Più volte, in passato, ho avvertito un senso d’impotenza dinanzi a fatti e impegni da cui sono stato investito con particolare intensità, come in una tempesta perfetta, ma da qualche anno a questa parte ho sviluppato la capacità di rallentare, correggere e ordinare quelle percezioni erronee. Anche in ragione di questa miglioria la qualità della mia vita è aumentata, ma oltre a un vantaggio organizzativo e umorale ne ho tratto l’ennesima prova di quanto la cosiddetta realtà, almeno fino a un certo livello, dipenda dai costrutti della mente. Invero tutto ciò può sembrare banale e forse lo è, ma credo che i suoi meccanismi e le sue epifanie sfuggano al controllo più di quanto lascino intendere le facili descrizioni a cui si prestano.
I pensieri hanno un peso specifico e sono soggetti a una forza di gravità superiore a quella terrestre, perciò il loro corretto trattamento deve tenere conto di questa differenza e sulla base della mia esperienza credo che un tale approccio non sia affatto intuitivo. Avverto i benefìci dei molteplici progressi che la mia introspezione mi ha fatto guadagnare a fronte di sforzi equi e sinceri. Non m’illudo che il processo d’individuazione possa farsi entelechia, nell’accezione più profonda del termine, ma tale impedimento immagino che caratterizzi la natura intrinseca del fenomeno e dunque prescinda dall’impegno del soggetto.
Forse la libertà si misura nel grado di controllo della mente e può darsi che questo sia uno dei motivi per cui alcuni individui risultano più liberi di altri benché all’apparenza versino in condizioni precarie. Pare davvero che ogni individuo abbia in sé il proprio carceriere e il suo salvatore, oltre a tutta una serie di personaggi intermedi, ma l’importante gerarchia alla quale mi riferisco non ha nulla di pirandelliano. Per mia fortuna non devo insegnare né spiegare alcunché a nessuno, difatti sono il maestro di me stesso e mi considero un allievo diligente: spero che la realtà, ossia la costante commissione esterna, continui a promuovermi.
Si rinnovano nella mia interiorità le esortazioni a lasciare anzitempo il corpo, eppure queste suadenti offerte non mi convincono affatto e con pari pervicacia continuo a rigettarle. La morte è un’allettante prospettiva, anzi, io la considero proprio un’esigenza metafisica, ma al momento trovo che un’adesione volontaria al suo carattere irreversibile non sia affatto in accordo né con la mia età né con la situazione in cui verso. Tali ragionamenti in me non scaturiscono dalla mestizia o da tumulti emotivi che rispondono ad aggettivi analoghi, ma sono i getti piroclastici di una profonda e prolungata ricerca interiore.
L’introspezione ha un certo margine di errore e soprattutto può esporre a rischi elevati chi la pratichi, nondimeno io non potrei prescindervi neanche se volessi in quanto da tempo immemore mi sono sbarazzato di tutte quelle illusioni che consentano di bloccarne i lavori. Paradossalmente questo periodo di pensieri mortiferi è molto fecondo in quanto mi offre angoli di lettura e prospettive che in altri momenti mi sono preclusi o di cui, tutt’al più, posso azzardare una simulazione. Tali riflessioni si agitano come in un mare di Dirac e condizionano i miei ritmi circadiani, così talora mi trovo a dormire pochissimo per vari giorni di seguito fino a quando non recupero forze e lucidità con una dormita da ore in doppia cifra. Il mio mondo onirico risente di simili oscillazioni e mi offre visioni inedite, intense, angoscianti o di difficile interpretazione, ma comunque ricche di informazioni e di indizi sulle regioni più remote della mia personalità. Non devo morire per mia mano, non ancora, la mia indole non è autodistruttiva, ma seguo la sottile linea che divide l’ultima volontà dalla sua volizione. A mo’ di Ulisse mi lego all’albero maestro per udire richiami pericolosi.
Mi sento sospeso su un’ulteriore fase di transizione, ma non riesco ancora a capire quale piega stiano per prendere gli eventi. Non temo il futuro e me ne curo solo nella misura in cui la mia premura mostri un’attendibile efficacia. Nella mia mente è vietato l’ingresso alle fisime e in effetti almeno a livello conscio non ve ne transita alcuna, però non è sempre stato così e quindi so apprezzare l’attuale ordine in cui versa la suddetta.
Ricordo come anni fa già attraversai alterni periodi di tranquillità interiore e di come essi si rivelarono l’humus ideale su cui mi fu dato di sviluppare vari aspetti della mia persona in una beata solitudine, ma all’epoca tale condizione non ebbe modo di assumere una piena stabilità poiché in quanto individuo non ero risolto in un certo grado e presentavo difetti strutturali: ero ancora un prototipo.
Oggi la mia visione d’insieme è più completa e la mia esistenza ha un baricentro più saldo benché la sua matrice sia strettamente endogena. Spesso mi addormento bene e la mattina scendo dal letto col piede giusto, qualunque esso sia. Ho quasi trentacinque anni, però non so cosa significhi quest’età né cosa comporti: non le appartengo così come il mio nome non appartiene a me.
A volte incontro al mio interno la latente e naturale inclinazione di riscoprirmi nella reciprocità con una ragazza, però mi limito a osservare l’occasionale passaggio di questa istanza e non faccio nulla per darle seguito poiché le premesse sono insufficienti persino per la più innocua delle fantasie. Anche la mia inazione è cambiata col tempo ed è divenuta più autentica sebbene i suoi effetti distanziatori siano gli stessi di sempre, come in una sorta di prossemica relazionale. Avanti, march.
Non ho idea di quali eventi siano in avvicinamento, ma sono pronto a convergere verso quanto di meglio mi si prospetti. L’autunno fatica a prendere posizione e non capisco se il suo ritardo dipenda dall’espansionismo estivo o da un improvviso ritorno delle mezze stagioni, così come auspicano ogni dì turbe ottuagenarie nelle sale d’attesa dei medici di base.
Stamane ho visto l’inizio di un funerale, ma sono più curioso di assistere alla fine della morte. I miei pensieri mi portano laddove neanche un paio di ali funzionanti e abbondantemente piumate potrebbero consentirmi di giungere, però non trovo sempre delle radure dove atterrare per una breve sosta e talvolta le mie evoluzioni metafisiche hanno esiti rovinosi. Per quanto io mi libri in volo, rimango comunque confinato nell’atmosfera controllata dei miei stati di coscienza, ma essi costituiscono una minima parte delle mie possibilità più proprie. Mi godo la libertà di manovra di cui dispongo, tuttavia non m’illudo che costituisca il limite ultimo di quanto esiste. Vorrei conoscere quel linguaggio che si oppone a ogni fraintendimento, involontario o deliberato, ma non so chi lo insegni né se esistano dei corsi serali per assistere a nuove albe. Tendo ad alzare lo sguardo verso i nembi quando pare che siano sul punto d’assoggettare il cielo una volta per tutte, ma non ci vedo mai una macchia di Rorschach e in quest’ultima mai scorgo i primi. Cerco di non confondere le apparenze e non mi preoccupo che esse lo facciano tra di loro.
Vanto una bella distanza da qualunque richiamo della foresta e non corro neanche il rischio di sentire le sirene sugli scogli, ma non ho un biglietto per Itaca e anche se ne vincessi uno non lo userei: il mio viaggio di ritorno segue rotte cosmiche. Ogni tanto avverto una nostalgia di cui non colgo neanche i contorni e dunque non so da cosa dipenda, però ci riconosco una lontananza nel tempo e nello spazio che non sono in grado di ricondurre a un distacco esperito per davvero: v’è molto che non conosco di me, qualunque cosa io sia.
A volte sono attraversato da una forza di cui non conosco né l’entità né la provenienza, come se fossi investito da un fulmine che trasforma la notte in giorno e squarcia il cielo prima di schiantare al suolo la sua elettrica possanza.
Faccio il possibile per sviluppare e mantenere attorno a me una carica che respinga tutto quanto non mi appartenga, ma sia al contempo capace d’assimilare ciò che di positivo e negativo risulti conforme alla mia natura. Conosco il carattere ondulatorio degli eventi, la loro perenne alternanza tra vette serafiche e abissi strazianti, ma io non faccio parte del corpo di ballo che va a tempo di un ritmo così lunatico e bipolare. Voglio essere un degno parigrado della mia parte più autentica, riconoscere la sua egemonia in ogni minimo atto e pensiero, così che mi sia dato di trascendere lo stato attuale invece di rimanerci da trascurabile osservatore di cose lontane. Mi domando se concetti quali inizio e fine abbiano davvero asilo nel cosmo o non siano invece dei difetti logici di prima necessità per una specie ancora sottosviluppata, primitiva. Dove finisce quello che non mi tange e subisce deviazioni? Ciò su cui solamente il calcolo probabilistico si può esprimere, nel pieno rispetto della tradizione quantica? Mi allarmano le certezze che non credono in loro stesse e di conseguenza rifuggo dalla loro cattiva compagnia.
Scrivo nel pieno possesso delle mie facoltà, ma nella totale assenza di ragioni valide. La mia interlocuzione è una strada interrotta da lavori che non sono affatto in corso, perciò non mi resta che mandare segnali nello spazio profondo per chiedere ragguagli sull’esistenza o per un breve saluto tra figli di galassie gemelle. Non riesco a capire se la ristrettezza terrestre sia figlia di mancanze ordinarie o scaturisca da aneliti che le prime hanno il pregio di porre sotto la giusta luce. Non può essere messo ai voti quanto di assiomatico superi in esattezza finanche l’aggettivo che pretenda vanamente di definirlo, ergo non vi è nulla da deliberare in pompa magna.
Quando le nubi si addensano e tutto resta com’è
Pubblicato venerdì 20 Maggio 2016 alle 00:43 da FrancescoSono trascorsi più di dieci anni da quando vaticinavo al mio avvenire una decade d'isolamento emotivo, perciò le mie previsioni si sono rivelate giuste oltre ogni più rosea o tetra aspettativa. Talora ho udito il lontano richiamo di qualche sirena, tuttavia non mi sono mai infranto su una scogliera né su un seno e di quelle voci sibilline non mi è rimasta neanche un'allucinazione.
Ho vissuto da solo i momenti più intensi ed estatici della mia giovane esistenza, ma più volte mi sono ritrovato a domandarmi se una tale condizione sia stata davvero un privilegio e ogni volta qualcosa d'ineffabile mi ha risposto di sì.
Ho cercato dentro di me ciò che non sono mai riuscito a trovare fuori di me e, anche grazie alla proverbiale benevolenza della fortuna verso gli audaci, mi sono imbattuto in un fuoco interiore che sporadiche folate hanno affievolito solo in quei momenti bui di cui il dualismo stesso è fatto.
In alcune zone di questo pianeta la vita vale poco e anche lontano da quegli inferni terrestri le sue quotazioni non sono certo alle stelle, perciò sono contento che il mio unico bacio sia stato quello della summenzionata fortuna. Ho assistito alla caduta di parecchi individui e il fiume non sembra ancora pago di cadaveri; poco importa che certi morti sembrino ancora vivi.
Io penso a me stesso senza nuocere agli altri e sto riguadagnando il dovuto distacco da certe pretese del cuore per le quali evidentemente non ho ancora le spalle abbastanza larghe, però tutto questo non mi suona nuovo e quindi non mi resta che migliorare l'esecuzione di un vecchio spartito. Non voglio imparare niente da nessuno e non mi faccio un bagno di umiltà, ma intendo sporcarmi le mani per risvegliare le forze che in me sono sopite e della cui presenza non potrei dubitare neanche se lo volessi. Le mie parole sono autoreferenziali, ma d'altronde io esisto (per così dire, o qualsiasi cosa voglia dire) soltanto in relazione a me, perciò non spetta loro l'onere di alcuna spiegazione di cui non siano già munite: ecco le comodità del solipsismo.
Il dovuto distacco che precede un opportuno ritorno
Pubblicato martedì 1 Dicembre 2015 alle 02:07 da FrancescoNelle ultime due settimane non ho avuto molto tempo per scrivere su queste pagine, ma anche se mi fossi ritrovato nelle condizioni di dedicarmici le avrei comunque lasciate spoglie.
Sto attraversando un periodo di forti letture in cui mi alterno tra un manuale di neuroscienze e la Guida alla lettura del Libro rosso di Jung (l’opera originale l’ho già affrontata); quest’ultimo è un testo che ho cominciato a studiare appena ho finito i quattro volumi di Jung dedicati a Così parlò Zarathustra di Nietzsche. Non mi crogiolo in un becero intellettualismo, bensì mi avvalgo di simili strumenti per perorare la causa del processo d’individuazione e dunque non considero uno scopo nobile il mero accumulo di nozioni.
Per sette mesi non ho corso e solo da sessanta giorni ho ripreso ad allenarmi, di conseguenza anche questo impegno fagocita il mio tempo libero, ma sono certo che prima o poi tornerò a ripartire le sabbie delle mie clessidre in modo diverso. Mi appresto a vivere la mia terza vita da maratoneta, spero la migliore, e sento in me un rinnovato entusiasmo. Sono l’allenatore di me stesso, il mio migliore amico, il mio maestro e voglio tornare a gareggiare per il gusto di farlo.
Oltre allo sport, agli studi personali e all’introspezione sto cercando di diventare un chitarrista decente e anche se questa strada per me è in salita non posso negare che mi piacciano le sue pendenze. Insomma, io mi sento ancora centrato sulla mia via e concentrato su attività che mi arricchiscono interiormente. Per quanto possibile cerco di mantenere pensiero e azione nel migliore degli equilibri. Mi trovo su un piano emotivo di particolare intensità, ma non domando rassicurazioni né pretendo vaticini infallibili.
Avverto dentro di me il risveglio di forze che sono rimaste sopite a lungo. Riesco ancora a trarre molto dalla mia esistenza, forse più di quanto abbia fatto in passato e sono pervaso da piaceri a volte semplici, altre complessi, i quali non mi dominano né tanto meno io domino loro: in altre parole si tratta di piaceri autentici a prescindere dal loro grado di enigmaticità.
La spinta e il dinamismo di cui mi sento destinatario e ingranaggio hanno nel mio immaginario un non meglio definito legame col futurismo, perciò in calce a questo appunto di vaghezze e di personalismi inserisco il manifesto di Filippo Tommaso Marinetti magistralmente (un avverbio da poco in questo caso) letto da Carmelo Bene.
I miei riti di passaggio: parte uno
Pubblicato mercoledì 9 Settembre 2015 alle 03:47 da FrancescoEventi inaspettati mi hanno fatto ricadere in turbini di amarezze e una luce lontana s’è eclissata ancor prima che potesse abbagliarmi. Devo affrontare tutto da solo perché al mio fianco non c’è nessuno, ma sono pronto a diventare centuria. Le parole saranno mie testimoni e compagne: io continuerò a scriverne fino all’ultimo giorno di questa odissea.
Attorno a me c’è odore di terra bruciata e nei dintorni vedo soltanto fuochi fatui, come funeree premonizioni che voglio sconfessare con il coraggio che mi resta e con gli entusiasmi che ancora devo raccogliere dai giorni più fruttiferi. Intanto sento il vuoto che si agita dentro di me, bestia acefala che sa comunque mostrare le fauci; questa fiera vuole divorarmi dall’interno, ma fiera è anche la mia indole. Ci sono notti in cui rischio di soccombere perché le spire di quell’essere mi avviluppano in strette mortali e se ancora riesco a liberarmene lo devo solamente ad una forza interiore che forse mi porto in dote da un’altra vita: non me la spiego in nessun’altra maniera. Shiva danza, così crea e distrugge, io invece lotto in un’arena dove le folle hanno occhi che non vedono, ma da quegli stessi spalti, e per la cecità degli astanti, dita accusatrici si tendono verso chi non vi si mescola. Tutto è dentro di me: il creato, che io creo, e la creazione, di cui sono reo. Mio è anche il nemico e la chiamata alle armi per scacciarlo dalle porte che costui minaccia.
Le trombe dei cherubini intonano un imperativo categorico che intima di vivere e quella melodia risuona piacevolmente tra le pareti del mio cerebro nonostante io sia un senzadio. È da quando sono nato che sono lontano dalle mie origini o forse da ancor prima, ma cerco di vivere questo esilio di carne come meglio posso e non ho intenzione di cadere per mia mano.
I tempi non sono ancora maturi perché io colga ciò che è nato con me, ovvero giorni di miele e pelle di pesca, perciò devo difenderne le radici, i rami e le alte fronde oppure tornare alla terra nell’ultimo degli autunni. Scrivo da insonne, con palpitazioni regolari, nell’apparente calma che avvolge l’oscurità o di cui forse quest’ultima si ricopre di sua sponte. Quanto manca ancora al prossimo caravanserraglio? Sento la nostalgia infinita di ciò che ero prima di nascere o forse mi lascio semplicemente confondere da una suggestione che ho còlto chissà dove, chissà quando. Mi faccio scudo con la lucidità e sferzo tutti i colpi che posso verso quella forza contraria che mi vuole estraneo da me. Mi sento come San Giorgio alle prese con il drago, però io non difendo la figlia di un re perché non conosco né nobili né donne: difendo me stesso, almeno per adesso.
San Giorgio e il drago di Vittore Carpaccio, 1502
Talvolta l’introspezione è considerata un segno di debolezza, come se certe cose dovessero restare taciute, prigioniere di una pudica reticenza o dei propri imbarazzi, ma secondo me tale pratica richiede una forte autodisciplina e non credo che sia alla portata di tutti.
In più occasioni ho notato come l’analisi di sé stessi ricordi a certuni uno di quei libri che alcune scuole superiori hanno la colpa (o il merito, chissà) d’inglobare nei loro programmi: mi riferisco in particolare a “La coscienza di Zeno”. Ho riscontrato quest’associazione d’idee in soggetti con un certo grado di scolarizzazione, a riprova di quanto cultura e intelligenza siano differenti, con la prima sempre subalterna della seconda: forse l’accumulo di nozioni può servire in un quiz, nella seduzione intellettuale o in attività forensi; meno in altri campi, secondo me più importanti.
Quei lettori di Svevo equiparano l’analisi alla natura del soggetto analizzato, perciò ai loro occhi l’inettitudine di Cosini qualifica inetta l’introspezione in quanto tale. Ogni tanto anche Goethe è scomodato per paragoni tanto incauti, quindi “I dolori del giovane Werther” risulta l’opzione un po’ più sofisticata per il medesimo errore di valutazione. Per me non esiste visione più ristretta di quella che s’illude di poggiare su una presunta erudizione e un’apparente elasticità mentale. Io stesso sono un candidato perfetto per cadere in uno sbaglio del genere, ma non in questo ambito. Porsi certe domande e mettersi in discussione da soli è tutt’altro che piacevole, perciò denigrare quanto induce a farlo è un escamotage per sottrarvicisi con meno resistenze.
A me non fotte un cazzo dell’introspezione altrui, ma non voglio sforzarmi di trovare dei punti di contatto (dunque non escludo che possano comunque esserci) con chi sia cristallizzato in certi preconcetti. In me coesiste una parte estroversa che non ha ancora trovato terreno fertile in chicchessia, ma non considero l’assenza di rapporti stretti un vanto né un’ignominia.
Mi trovo in uno stato d’inquieta esuberanza, come se dopo un lungo sonno la mia introspezione avesse ripreso la sua attività vulcanica. Respiro l’aria di rivelazioni incombenti e sono pervaso da una sorta di spirito pionieristico. Ancora una volta mi ritrovo a tu per tu con me stesso.
Non ho paura di guardare in profondità, ma forse la mia audacia scaturisce dalla mancanza di qualsiasi alternativa. Avverto prossima la fine di un’epoca e intravedo altrettanto imminente un collasso di certezze, ma sussiste una netta differenza tra un disastro imprevedibile e un crollo controllato: mi riferisco al mio mondo interiore. Riesco a vedere con maggiore chiarezza dentro di me in quanto sono sempre più slegato dai miei aneliti, come se fossero in via d’estinzione o si stessero riducendo a delle semplici leggende, ma non escludo che le catene possano stringersi all’improvviso o spezzarsi definitivamente. Sono in preda ad un’estrema lucidità e mi avvalgo di quest’espressione per indicare che anche lo stato di coscienza più vigile è sempre sottoposto a qualcos’altro. Intendo esplorare nuove regioni del mio inconscio senza troppe precauzioni, ma questa volta vorrei che i miei voli radenti fossero onirici. In altre parole non mi preme poi tanto allargare i confini della mia coscienza, ma procedere a quest’espansione con modalità per me inedite. Sono quasi pronto per mettere in pratica certe nozioni che ho appreso e lo sono anche per abbandonarle all’uopo. Insisto ancora nel perseguimento dei sogni lucidi sebbene i ripetuti fallimenti mi abbiano fatto comprendere la mia scarsa predisposizione: comunque non desisto.