Quando le giornate si allungano mi sembra che la vita faccia altrettanto. Nell’aria vibra qualcosa che contraddice il mondo stesso in maniera positiva e io sono contento di riuscire a cogliere queste sfumature d’opposto tenore. Mi piacciono gli ampi spazi nei quali si espande la mia esistenza giacché al momento vi mancano degli ostacoli significativi. Non serbo in me ragioni particolari per giubilare, ma sono pervaso da una serenità nient’affatto inedita che già in passato, più volte, ha dato un’impronta precisa ad alcuni periodi del mio vivere terreno.
Avrei tutte le ragioni di considerarmi un povero stronzo se non sapessi apprezzare frangenti come l’attuale. Non so se quanti si accontentino poi finiscano davvero per godere e in tutta onestà non ho ben chiaro cosa significhi quel vecchio adagio, ma con i miei moti interiori io mi oriento soppesandone la spontaneità, come se talora fossero forze a me estranee e di cui mi sia dato tutt’al più di farne misurazioni in termini d’autenticità. Non posso controllare i venti, però ho modo di stabilire la velocità media a cui spirano. Posso fare previsioni senza pretendere che si avverino, scomodando calcoli stocastici da cui posso trarre in primis come unica certezza la loro incertezza. Non cerco una ragione in ogni cosa perché il logos non può abbracciare tutta la realtà, perciò ammetto che la serenità possa sussistere senza troppe spiegazioni, inoltre è l’esperienza pregressa a confermarmi quanto ho appena scritto. Se proprio volessi analizzare la questione dovrei operare come nella teologia apofatica, ossia asserendo quanto il mio stato d’animo non sia: sarebbe un interessante modo di procedere se m’interessasse farlo.
Da lungo tempo è giunto il momento di appiedare le didascalie, ma talora mi trovo a condurle sulle parole che prendo in prestito dalla mia lingua madre: scrivere è un atto di successione e parlarsi addosso è un modo come un altro per prendere le distanze, qualunque esse siano.
Comprendermi mi preme più che farmi comprendere a meno che non debba farmi comprendere da me stesso. Il monologo è il dialogo capitale, intendendo con ciò quello tra le varie istanze dell’individuo: non vedo altri soggetti oltre il soggetto medesimo. La forza dell’abitudine rende tutto a misura della misura scelta più o meno consciamente.
Secondo me il fascino della connessione con altre entità risiede proprio nella sua incompiutezza annunciata, nella ricercata lucidità che tutto abbaglia. Sono presente a tempo determinato e mi muovo nel recinto delle mie rappresentazioni, però queste non sono i limiti ultimi della realtà propriamente detta: è scontato, è banale e proprio per questo si tratta di una verità subdola, capace di sottrarsi all’attenzione in ragione della sua ovvietà.
Si può discettare su ogni tema, tanto è remoto il pericolo che le parole muovano qualcosa oltre all’immaginazione, ma già se questo fosse il caso non sarebbe poco. A me resta quanto ho seminato e basta per me solo, tuttavia se avanzasse qualcosa lo tirerei fuori l’indomani o nella prossima vita. Sarebbe bello se qualcosa fosse diverso e lo sarebbe altrettanto se qualcosa di già diverso lo fosse di nuovo in rispetto a se stesso: c’è il ghiribizzo del cambiamento.
È un caldo afoso quello che avvolge la sera dalla quale scrivo e nulla sembra poterne ridurre l’impatto in tempo utile per gridare al miracolo climatico. Già che mi trovo al mondo ne approfitto per scrivere qualcosa sebbene io stesso non abbia un’idea precisa da mettere nero su bianco. Se mai avessi avuto delle vere aspettative adesso mi ritroverei nell’età giusta per cominciare ad ammirarne il tramonto, ma non ho nulla né nessuno da utilizzare come feticcio per una nostalgia transitoria. La vita passa e manco la saluto, tuttavia spero che la mia disattenzione non venga intesa come uno sgarbo. Non ho in sospeso debiti di riconoscenza e nessuno né ha nei miei confronti. Le cose da fare potrebbero essere molteplici se solo fossi disposto a raggiungere un livello di stress sufficiente che finisse per farmele disprezzare. Evito per quanto mi sia possibile ogni genere d’impegno che implichi il confronto con la volontà altrui: mi basto per abitudine, per cause di forza maggiore, per comodità e per pigrizia.
Non mi è nota l’ora della mia morte, o perlomeno non mi è stata comunicata né per posta né in sogno, di conseguenza non so quanto mi resti da vivere e non me la sento di azzardare calcoli, inoltre non tiro a indovinare né sotto l’incrocio dei pali, bensì campo per i fatti miei e mi vedo autoreferenziale fino al termine delle trasmissioni sinaptiche. Manca sempre qualcosa anche quando tale impressione risulti assente dalle percezioni, ma poco importa e nulla cambia: per me è fondamentale che io riesca ad accordarmi con il luogo e le circostanze di mia pertinenza. Tutto il resto va da sé, al di là che qualcuno se ne avveda o meno, oltre la testimonianza di ogni coscienza: è così da miliardi di anni e lo sarà per le scomparse venture nei silenzi dei mondi.
Il lutto di Antonio Onofri e Cecilia La Rosa
Pubblicato sabato 2 Luglio 2022 alle 17:33 da FrancescoLa mia lettura più recente è stata quella de “Il lutto”, un saggio a quattro mani scritto da Antonio Onofri e Cecilia La Rosa che si occupa dell’argomento da una prospettiva EMDR (eye movement desensitization and reprocessing), ma il mio interesse non si è rivolto tanto a questo approccio terapeutico quanto all’analisi del fenomeno e quindi ai suoi caratteri più generali rispetto alla specificità di qualsiasi trattamento.
Per me approfondire il lutto è un espediente con cui esaminare a ritroso la composizione del desiderio e dell’attaccamento, qualcosa di simile a ciò che in informatica si chiama reverse engineering, ma almeno nelle mie intenzioni lo scopo precipuo è quello di mediare la questione attraverso una sorta di decostruzionismo alla Deridda.
A mio parere tramite la comprensione dell’assenza si possono ricavare le ragioni di una presenza compiuta o auspicata e dalla loro correlazione è poi possibile risalire alla meccanicità del tutto, incluso il ventaglio di gioie e afflizioni che a mo’ di tachimetro emotivo indica quelle espressioni artistiche che siano improntate a un’inconsapevole automazione, come se il libero arbitrio fosse un prodotto di fabbrica, frutto di un’alienazione di marxiana memoria.
Ecco dunque che tra le pagine de “Il lutto” concetti quali quello di catessi, la subdola funzione dell’autorimprovero, il riordino del sé dopo l’evento traumatico, i correlati fisiologici di processi interiori e molto altro di analogo permettono di circoscrivere il campo d’indagine mentre al contempo ne stabiliscono i canoni: la sterminata (in molteplici accezioni) realtà diviene così più a misura d’uomo. In ultima analisi mi sono servito di questo testo per un fine diverso da quello che immagino fosse nelle intenzioni degli autori, nondimeno ne ho apprezzato l’utilità.
I meccanismi di difesa di Robert B. White e Robert M. Gilliland
Pubblicato giovedì 17 Febbraio 2022 alle 22:45 da FrancescoHo colto la lettura de “I meccanismi di difesa”, scritto a quattro mani da White e Gilliland, come un’occasione per passare in rassegna e approfondire dei concetti di cui ero già edotto, non ultimo quello di “permanenza oggettuale”, ovvero la capacità della quale i bambini sono sprovvisti fino ai diciotto mesi e la cui mancanza induce essi ad attribuire un’esistenza solo a quanto rientri nel loro campo visivo. Un altro punto capitale in apertura del testo riguarda la distinzione tra paura e angoscia con le loro differenti implicazioni, laddove la prima riguardi un pericolo concreto mentre la seconda abbia ragioni indefinite e una natura endogena.
Dopo queste e altre premesse nelle pagine si susseguono disamine ed esempi per tredici meccanismi di difesa di cui la rimozione figura come quello principale, difatti opera per escludere dalla coscienza un impulso insopportabile e il suo relativo ricordo, ma il materiale escluso (e anche questa nozione compone la parte introduttiva del libro) non ne decreta né ne riduce la portata, bensì lo tiene sotto custodia come se fosse un carcerato; a corredo di ciò aggiungo una celebre citazione di Freud che secondo me in una certa misura rimarca il concetto: “Le emozioni inespresse non moriranno mai. Sono sepolte vive e usciranno più avanti in un modo peggiore”.
Oltre alla rimozione le forme di difesa sono la conversione, l’inibizione, lo spostamento, il diniego, la razionalizzazione, la formazione reattiva, l’annullamento, l’isolamento dell’affetto, la regressione, la proiezione, il rivolgimento contro il Sé e la dissociazione: di queste tredici ve ne sono due (razionalizzazione e diniego) che fanno parte anche delle cosiddette cinque fasi del lutto, ma si tratta di una mia libera associazione più o meno corretta di cui il testo non fa menzione. Non è un volume corposo, consta di appena duecento pagine, ma tanto denso quanto utile per chi sia digiuno di tali nozioni e voglia meglio comprendere sé e gli umanoidi.
Non riesco a spiegarmi da cosa dipenda, ma in me sta cominciando a maturare un insolito ottimismo verso l’avvenire e non sono certo che io ne apprezzi il retrogusto. Non mi riferisco alle fragili fogge delle speranze né a quelle altrettanto precarie e indefinite degli auspici, ma questa mia sensazione verte su prodromi particolari e concreti. Sono abituato a considerare sempre come più probabile l’ipotesi peggiore e non mi creo mai grosse aspettative, perciò mi trovo un po’ spiazzato al cospetto della crescente fiducia verso il futuro. Per precauzione non intendo dare troppo credito a tale moto interiore, inoltre non ricerco una positività che io non senta davvero mia e neanche ho bisogno di incoraggiamenti.
Non di rado gli esseri umani si fanno dominare da astrazioni del tutto slegate dai fatti e poco importa quale sia la loro polarità, difatti un entusiasmo ingiustificato può essere disastroso o fatale quanto un timore parossistico. Io cerco di passare in mezzo a quelle fluttuazioni che talora mi pervadono, anche quando comincino ad assumere sembianze verosimili in un senso o in quello opposto. La lettura della realtà è difficile e si presta a tanti errori di valutazione, ma un po’ di esperienza mi suggerisce che quasi ogni segnale forte vada ridimensionato affinché mi sia dato di ricavare un’idea più chiara della sua vera portata. È come se al momento della loro ricezione certi impulsi venissero amplificati oltremodo e il loro contenuto fosse alterato dalla forma distorta che ne fa da veicolo: l’applicazione di filtri si rende indispensabile.
L’introspezione non cessa mai di rinnovarsi e non presenta aspetti scontati per quanto banale possa sembrarne il loro esame, ma d’altro canto non esiste un protocollo perfetto e io per fortuna devo occuparmi soltanto di quello che risulti efficace per me. Insomma, lascio che passino queste ventate di ottimismo e non le sfrutto neppure per il volo dei miei aquiloni.
I tempi si fanno sempre più incerti, ma io trovo rifugio dentro di me e cerco di concentrarmi sugli aspetti dell’esistenza che rispondono subito alle mie azioni deliberate. Non posso evitare il confronto con quelle condizioni su cui non ho potere decisionale né modo d’incidere, tuttavia mi è permesso eluderle il più possibile e posso reagirvi nella maniera che io reputi migliore. È poco, ma non è nulla e soprattutto può diventare molto. Non è colpa mia se le scelte importanti sono delegate a degli idioti impreparati che rasentano la perfezione nella palese inettitudine di cui sono gelosi custodi, ma posso sfruttare una simile circostanza come banco di prova da cui trarre spunto e dimostrazione per essere all’altezza di altre situazioni: nulla va perso.
Sono il mio alleato migliore, di certo l’unico, ma d’altro canto non può che essere così. Quando una parte di me si allontana dal mio centro un’altra corre in suo soccorso e la richiama a quell’ordine di cui riconosco l’importanza. Non mi cerco fuori né m’illudo che le mie componenti formino sempre una salda unità. Sono l’opera incompiuta di un divenire privo di scopo, ma tutto ciò non significa che debba tenere il broncio davanti alla mia finitudine. È sempre la questione introspettiva che non smette di appassionare né di appassionarsi, nient’altro.
Penso che la decostruzione sia il modo migliore per edificare rovine sostenibili e quindi me ne avvalgo per quanto è nelle mie capacità. La continua scoperta di me stesso è il leit motiv che si manifesta salvifico quando altre sublimazioni siano costrette a una battuta d’arresto definitiva o passeggera, calcolata o improvvisa: in ogni caso si tratta di un processo perpetuo e secondo me questo suo tratto più di altri ne svela l’importanza. Non ho appigli dialogici né voci risonanti a cui dare credito. Non ho tele organiche su cui proiettarmi o dalle quali ricevere proiezioni, o almeno non a un livello che faccia qualche differenza su un piano qualsiasi. Non subordino la ricerca alla consolazione perché anche se volessi tentare questo espediente non saprei trarne il mendace vantaggio: la lucidità è già sopra il livello di guardia.
Talora le parole giuste cadono dal cielo o precipitano dalle bocche nei momenti sbagliati, perciò ogni loro beneficio viene nullificato dal pessimo tempismo. Non so quali formule pronunciare davanti agli eventuali entusiasmi di una nuova conoscenza e suppongo che questa mia incapacità derivi da una crescente noncuranza verso ogni possibile reciprocità, ma preferisco attribuirla a un amor proprio fattosi ipertrofico per ragioni di sussistenza interiore.
In trentasette anni non ho mai esperito relazioni sentimentali né carnali, però ho avuto delle sporadiche infatuazioni platoniche con pochissime temerarie che si sono concluse sempre con un distacco vicendevole e definitivo. A me piace pensare che qualche rara volta le persone si allontanino così tanto solo per ritrovarsi all’altro capo del mondo, ma io non mi ci vedo in un rendez-vous di questo tipo. Forse l’età fa scemare certi bisogni, specialmente se essi siano rimasti inespressi e inappagati proprio quando potevano affermarsi all’acme della loro intensità. Non riesco davvero a rendermi conto se in me alberghi ancora qualche necessità affettiva e, qualora davvero ve ne si annidino, quale sia la loro entità. Non sono neanche in grado d’immaginarmi al di fuori di quel numero che precede tutti i numeri primi benché esso stesso non lo sia e mi doni alla grande: è l’abito buono per… tutta l’esistenza.
Dagli albori a oggi la mia individualità ha compiuto passi da gigante, ma forse questi non sono così ampi da consentirmi di farne qualcuno indietro. Mi sento quasi in debito con la specie per il mio (in)giustificato assenteismo.
Non ho un’indole autodistruttiva e la mia funzione di adattamento negli ultimi tre lustri ha dato il meglio di sé, ma il rovescio della medaglia si trova nella lontananza e nel disinteresse da ogni altro universo che proprio qui dibatto tra me e me stesso: mi avvince più la questione in quanto tale che il suo oggetto di domanda. Può darsi che ulteriori introspezioni di cui l’avvenire è puntuale latore finiscano per darmi ulteriori spunti, ma al momento non ne scorgo e quindi non ho altro da aggiungere né qualcosa da rimuovere.
Così è se mi pare.
Le incessanti e multiformi sciagure umane offrono occasioni innumeri per indossare i panni altrui, ma quanto può durare l’identificazione in una tragedia che non sia privata? Ogni giorno l’umanità si macchia di ingiustizie sempre nuove e fa crescere con cura quelle ormai radicate, ma anche i più volenterosi alfieri dell’empatia in quale misura riescono davvero a identificarcisi? Forse la psiche umana possiede un meccanismo di difesa che le impedisce di fare propria la sofferenza di qualcun altro quando l’assimilazione di quest’ultima, oltre un determinato grado, risulti troppo nociva per chi se ne faccia carico? Mi pare che spesso le parole si dimostrino la massima espressione di vicinanza ai drammi di terzi, ma talora lo sono in quanto nulla di diverso risulta possibile e altre volte, invece, lo diventano in ragione di una fervente ipocrisia.
Non azzardo un’improbabile disamina dal tono vago e generale, bensì accenno l’analisi della questione sulla base della mia esperienza ed entro quest’ultima la circoscrivo. Seguo con una certa assiduità le notizie di geopolitica e dunque sono avvezzo alle storture delle società umane, ma non riesco a esperire una vera e propria partecipazione emotiva ai fatti di cui leggo. Anche i filmati più cruenti non destano in me intensi moti d’empatia benché talora veda apparire nella mia mente uno spontaneo senso di pietà. Non avverto il dolore altrui come se fosse il mio e mentirei se sostenessi il contrario, difatti quest’ultimo non attecchisce sulla mia interiorità, non vi lascia segni e tutt’al più può ingenerare una fugace impressione dovuta spesso più alla forma che alla sostanza.
Posso trovare aberranti le morti legate alla contesa di un lembo di terra come il Nagorno Karabakh, posso definire atroce l’ennesimo massacro di civili in una provincia irachena, posso considerare inumani gli efferati omicidi e le torture di cui i cartelli messicani si rendono protagonisti, ma alla fine tutte queste legittime opinioni a me sembrano soltanto un espediente autoreferenziale per alleggerire la coscienza da altre sue beghe. I pensieri hanno di sicuro un loro peso, ma in questo ambito credo che siano del tutto inutili quando il loro sviluppo si arresti a una forma scritta, mentale o verbale, quando insomma non concorrano a qualsiasi titolo per ispirare un intervento concreto. Provo a distinguermi da certi soggetti già nel momento in cui soppeso la questione, ma finirei per omologarmi alle loro edificanti illusioni se pensassi di esserne estraneo solo per la formulazione di interrogativi siffatti.
Di certo animato da buone intenzioni e da un’ingenuità di fondo, qualche giorno fa un conoscente di vecchia data mi ha detto: “Scusa, ma perché tutta l’energia che usi per la corsa non la investi in qualcos’altro? La vita poi passa, guarda me che ho già sessant’anni”.Non ho trovato affatto peregrina quell’esternazione, tuttavia, come spesso accade in questo genere di cose, l’altra persona in realtà si stava rivolgendo a se stessa.In quel momento, mentre parlavamo, probabilmente mosso da un’insoddisfazione di fondo, egli ha visto nella mia età (ancora relativamente giovane) una panoplia di possibilità inespresse, di vie non battute e l’inspiegabile preminenza da me accordata a qualcosa che per lui non conduce a nulla, irrazionale e insensato; forse ha provato in se stesso un fastidio inopinato per le sue occasioni mancate, come se tra sé e sé si fosse detto: “Ah, se avessi i tuoi anni, io farei questo e quello”.Ci sta, rientra nel cosiddetto e consunto ordine delle cose, ma la mia visione della realtà differisce dalla sua e io ricerco un gusto superiore, dove “superiore” non risponde a un sistema gerarchico, piramidale o verticistico, ma è cosa altra da questo tipo di categorizzazioni e anzi, la sua essenza verte sulla loro costante elusione.La mia reazione sarebbe stata più sbrigativa e inautentica (miope, limitata, fuorviante) se mi fossi risentito per quella frasetta, come se l’avessi presa per un atto di lesa maestà nei confronti di qualcosa a me caro, ma verso cui invece, anche e soprattutto nella pratica, devo mantenere un certo distacco proprio per ossequiare la ricerca di quel gusto superiore. Su tante cose soprassiedo perché non posso mettere sempre i sottotitoli, quindi lascio a terzi l’onere di andare alla pagina 777 del Televideo.