Pubblicato sabato 6 Settembre 2014 alle 18:05 da
Francesco
Dopo dieci anni la mia sublimazione è terminata e ora è come se dovessi combattere disarmato. Anche se continuo a correre e ad apprendere, non riesco più a dirottare in queste attività tutte quelle forze che invece esigono uno sbocco nella vita affettiva.
A trent’anni non so ancora cosa siano un bacio, un abbraccio, una scopata, non ho idea di come i sensi esultino nella piena complicità di due corpi. Non so cosa significa primeggiare nei pensieri di qualcuno, non conosco i brividi di un’intesa fisica e platonica. Posso contare su meno di dieci dita le volte in cui ho aperto il cuore, ma ogni volta ho pensato che ne valesse la pena e non me ne sono mai pentito. Potrei trovare dei rapporti carnali o delle amicizie femminili molto profonde senza troppi sforzi, ma mi deprime l’incompletezza che percepisco nei primi come nelle seconde e a questi rapporti imperfetti preferisco la solitudine perché mi nuoce di meno.
Per me è tutto o niente: io non conosco mezze misure ed è anche per questa ragione che ho sempre tagliato i ponti in maniera definitiva quando le cose non sono andate per il verso giusto. Un tempo mi bastava intensificare qualche allenamento o protrarre le mie letture oltre il solito per trovare subito sollievo e per instradarmi verso nuovi orizzonti, ma ora tutto ciò non funziona più e Freud aveva ragione: la sublimazione non può durare per sempre.
Non so dove sbattere la testa e sono in balìa degli eventi. Cerco di pensare il meno possibile e tendo gli addominali quando sento le fitte della frustrazione. Ovviamente questo stato emotivo m’indispone e così, anche se dovesse capitarmi l’occasione di conoscere una ragazza, non sarei in grado di mostrarmi per quello che sono, ma nel migliore dei casi potrei dare solo una pallida imitazione di me stesso. Non ho mai usato droghe, non ho mai fumato, non ho mai pregato, non ho mai assunto psicofarmaci e non ho mai bevuto alcolici, perciò non ho anestetici di alcun tipo ed è solamente la corsa che mi ha permesso di alzare la mia soglia di sopportazione del dolore.
Questa crisi esistenziale non dipende dall’ultimo rifiuto che ho ricevuto, bensì dal modo in cui mi ha indotto a fare un bilancio della mia esistenza e dalla sua concomitanza con la perdita della mia capacità di sublimazione.
Non c’è nessuno che possa aiutarmi perché devo uscirne da solo, ma è come se avessi le mani legate e qualche pensiero oscuro trova uno spazio in me che prima non avrebbe mai reclamato.
Ci sono parole note che mi ripeto : “Per te non sorga il giorno che alla tua gioia sia compenso di dolore […] sii forte e sereno anche nei giorni dell’avverso fato”.
Mi sento lo spettro di me stesso ed è come se non fossi mai esistito. Mi ritrovo ad affrontare ciò che sono riuscito solo a contenere per lungo tempo. Non trovo un appiglio, una direzione, fosse anche quella sbagliata. Ho soltanto la mia lucidità, tuttavia è anche attraverso quest’ultima che provo per intero le sferzate del senso di vuoto. Non mi piace il vittimismo e non voglio essere ingiusto verso me stesso, ma non posso neanche sottovalutare la portata di tutto quello che mi sta succedendo dentro. Ancora una volta Eros e Thanatos lottano instancabilmente.
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Pubblicato domenica 27 Aprile 2014 alle 08:16 da
Francesco
Anni fa sono stato contattato da una ragazza con cui ho poi dialogato per un certo periodo. In seguito, senza mai muovere il primo passo, ho interloquito vìs-à-vìs con altre esponenti del gentil sesso (ebbene sì, a tanto mi sono spinto!), però non ho approfondito nessuna di queste brevi e sporadiche conoscenze: non c’è mai stata insistenza né da parte mia né dall’altra, come in un tacito accordo di reciproco disinteresse. D’altronde le mie intuizioni sono amorevoli sorelle che talvolta assumono l’aspetto spaventevole delle Erinni.
Di S. ricordo una spiccata identificazione con il mondo della cultura, una voce adatta alle ottave basse e un volto asimmetrico, tuttavia questi elementi non rendono giustizia alla sua figura e io me ne frego: il tema è un altro e le auguro invece che la sua avvenenza sia rimasta la stessa. Lentamente, ma con costanza, prese a maturare in me un certo interesse nei suoi confronti, ma già all’inizio profetizzai quali sarebbero state le sorti di quelle nostre conversazioni e forse fu anche per questo che infine si realizzarono nei tempi e nei modi di un’irreversibile indifferenza. Con S. ho sperimentato per l’ultima volta una forma embrionale di desiderio. Vedevo in lei quello che era veramente? E lei, di sé, vedeva le stesse cose? Qual era la discrepanza tra l’immagine che io mi ero fatto di lei, che lei aveva di sé e quella reale? Lo stesso ordine di domande dovrei porlo anche per il sottoscritto, però i punti interrogativi in questo caso sono gli unici punti fermi. In un tentativo di rappresentazione grafica delle dinamiche di cui sopra sarebbe forse uscito un triangolo equilatero? Non oso immaginare quante spade di Damocle pendano su quegli angoli acuti e stretti che indicano una coppia, come nelle relazioni morbose, simbiotiche, ed entrambi a grande equidistanza dal vertice, ovvero da tutto ciò che è reale nell’altro e passa inosservato. Con S. ho commesso degli errori di forma che a distanza di tempo mi hanno fatto comprendere alcune leggi. Il mio sbaglio più grande è stato quello di specificare ogni cosa, di anticiparla e di prevederne i possibili sviluppi, come se avessi voluto rompere una tradizione e dei riti in nome della ragione, ma in questo caso è stata la paura a guidare il mio raziocinio: paradossale, direi. È troppo facile gettarsi in quel vuoto, al quale tante parole ho tributato, con la certezza che il paracadute si apra. Ho rotto la magia che permea i silenzi e che ne precede la rottura, per questo il rito non s’è concluso e l’incanto è svanito prima ancora che potesse mostrarsi in pieno. Posso fingere lungimiranza e introspezione dal momento che effettivamente me ne avvalgo in termini solipsistici, ma è nella subordinazione alla paura che si trova la prova stessa di quanto queste pratiche utili e nobili diventino fandonie nelle questioni di cuore.
Ad esempio, in questo scritto ricorro all’introspezione, ma sono in un ambito autoreferenziale e dunque non sono chiamato ad affrontare le istanze contro cui finora ho dimostrato debolezza. Inoltre ho sbagliato a ritenere che certi comportamenti fossero per forza meccanici: la difficoltà a mio avviso sta nel compiere determinate azioni con la consapevolezza di farlo, così da renderle autentiche, come se l’autore fosse in grado di vedere se stesso invece di agire a testa bassa. Quando S. mi propose di venirmi a trovare io subito frapposi tra me e quell’allettante iniziativa una moltitudine di parole che di fatto negarono l’incontro, perciò disinnescai ogni possibile esito, fosse anche stato un fuoco fatuo o una semplice condivisione di spazio e tempo.
In termini più specifici devo scendere a patti con l’inconscio collettivo. Non posso imporre il mio modus operandi per agire in piena sicurezza, altrimenti la fine sarà sempre la medesima, come nella più classica delle coazioni a ripetere. Ci sono riti a cui non posso sottrarmi qualora voglia davvero attuare un passaggio da me ad un’altra persona, perciò tutto dipende dal sottoscritto e questa consapevolezza mi solleva dall’onere di cercare al di fuori di me l’errore di fondo: non è un vantaggio di poco conto e chissà, forse già di per sé vale una vita intera.
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Pubblicato giovedì 23 Maggio 2013 alle 14:54 da
Francesco
Si avvicina il giorno de Il Passatore, ma vivo questa attesa come il preludio di un cambiamento. Ieri ho corso gli ultimi ventuno chilometri della mia preparazione e stamattina mi sono svegliato bene dopo un’ottima dormita. Non c’è tensione in me. Mi sento leggero e determinato, perciò se dovessi fallire non avrei scuse a cui aggrapparmi. Le previsioni meteorologiche sono infauste e indicano pioggia da Firenze a Faenza per tutta la durata della manifestazione, ma in parte ne sono contento perché se dovessero risultare corrette l’ammanterebbero di ulteriore epicità.
Sfido me stesso perché non mi nascondo nei lambiccamenti sui massimi sistemi, bensì cerco di guadare oltre le tenebre dei miei recessi, laddove l’invito al suicidio non manca mai. È il pericolo dell’introspezione che corro, e per il quale corro. Non c’è “la società”, non c’è “la storia”, non c’è “la politica”, non c’è “la morale”, non c’è “la filosofia”: gli unici presenti sono il sottoscritto e i suoi limiti, senza possibilità di riparo o dissimulazione. Sono i passaggi intimisti di Yukio Mishima che mi corroborano il morale. Per me la corsa è l’humus perfetto in cui prendere il polso della situazione, anche a costo di non sentire più il mio; è il punto ideale (poiché privo di stabilità) nel quale il dinamismo dell’azione porta su di sé la gravità del pensiero e soltanto la mia volontà sceglie se quella zavorra debba schiacciarmi o alleggerirmi. Io cerco un ritorno all’archetipo, ai primordi, quando ancora il linguaggio non aveva sviluppato quello strato di viltà che non di rado compone i filamenti del velo di Maya. Non è attraverso l’uso della parola o il consumo d’arte che io posso diventare ciò che sono, bensì solamente tramite l’azione. Questo appunto è superfluo ed è dettato dall’abitudine a scrivere, ma può aiutarmi ad aumentare la pressione della prova a cui sto per sottopormi. Avrò tempo e modo per riprendere il logos della situazione, però questo sarà sempre il subalterno di quanto ritengo ineffabile.
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Pubblicato martedì 9 Aprile 2013 alle 13:56 da
Francesco
Espando il pensiero per proteggermi dalla pioggia di rane, dalla caduta libera del senno e dalle depressioni collettive. Basta allungare una mano in qualsiasi direzione per cogliere il pomo della discordia, ma io non sono in vena di dissanguarmi e perseguo la meta di una serenità costante. Mi sembra che tutto concorra affinché una scure si abbatta sul presente, perciò mi faccio un po’ più in là e resto defilato nel sole primaverile mentre le ombre altrui si moltiplicano a vicenda per scoraggiarsi con altrettanta reciprocità, in misura sempre maggiore. Esercito l’autodifesa, anche e soprattutto per proteggermi da me stesso, in particolare dai condizionamenti fuorvianti delle mie introiezioni. Non mi sento parte di un disegno più grande, ma neanche una nota a margine. Forse sono quei vuoti ai quali ogni tanto guardo con sospetto che mi riempiono la vita, come se fossero delle zone cuscinetto in grado di salvaguardarmi da quanto in fondo non ho mai smesso di desiderare. Comunque, fino a qui tutto bene. Sto all’erta, però senza farmi venire il torcicollo. Faccio affidamento sulla mia parte migliore e non mi preoccupa l’idea che la mia buona stella sia ormai una nana bianca. Io non sono infatuato del fato: colpe e meriti mi appartengono in pieno. Ho avuto occasioni che non ho saputo sfruttare e ho commesso degli errori evitabili, ma non ne approfitto per edificarci sopra il muro del pianto: ‘sti gran cazzi.
Non sono infallibile e non bramo la considerazione di chi pretende che io lo sia; non sono così ingenuo da credere che esista un rimedio per ogni sbaglio, ma non ho nulla da farmi perdonare. Ora come ora a me interessa soltanto che il sole mi scaldi abbastanza da indurmi a riprendere la confidenza stagionale con le acque salmastre. Tra le mie mani riesce a passare a malapena il mio destino, perciò è inutile che io provi a filarne qualcun altro. Avverto quelle che qualcuno un po’ naif chiamerebbe “buone vibrazioni”, ma per me sono semplicemente sensazioni e intuizioni che turbinano assieme in un periodo un po’ strano, refrattario alle definizioni, insomma, ostile al verbo. Le parole grondano troppa vanità: maledette.
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Pubblicato venerdì 18 Gennaio 2013 alle 13:55 da
Francesco
A me pare che la crescente comprensione dei miei processi interiori mi appaghi in misura assai maggiore delle fantasie che costituiscono gli scheletri dei miei desideri più reconditi. In questo confronto di astrazioni noto un dominio della razionalità che per me non è affatto la traduzione di una resa incondizionata al vuoto della mia sfera emotiva, bensì un’ulteriore esaltazione delle mie potenzialità affettive.
È come se il tempo mi levigasse la personalità. Credo che in parte il mio equilibrio dipenda dalla disponibilità ad ascoltare le mie istanze e dalla capacità di spiegare a me stesso come mai non sono ancora in grado di accoglierle. In tutto ciò noto anche un legame stretto con l’evoluzione della mia idea di morte. Non in qualche trattato fumoso o dalle labbra ormai automatizzate di un decano della psicoanalisi, ma in me stesso ho avuto modo di capire quanto Eros e Thanatos siano legati a doppio filo. È come se in me quell’intuizione di Freud trovasse una sintesi sempre più in debito di tensione, però io non so quanto sia autentica né se abbia un’origine patologica. Considero la mia affettività in continua evoluzione benché non abbia mai avuto concretizzazioni e non mi sento privato di qualcosa. Mi vedo come un individuo in ritardo su una tabella di marcia che potrei forzare solamente se sapessi mentire a me stesso con la sufficiente convinzione o se avessi una lucidità inferiore a quella che invece cerco d’impormi tramite la scarnificazione dell’Io. Non compio sacrifici, ma faccio i miei interessi sebbene all’apparenza le mie azioni (e soprattutto la mia inerzia affettiva) diano l’impressione di un autolesionismo emotivo. Ho un vantaggio che sembra una condanna, ma non me ne preoccupo perché non devo mica venderlo in un bazar.
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Pubblicato domenica 6 Maggio 2012 alle 03:05 da
Francesco
Ho quasi terminato la lettura e lo studio de “La scoperta dell’inconscio”, mille paginette divise in due volumi che illustrano la storia della psichiatria dinamica. Avevo davvero bisogno d’affrontare un’opera del genere per approfondire alcune nozioni e per schematizzarle in ordine cronologico. Negli ultimi capitoli mi sono reso conto di quanto abbiano inciso i vissuti personali degli psichiatri nell’elaborazione dei loro sistemi. Se Freud fosse nato e cresciuto in una famiglia come quella di Adler forse egli non avrebbe mai ideato il complesso di Edipo.
Il mio interesse per la psicologia del profondo non è mai stato accompagnato dalla pretesa di trovare una via maestra che potesse risultare valida per ogni individuo. Poiché la psicoanalisi è nata dall’autoanalisi di Freud e la psicologia analitica di Jung ha tratto molto dalla cosiddetta nekyia del suo creatore, anch’io, nel mio piccolo, per scopi introspettivi ottengo parecchio da un attento esame della mia persona, ma attingo pure e a piene mani da alcuni concetti dei luminari succitati oltreché dall’opera di Heinz Kohut: inoltre, benché io non abbia ancora letto nulla della sua bibliografia, ho tratto degli spunti piuttosto interessanti dagli interventi di Eugenio Borgna. Per conoscere me stesso credo che l’introspezione sia fondamentale, tuttavia non la reputo sufficiente ed è per questa ragione che vedo nelle neuroscienze una risorsa importante al fine di oggettivare alcune risultati del processo di autoanalisi. In questo ambito non riesco proprio a separarmi da un concetto esoterico che non ho mai deriso, ovvero quello del ricordo di sé nella dottrina di Gurdjieff, ma l’atto di essere presenti è altra cosa rispetto all’introspezione e forse ha una valenza noetica in senso aristotelico a differenza della seconda che invece è discorsiva. Quest’epoca offre strumenti potenti per la conoscenza di sé stessi, però in taluni casi possono rivelarsi delle armi a doppio taglio. Il simpatico Nietzsche in “Così parlo Zarathustra” fece quel viaggio interiore di cui più tardi si rese protagonista Jung nella suddetta nekyia, tuttavia il primo impazzì poiché non aveva nulla e nessuno al mondo, il secondo invece ne uscì più forte perché grazie alla famiglia e al lavoro fu in grado di mantenere il contatto con la realtà.
La storia mi conferma qualcosa che in passato ho sottolineato più volte sulla base della mia esperienza personale, ovvero la pericolosità di un’introspezione che si arresti in dei punti critici. Forse la superficialità che spesso viene messa all’indice, in alcuni casi è meno deleteria di una introspezione incompleta: quasi una difesa naturale. Oltre un determinato limite, immagino che lo sforzo per conoscere sé stessi sia irreversibile e io penso di averlo già superato da tempo senza però pentirmene.
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Pubblicato martedì 14 Febbraio 2012 alle 10:31 da
Francesco
Qualche volta fatico a credere alle coincidenze, però finisco sempre per considerarle tali, senza mai ricamarci sopra: non sono bravo nei lavori all’uncinetto. Dopo tanti anni dalle mie parti ha nevicato e io ho interpretato quella roba bianca come manna dal cielo, difatti ne ho approfittato per correrci sopra e l’ho fatto per diciotto chilometri. Le condizioni avverse mi hanno permesso di risvegliare un orgoglio primigenio e mi sono esaltato a solcare la neve come se fossi rimasto l’ultimo uomo sulle calotte polari.
Se non mi fossi confrontato con il freddo e col terreno pesante non avrei potuto trovare altrove un nutrimento altrettanto efficace per la mia autostima in questi tempi di carestia e tribolazione. Forse un giorno per mettermi alla prova mi cimenterò in uno sforzo che mi sarà fatale e allora di me non resterà nulla. Alcune volte ho l’impressione che dietro la mia attività fisica in realtà ci sia l’inseguimento di una morte prematura, la ricerca dell’infarto perfetto, il raggiungimento di una congestione principesca. Forse sono guidato da un desiderio inconscio di autodistruzione che mi spinge a cercare un modo accettabile di crepare dietro apparenze edificanti, salutari e meritorie. Tutto ciò è mera speculazione! Io sono vivo, lucido, giovane e forte. È vero, sono sprovvisto di legami anche se percepisco delle catene, però abito nel mio tempo e non annego nei piagnistei. Ogni tanto ho la sensazione di adorare questa lotta interiore, come se non cercassi davvero la sua fine. A differenza di quanto avviene nel mondo, i conflitti sono stati propedeutici per me, ma neanche Achille fu immerso completamente nello Stige e dunque è normale che io presenti più di un tallone vulnerabile: d’altronde sono figlio di una mortale, mica di una nereide.
Nel giorno degli innamorati rinnovo l’affetto per me stesso e la promessa di proteggermi. Fosse possibile, mi bacerei. Io sarò con me, qualunque cosa accada, nella buona e nella cattiva sorte.
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Pubblicato sabato 20 Agosto 2011 alle 14:47 da
Francesco
A maggio avevo presentato una domanda di assunzione presso un’azienda locale che produce pomodori e se fossi stato scelto avrei lavorato durante il torrido mese d’agosto. Evidentemente non sono stato ritenuto all’altezza di questa mansione, difatti non ho ricevuto alcuna chiamata. Quando ho capito che non mi sarei macchiato le mani di rosso mi sono risolto a convocare una riunione straordinaria con i miei gatti. Nel corso di questo sinodo felino è emersa la necessità di ricavare almeno mille euro per potermi permettere alcune cose, tra cui la possibilità di viaggiare anche l’inverno venturo, senza però aumentare la quota di denaro che io riservo annualmente per siffatte spese. Una trentina di giorni di lavoro mi sarebbero bastati, ma la strada della fatica ormai era preclusa: purtroppo io non dispongo di una laurea in scienze agrarie che mi consenta di ficcare pomodori nei barattoli di latta. Or dunque, dopo un attento esame delle forme di Anita Blond ho provveduto a stendere un piano d’azione che però è stato anticipato dalla stesura di un fazzoletto di carta sulla mia cappella: tra l’altro per l’occasione ho immaginato come sarebbe bello potersi asciugare il cazzo con la Sacra Sindone, ma non voglio divagare.
Qualche giorno prima avevo letto un articolo di psicoanalisi relativo alla ridondanza dei gesti e mi è tornato in mente proprio quando sulla stessa traiettoria transitava il ricordo della recente esperienza alla roulette: i due si sono scontrati! La collisione ha provveduto ad accendermi una lampadina, però invece di “eureka” ho gridato “porco dio!” e mi sono dato una manata sulla mia ampia fronte. Durante le piccole e innocenti giocate alla roulette avevo capito (come ho scritto meno d’un mese fa) che io potevo al massimo compiere vincite a breve termine, ma non sarei mai stato in grado di protrarle. In più mi sono ricordato che nel casinò online c’era un croupier che tendeva a far uscire i numeri principalmente sulla prima e sulla terza dozzina, con rarissime uscite sulla seconda: questo fatto l’ho collegato all’articolo di psicoanalisi su cui fortunatamente i miei occhi s’erano persi. Alla fine sono giunto ad una conclusione eccezionale ancorché sembri scontata, ovvero che partendo da piccole cifre non avrei mai potuto farne di grandi e soltanto movimentando un capitale grande avrei potuto fare piccole vincite: i fatti m’hanno dato ragione. Ho versato 2600€ sul conto di gioco e ho atteso che il croupier di cui sopra si presentasse nella diretta in streaming (difatti e per ovvi motivi il croupier cambia ogni mezz’ora). Il primo giorno con puntate da 100€ ed esponendomi al massimo per 200€ sono riuscito a fare 700€ in sedici minuti e il giorno dopo ho ripetuto quanto ho appena descritto: questa volta nello stesso arco di tempo ho incassato 550€. Ho ritirato tutto per mezzo di Pay Pal e non mi sono fatto dominare dall’avidità. Insomma, alla fine mi sono ritrovato con 1250€ in più. Cazzo, per me è stata come una rapina perché è stato maggiore il tempo impiegato per progettare questo exploit che quello necessario per attuarlo. Le mie puntate si sono limitate alle dozzine (la prima e la terza).
Forse non mi sarebbe mai venuto in mente tutto questo ambaradan se fossi stato assunto per inscatolare pomodori. Comunque la vera vittoria rimane un’altra. Io ho dimostrato un controllo straordinario su me stesso e ho saputo cogliere il momento per andarmene con le vincite. Ho dato prova della capacità di dominarmi, difatti la cupidigia avrebbe potuto plagiarmi se prima non l’avessi starnata viva. Ero quasi certo che ce l’avrei fatta e, se l’unica certezza nella vita non fosse la morte, potrei affermare d’essere stato sempre sicuro della buona riuscita di questo blitz. Ho sfruttato un fattore umano, quasi come un bug in un programma, ma non potrei mai farlo in modo regolare poiché alla fine perderei sicuramente. L’altro aspetto introspettivo di questa faccenda è proprio la consapevolezza di non poterla ripetere, difatti solo gaglioffi e inetti insisterebbero. Io so che potrei vincere ancora qualcosa, anzi ne sono fermamente convinto, ma allo stesso tempo credo che sia meglio non cercare conferme in merito, e, malgrado l’uso del congiuntivo, anche di questo io sono fermamente convinto: un paradosso che mi rende un vincitore sotto l’aspetto monetario e sotto quello introspettivo. A ‘sto giro non mi sono proprio regolato e ho dato ulteriore linfa alla mia autostima che già prima si attestava su buoni livelli. Ho risollevato la mia estate e mi sento un dritto. I miei gatti erano scettici: “Colonnello, nella sua manovra non c’è nulla di razionale!”. Io ho risposto loro: “Sapete perché voi siete gatti e io sono un essere umano? Ebbene, lasciate che ve lo dica. Si tratta della metamorfosi. Voi siete ancorati alla vostra natura limitata mentre a me talora è concesso d’essere un cavallo pazzo”.
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Pubblicato venerdì 20 Maggio 2011 alle 12:49 da
Francesco
Lo scampato investimento di cui mi sono reso involontariamente protagonista mi offre un po’ di materiale per l’esercizio dell’introspezione, ma avrei preferito rompermi una gamba e portare il gesso per un mese piuttosto che disporre di siffatta opportunità.
Sapevo già che mi sarei crocefisso dopo quell’episodio. La donna mi ha rassicurato più volte sul suo stato e il marito ha fatto altrettanto, tuttavia io non sono ancora capace di accettare il fatto che un tale pericolo sia scaturito dalla mia condotta al volante. Tra l’altro, se io fossi stato al posto della donna e se come lei non mi fossi fatto nulla, anch’io avrei tenuto un atteggiamento conciliante. Allora perché fatico a elaborare l’evento? Probabilmente il mio disagio non deriva dal senso civico o quantomeno quest’ultimo non ne è l’unica fonte, bensì provo una sensazione lancinante alla sola idea di danneggiare una persona innocente perché non voglio sentirmi come le persone che detesto.
Se quella donna fosse stata investita mortalmente da un’altra auto, io me ne sarei dispiaciuto? Devo essere sincero con me stesso, perciò mi vedo costretto a dare soltanto una risposta: no. In questo caso la mia empatia è scaturita dal mio coinvolgimento diretto, altrimenti una vicenda analoga non mi avrebbe colpito e lo posso affermare con certezza poiché una volta, anni or sono, vidi un uomo che era stato investito sulle strisce pedonali: era morto sul colpo, ma non provai nulla per quell’anziano riverso a terra senza più vita. Probabilmente razionalizzo in modo eccessivo taluni eventi e ogni tanto rischio d’apparire come una persona fredda che vuole solo stare lontano dai guai.
Insomma, guardandomi dentro io non sono rammaricato per l’evento in sé, bensì per esserne stato la causa scatenante e ammetto che questa verità mi risulta difficile da digerire quanto lo scampato sinistro di cui sopra. È come se mi preoccupassi di non ledere il mio prossimo per non ledere me stesso e in un certo senso questo può riallacciarsi al Codice di Hammurabi (e altrove) quando questi recita di “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”.
Avrò bisogno di un po’ di tempo per interiorizzare quanto mi è successo, liberandomi di tutte le esagerazioni giustizialiste che mi scaglio contro, in modo che alla fine io possa giungere ad una visione più imparziale del fatto. Per tutto il periodo necessario a questo processo interiore non me la passerò bene, ma me la caverò. In momenti come questi sono contento di non avere nessuno accanto, altrimenti rischierei di far gravare su un’altra persona dei pesi che non dovrei farle sostenere per una mia probabile inclinazione protettiva nei suoi confronti.
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Pubblicato lunedì 11 Aprile 2011 alle 15:56 da
Francesco
Domenica ho camminato per ventuno chilometri e per quasi tutto il tragitto ho accompagnato i miei passi alla lettura de “Il Maestro e Margherita”. Sono tornato a casa stremato e non per via della distanza che riesco a coprire agevolmente a corsa con ritmi sostenuti, bensì a causa del digiuno prolungato e involontario che ho protratto per circa ventitré ore. La spossatezza e la vicinanza dello stato ipoglicemico mi hanno chiarito le idee, perciò in futuro, qualora mi trovassi ad affrontare situazioni analoghe, potrei procurarmi deliberatamente lo stato psicofisico in cui sono piombato accidentalmente e per mezzo di questo sciogliere il bandolo della matassa.
Ho commesso un passo falso nell’introiezione di un evento per me assai raro e ancora una volta l’introspezione mi ha aiutato a scoprire lo sbaglio benché in questa occasione le sia servita una spinta notevole. Non escludo che le circostanze nella quali mi sono trovato a cogitare me le sia procurate inconsciamente, come se io avessi sviluppato delle difese immunitarie nel subconscio. In ogni caso ho compreso che posso mantenere ancora a lungo l’equilibrio tra il desiderio e la sua antitesi, perciò non devo preoccuparmi di compiere una scelta al più presto. Ho ingigantito un dolore e l’ombra di un gatto mi ha fatto credere che una tigre si stesse avvicinando verso di me. Ovviamente devo sopportare alcuni strascichi emotivi, però ciò non costituisce un problema. L’inesperienza mi ha tradito, ma l’intelligenza mi ha vendicato. Non sono perfetto, ma non cesso mai di provare a perfezionarmi. Per quanto sia banale e ricorrente, una citazione di Nietzsche risulta sempre veridica, però non voglio riportarla. Sono disposto ad alzare bandiera bianca a patto che al centro di questa campeggi un cerchio rosso, così da ricordarmi l’indole di un popolo con cui sono stato a contatto più volte e che supera ampiamente lo stoicismo.
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