Nei saggi di Manlio Sgalambro ho trovato più volte delle caustiche certezze, piccole opere che sono state create per via di levare e ai piedi delle quali ho notato sempre lo stesso materiale di risulta: la consolazione. Pagina sessantatré del “Trattato dell’età” si conclude così: “La specie non è niente, alcuni uomini sono tutto”. Ciò è innegabile. Io stesso sono parte di coloro che fanno soltanto volume e non lo affermo in un accesso di stucchevole modestia, ma è quanto decreta la realtà: il mio pregio tutt’al più è quello di averne contezza.
C’è un altro bel passaggio dieci pagine dopo; l’apertura di una chance in relazione al divenire che ha tutta l’onestà di una visione avulsa da qualsiasi forzatura: “Colui che ha accolto in sé il Tempo (la maiuscola è voluta), pur nello spavento, si sottrae al giochino del ricordo, al balbettio della durata morente che mescola il cammino percorso con la strada smarrita. Concetti, non ricordi sono il suo pane. Questi ultimi provengono dal calore malsano del letto e del dormiveglia. I concetti, invece, dall’esperienza adulta, dai traffici della vita, dall’invecchiamento di cose e fatti, da un’ultima occhiata al cielo”.
Per me è ancora presto per affrontare l’idea d’invecchiare, difatti benché non sia giovanissimo sono ancora giovane, specie in un paese come l’Italia dove, malgrado tutto, l’aspettativa di vita è piuttosto lunga. Qualche volta capita che il mio sguardo noti in lontananza una figura solitaria, fragile, canuta e talora mi sembra che quella visione sia un annuncio del mio futuro.
Ci sono buone probabilità che io passi da solo la mia terza età, proprio come ho trascorso e sto trascorrendo da solo i miei anni migliori, perciò voglio invecchiare bene: anelo a che il mio vivere danzi con il tempo in un armonioso ballo di fine estate. So che posso farcela e mi serve soltanto un altro po’ di tempo per convincermene del tutto. Ovviamente tali parole dànno per scontato che io non muoia prematuramente, ma la realtà quotidiana e qualsiasi tipo di passato ricordano come un simile assunto possa rivelarsi un azzardo. Non demonizzo la società occidentale e vi vedo molto di buono, ma non nego che possa essere più facile affrontare già la sola idea della vecchiaia con un altro retroterra culturale. Nei confini del possibile ed entro i savi paletti della spontaneità, io cerco di trarre dallo scibile umano quanto può facilitarmi l’esistenza nei termini di una sua opportuna interpretazione. Talora non sono le cose in sé a cagionare un peso erculeo ed è invece la loro percezione che può gravare oltremodo l’individuo, perciò tento di non farmi ingannare da questo trucco di cui la mente si rivela al contempo tanto artefice quanto vittima.
Ho visto con i miei occhi e ho percepito con il mio essere, per così dire, persone di una certa età che in ogni movimento, in ogni parola, persino nelle sporadiche distrazioni, dimostravano quella che in certi contesti si chiama “presenza”. Forse per taluni un invecchiamento esemplare è un percorso naturale, mentre altri devono correggersi in corso d’opera per armonizzarsi col reale e, ammesso che tale semplificazione abbia fondamento, non so ancora dire a quale dei due filoni io appartenga: mi auguro soltanto che l’esito sia lo stesso.