla (per chi lo vuole) non può essere delegato, ma io tendo a credere che in taluni casi a detta realtà certuni si possano avvicinare in una maniera apparentemente contraria agli interessi immediati della carne.
Mi sono soffermato su due capitoli del Libro rosso: il nono e l'undicesimo.
Il mio interesse s'è destato all'incontro di Jung con Izdubar, l'uno diretto verso oriente e l'altro verso occidente; il nome del secondo protagonista è quello con cui gli assiriologi indicavano il personaggio di Gilgamesh quand'ancora non ne era nota la giusta traslitterazione.
Izdubar irrompe come un gigante che brandisce un'ascia bipenne e anela all'immortalità, tratti che di primo acchito me l'hanno fatto associare alla mitologia norrena, però egli cade presto vittima delle parole di Jung che involontariamente lo avvelena col sapere scientifico di cui costui si fa inconsapevole nunzio: da qui l'enantiodromia oscura i cieli e riempie le pagine.
Così prende piede il noto gioco degli opposti, che prima chiamerei "incontro" e poi "accordo" dei contrari se volessi rendere un po' più serio il mio approccio al tema, ma questa volta lascio i riferimenti alchemici a chi vuol credere più del necessario a ciò che scrive o a quello che legge.
La razionalità quasi uccide il dio (in quanto Izdubar lo rappresenta col pensiero orientale), però l'altro vuole salvarne l'esistenza e s'ingegna per farlo. Alla fine Jung riduce Izdubar a una mera fantasia e così può trasportarlo in un uovo (e la semplicità della soluzione a me ricorda proprio l'espressione "uovo di Colombo"). Portato in una casa e fatto oggetto di incantesimi, così sono chiamate nel decimo capitolo quelle che a me sembrano preghiere, l'uovo viene aperto e il dio rivive: mi ha colpito molto l'immagine che Jung ha realizzato per descrivere questo momento.
La rinascita di Izdubar non è letterale e io ne associo il senso lato a quello della morte di dio secondo Nietzsche; nel primo caso si manifesta un rinnovamento di sé stessi, nell'altro invece v'è un preludio al superamento dei vecchi valori (poiché ne viene decreta la fine).
Jung non filosofa con il martello, forse non filosofa affatto, inoltre suppongo che i suoi scopi siano altri, perciò non metto in contrapposizione due pensatori di così diversa natura che io vedo comunque vicini laddove il tempo è quasi un orpello della metafisica.
Oltre alle dotte (in apparenza) elucubrazioni, personalmente non riesco a trasporre nulla di ciò nella mia realtà, perciò ne elogio la forma e ammetto la mia totale incapacità di identificarmici.
Non mi sognerei mai (eh già, il verbo è proprio adatto, e anch'esso lo è, "il verbo", come in una scatola cinese da calembour) di screditare la tecnica dell'immaginazione attiva di cui Jung si è avvalso, ma riconosco come questa non mi appartenga; d'altronde, in modo tutt'altro che ermetico, è egli stesso a mettere in guardia il lettore in un passo del Libro rosso: "Quello che vi do, non è né una dottrina né un insegnamento. E da quale pulpito potrei indottrinarvi? Vi informo della via presa da quest'uomo, della sua via, ma non della vostra. La mia via non è la vostra via, dunque non posso insegnarvi nulla. La via è in voi, ma non in dèi, né in dottrine, né in leggi. In noi è la via, la verità e la vita".
Lo spirito del tempo, lo spirito del profondo
Pubblicato mercoledì 8 Aprile 2015 alle 15:39 da FrancescoAlcune volte accantono dei libri in attesa che il momento opportuno ne propizi la lettura: per me si tratta di uno stratagemma con cui prevengo un approccio meccanico a quei testi che reputo importanti e ai quali riservo un attento esame. Uno degli scritti in questione è Il libro rosso di Carl Gustav Jung: l’ho acquistato in autunno ed è soltanto da una settimana che sono incorso nelle condizioni giuste per addentrarmici con tutto il mio spirito.
Quest’opera mi rispecchia in toto e intuisco con altrettanta pienezza in quale stato d’animo Jung ci si sia dedicato nel corso di decenni. In alcuni tratti riscontro l’influenza di Nietzsche e del suo Zarathustra, soprattutto nei dialoghi visionari che lo svizzero sostiene con la propria anima.
I suoi peripli mi ricordano i miei, perciò quasi mi commuovo a scorgere quant’egli si sia spinto a ridosso della pazzia per superare il cosiddetto spirito del tempo; a tal proposito mi sono rimaste impresse le parole di Schelling che compaiono in una nota del testo, ovvero quelle per cui esiste “una classe di persone che riescono a dominare la follia e che, proprio esercitando questo controllo, mostrano in sommo grado la forza dell’intelletto”.
L’esperienza nel deserto di Jung con la sua anima mi conferma quanto gli archetipi vivano nella mia specie: io stesso sono ricorso a quell’immagine ancor prima di conoscerla nella sua opera e medesime sono state le intenzioni del suo utilizzo. V’è un altro punto che mi ricorda da vicino le mie elucubrazioni e si tratta di un breve passaggio nel quale ritrovo compiuta anzitempo una critica all’accumulo di nozioni che più volte è sorta spontaneamente in me: “Non vi è cultura creata dalla mente che sia sufficiente a trasformare la tua anima in giardino; io avevo curato la mia mente, che era lo spirito di questo tempo in me, ma non lo spirito del profondo che si volge alle cose dell’anima, al mondo dell’anima”.
Jung per affrontare queste scoperte e per sostenerne il rischio fece affidamento sulla famiglia e sul proprio lavoro, tuttavia io non ho la prima e nel mio caso le mansioni del secondo non hanno punti di contatto con questo àmbito. Sono da solo nella traversata del deserto, ma per fortuna posso contare su tante risorse interiori. Qui il linguaggio si fa rarefatto, quasi viene meno al suo compito, perde polisemia e si presta ad accuse di vaghezza: ulteriore riprova di quanto mi trovi distante da chiunque possa essermi affine. Il cammino continua.
Quando andavo a scuola seguivo di rado le lezioni, ne ero incapace, e silenti inquietudini non mi agevolavano, così, ogni tanto, per ingannare il tempo tracciavo sui libri o sui quaderni delle linee e delle curve dalle quali ricavavo degli spazi vuoti che poi riempivo con lo stesso inchiostro. Quell’espediente mi rilassava e le spiegazioni degli insegnanti mi scivolavano addosso come gli eventi scivolano su chi abbia raggiunto un certo grado di coscienza. Solo dopo qualche anno ho associato quegli apparenti scarabocchi a dei simboli vedici, ovvero i mandala.
Circa una settimana fa ho acquistato dei libri che porterò in un lungo viaggio la cui partenza è imminente: testi di cui preferisco possedere un’edizione cartacea quantunque non abbia alcuna intenzione di lasciare a casa il mio Kindle e la sua portentosa comodità. Insomma, durante i miei acquisti mi sono imbattuto in un libro illustrato dei mandala di Kamala Murty che ho apprezzato subito per la sua semplicità. L’intento dell’opera è quello di fornire un’ampia gamma di mandala che rappresenti uno spettro altrettanto esteso di stati d’animo. Jung si occupò di questi e di molti altri simboli, inoltre egli stesso ne esperì gli effetti terapeutici; così quest’oggi ho preso un foglio bianco, ho scelto il mandala più adatto a me e l’ho ricalcato prima di colorarlo con quattro matite: una rossa, una verde, una viola e una blu.
”Incassare le delusioni”, così titola la pagina che introduce il simbolo suddetto. In poche righe è spiegato molto bene ciò che per taluni è impossibile da capire. Mi ha colpito la capacità di sintesi del seguente passaggio: “Mi aspettavo probabilmente decisioni e azioni dall’altra persona che non corrispondevano alla sua natura. Se i miei sogni per nulla realistici vanno a monte, non posso dargliene la colpa, anche se mi sento ingannato e sono infuriato”.
La spirale centrale di questo mandala rappresenta la delusione recente, le spirali più piccole le delusioni che l’hanno preceduta, ma ci sono altre forme che si palesano e queste simboleggiano le speranze. Il testo recita: “Nella misura in cui il mio sguardo diviene più libero, riconosco che la mia vita non è suggellata soltanto da affanno e dolore, ma tra le delusioni-spirali sbocciano delle forme piene di speranza”.
Quando ho ricalcato il primo cerchio ero scettico, quando ho finito di colorare l’ultimo spazio ero calmo, forse sereno. Non so se sia stata l’autosuggestione o cos’altro, però riproverò di sicuro. In questo caso ho usato il verde della speranza e il rosso della passione (inespressa) per le spirali (le delusioni) poiché vanno di pari passo. Il rosso l’ho usato anche in alcune forme che io non considero speranze (come suggerito dal testo) ma sublimazioni (cioè passioni incanalate altrove). Il viola (che non si distingue granché dal blu a cui sono ricorso) rappresenta le forme a cui anch’io attribuisco il valore di speranza: speranze diverse a cui il verde non appartiene più. Il blu indica la dimensione terrestre, il cerchio rosso quello della passione che separa le spirali da ciò che invece compone speranze autentiche, di cui forse non ho neanche contezza, e difatti il cerchio esterno è viola come le forme anzidette.
Sto cominciando ad avvertire la necessità di tornare il più indietro possibile a tutto quanto v’è d’archetipico. Sono alla ricerca di un passato che non si trova sui libri di storia: intanto vivo.
Domani compirò ventinove anni e potrei approfittarne per lanciarmi in un volo pindarico sulla mia vita, però qualcosa è cambiato in me. Si è verificata la catarsi che avevo previsto qualora fossi riuscito a correre per cento chilometri. Non mi rivedo più in alcune cose che ho scritto su queste pagine e ormai mi sento lontanissimo da tante altre che ho letto nel corso di questi ultimi anni. Ho perduto la vena esistenzialistica e anche il gusto per le provocazioni sagaci. È come se lungo la strada avessi sparpagliato migliaia di pagine, milioni di parole: una liberazione. Non so né se né quando ritroverò la necessità o il piacere di scrivere.
Devo ancora dare il primo bacio e la notte continuo ad addormentarmi da solo, però mi risveglio bene perché ho rispolverato degli ottimi motivi per farlo. Mi sono procurato quello che Gurdjieff forse definirebbe shock addizionale e trovo buffo che un individuo come me citi costui. Anche se in maniera figurata, non mi resta che imitare Emilio Salgari, benché io non ne abbia il talento né tanto meno voglia emularne la fine: spezzo la penna. Non è del verbo che ho bisogno, bensì è nell’azione e attraverso il linguaggio del corpo che io posso diventare ciò che sono: Nietzsche (o Zarathustra per lui) e Jung me lo hanno suggerito ben prima che potessi comprenderlo davvero.