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Mag

Archivio onirico: sogno n. 20 / Mantra ed esperienza onirica

Pubblicato sabato 2 Maggio 2015 alle 15:47 da Francesco

La scorsa notte ho fatto un sogno bellissimo, del tutto stridente con quanto l'inconscio mi ha passato sottobanco nell'ultimo periodo: mi sono interrogato su quest'inversione di tendenza.
È pomeriggio, il cielo è grigio ma il mare calmo e io cammino su degli scogli per cercare un ingresso nella falesia che mi sovrasta. Non trovo alcuna entrata e chiudo gli occhi: quando rialzo le palpebre mi trovo in una casa con le pareti bianche. Accanto a me siede una donna che ha più di cinquant'anni, ma è ancora bellissima e intona una canzone che conosco bene.
Mi guarda, mi bacia su una guancia, mi sorride e continua a emettere ogni nota con precisione e disinvoltura, come se per lei non ci fosse alcuna differenza tra l'eloquio e il canto; all'improvviso s'interrompe, mi sorride, mi dà un altro bacio sulla guancia e poi mi stringe a sé, spalla contro spalla. Io provo un profondo affetto nei suoi confronti e sono pervaso da una dolcezza infinita. L'altra alza lo sguardo verso il soffitto e i suoi occhi trascinano i miei, ma torniamo a guardarci quasi subito e lei si rivolge a me: "Queste pareti non sarebbero più belle se fossero dipinte?". Replico con un sorriso, lo stesso che giace sul suo volto: ne resto incantato.

Nella scena iniziale il mare è calmo e il cielo grigio perché più o meno tutto continua a scorrere (panta rei) anche se io non trovo il modo di entrare in un cuore, ovvero la falesia del sogno. L'improvviso cambio di scena mi conferma che non deve esserci una ricerca poiché tutto avviene senza preavviso: ecco perché dopo un batter d'occhio mi ritrovo accanto alla deuteragonista.
La donna e l'affetto che mi manifesta non hanno un valore erotico, ma per me rappresentano i desideri di complicità e piccole attenzioni che capeggiano le mie fantasie affettive più profonde.
La domanda della donna è retorica e suona come un invito a dipingere quelle pallide pareti: si tratta di una scena quasi materna, un affettuoso sprone nei mi confronti.

Questa volta non sono molto interessato all'interpretazione del sogno perché i suoi significati aggiungono poco al quadro degli ultimi tempi, ma voglio fare un'ipotesi sulla sua origine.
Forse l'inconscio può veicolare i propri contenuti in una forma più o meno piacevole, così come lo stesso concetto può essere spiegato in maniere diverse, e difatti anche in quest'occasione mi è stata ribadita la mia mancanza d'amore, però in una forma nient'affatto cupa o minacciosa, anzi, amorevole come la premura di una madre divina.
Il giorno prima del sogno ho ascoltato a lungo il moola mantra cantato da Deva Premal (ma la donna del sogno non era lei poiché aveva più primavere e i suoi capelli erano corvini) e quando ne ho analizzato il ricordo, dopo una rapida associazione d'idee, mi sono chiesto se in qualche misura quel mantra non fosse penetrato al di sotto della mia coscienza; anche se nel sogno la sensazione d'incanto era più marcata, mi ha ricordato un po' quella che ho provato quando mi sono prestato all'ascolto piacevole e prolungato di quel kirtan.
Al fine di scongiurare certe derive, il mio approccio a determinati temi è quello di un tardo illuminista, perciò mi baso sulle mie esperienze per farmi un’idea della mia realtà soggettiva. Suppongo che il mantra (di cui io so fruire solo nella commistione di kirtan e musica occidentale) possa sortire degli effetti variabili a seconda di chi ne fa esperienza, ma in tale ipotesi riconduco tutto al campo fisico delle vibrazioni (senza esserne in grado di teorizzarne alcunché).
Di certo su di me agisce anche (o forse soprattutto) ciò di cui non conosco il significato.

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18
Feb

Archivio onirico: sogno n. 13

Pubblicato lunedì 18 Febbraio 2013 alle 07:14 da Francesco

Mi sono svegliato da poche ore e sono riuscito a imboscare qualche frammento del sogno nel quale l’inconscio mi ha catapultato questa notte.
Mi trovavo a camminare su degli scogli ed ero in procinto di tornare a casa, ma per attraversare un punto ho dovuto indugiare su una roccia più bassa e non appena vi ho messo ambo i piedi il livello del mare si è alzato in maniera imprevedibile, fino al mio petto. Non ho provato freddo né mi sono sentito bagnato. Ho continuato a camminare nel mare invece di proseguire lungo gli scogli e ad un tratto ho raggiunto un paese. Ho seguito una salita che correva parallela ad un muro di mattoni rossi e sono arrivato al centro del luogo. All’improvviso le strade soleggiate si sono pienate d’acqua e anche in questa occasione non ne sono stato bagnato benché mi ci sia trovato immerso fino al petto. Dopo una panoramica del paese allagato, sul quale comunque batteva un sole forte e dove nessuno era affatto agitato per l’evento, ho seguito una ragazza nell’androne di un palazzo in cui quest’ultima era stata invitata ad entrare da una signora di mezza età. Le due donne hanno discorso tra loro senza curarsi della mia presenza e la più anziana ha offerto degli abiti asciutti alla più giovane: io non sono rimasto molto all’interno dell’edificio e quando ne ho varcato l’uscita ho notato le strade completamente riabilitate.
A questo punto sul sogno è calata la sera e io mi sono ritrovato con un gruppo di ragazzi, tra cui dei francesi. Ci siamo diretti verso il luogo dal quale ero arrivato e là, tra gli scogli e i dirupi, abbiamo trovato un pièce teatrale in corso. Ad un tratto un ragazzo è rimasto impigliato in due cavi sottili che facevano parte del sistema d’illuminazione e io ho sentito l’obbligo di avvolgere quei fili con una striscia di plastica per liberare il suddetto senza procurare interruzioni all’opera, ma tutto ciò senza che mi fosse chiaro il perché. Una volta risolto il problema sono sceso tra gli scogli fino ad un punto in cui due pareti di roccia levigata correvano parallele verso il basso, dove il buio avvolgeva tutto e negava di scrutare alcunché; nel corso della discesa ho udito in lontananza e a più riprese il nome di Desdemona.

Questo sogno per me si presta ad un’interpretazione semplice benché il resoconto che io ne ho dato nelle righe soprastanti possa obiettivamente apparire piuttosto tortuoso e criptico.
La passeggiata sugli scogli la identifico con la vita stessa, frastagliata nel suo divenire come nei pensieri che ne costituiscono l’ossatura. L’impermeabilità all’acqua sono indotto a considerarla come la crescente indifferenza verso i moti della vita, a metà tra atimia e atarassia, e questa lettura è rafforzata in me dal fatto che l’acqua in questione sia quella marina, così soggetta ai flutti e alle maree. L’arrivo al paese attraverso la salita credo che simboleggi il mio ruolo nella società e lo inquadro anche come elemento descrittivo della parte ascendente di una parabola, ovvero la curva che meglio d’ogni altra rappresenta l’esistenza umana nella sua finitezza; difatti poco dopo quella stessa salita diviene una discesa, un ritorno, forse tanto ciclico quanto eterno. Il centro del paese lo immagino come l’allegoria dell’età adulta, ricca di occasioni perché è là che si riversano tutti gli entusiasmi, a mio avviso attribuiti dal senso comune alla giovinezza con una discutibile esclusività.
Per ciò che riguarda il mio ingresso nell’androne del palazzo, dietro la ragazza ma comunque a debita distanza da quest’ultima, io vi intravedo la mia incapacità di trovare una compagna che sappia aprirmi porte in cui io desideri entrare, difatti lascio l’edificio quasi subito. La donna più anziana, colei che discorre con la ragazza suddetta, la considero la proiezione della giovane nel futuro e l’offerta di abiti asciutti come una seconda possibilità che costei vorrebbe avere per le occasioni mancate di cui io, con buona pace della modestia, lì mi ritengo una delle incarnazioni. La sera che compare all’improvviso è nient’altro che una naturale variazione dell’ambiente e della coscienza che ivi volteggia su stessa. All’opera teatrale sugli scogli conferisco il valore rappresentativo delle dinamiche difficoltose, vaghe e sconnesse (nonché scoscese) dei rapporti interpersonali. L’aiuto che dò al ragazzo impigliatosi nei cavi del sistema di illuminazione lo vedo come la tendenza perfettibile verso l’obiettività; costui per me è un antagonista inconsapevole, per certi versi simile al personaggio di Iago nella tragedia di Otello: quest’ultimo dettaglio lo intuisco dal fatto che il sogno termina con l’eco del nome di Desdemona mentre io mi avvio verso il basso, ovvero verso l’idea della morte e non già in essa stessa come invece potrebbe emergere da un’interpretazione meno accurata, tuttavia non escludo che la mia sia ancor più superficiale perché di fatto in questa il pensiero scende e la realtà resta in superficie…
In altre parole è come se fossi un Otello più smaliziato e consapevole, in grado di aiutare Iago perché non lo reputo un nemico, bensì una prova per il raziocinio di Desdemona che è l’unico elemento in grado di vidimare l’amore con me o di decretarne l’incompatibilità. Nella conclusione del sogno trovo espressa tutta la mia repulsione per la seduzione e il possesso. Non vedo l’uomo come conquistatore, bensì come saggio che deve sforzarsi di comprendere davvero se Desdemona lo desideri e se lei abbia un alto livello d’introspezione, altrimenti che si getti pure tra le braccia di Iago e con lui sia felice o s’illuda di esserlo, risparmiandomi comunque l’inganno che quell’altra unione esemplifica: in pratica un atto di clemenza, dono delle circostanze, che dànno modo al sottoscritto di non vivere male la solitudine.
Vi è in tutto ciò rinuncia, attesa, speranza e morte. Reputo questo mio sogno quello più prodigo di simbolismo di cui io sia riuscito a portare reperti nello stato di veglia e anche l’interpretazione è la migliore che abbia mai fornito a me stesso. Sono lieto, molto lieto.

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14
Gen

Archivio onirico: sogno n. 12

Pubblicato lunedì 14 Gennaio 2013 alle 09:04 da Francesco

La scorsa notte ho sognato una ragazza che conosco di vista e con cui ho parlato per un breve periodo circa sette anni fa. Tutto è avvenuto in un’abitazione, la sua suppongo. Nel sogno lei era più bella di come l’ho trovata quando l’ho rivista per caso questa estate; appesantita di qualche chilo, invecchiata di qualche anno e forse gravata da qualche delusione.
Non ricordo cosa mi abbia detto nella scena onirica. D’un tratto è arrivata sua madre a casa e dopo essersi presentata mi ha chiesto di andarmene perché aveva da fare con sua figlia, ma il suo invito è stato gentile. Prima mi sono ritrovato in un parcheggio riservato con una sbarra e poi di nuovo nella casa suddetta, ma nel frattempo quest’ultima era diventata un labirinto di pietra. All’improvviso un gruppo di artisti circensi ha incominciato ad inseguirmi per gioco mentre io ho preso a fuggire seriamente, del tutto impaurito. Non rammento altro.

Questo sogno è l’ennesimo messaggio col quale l’inconscio mi notifica la carenza affettiva della mia esistenza. Non c’è da parte mia un’attrazione latente per quella ragazza, ma quest’ultima è il simbolo (infatti essa appare con un’immagine decisamente migliore rispetto a quella reale) di un anelito che continua a scorrere sotto la soglia della mia coscienza. Interpreto la madre e la sua richiesta come la mia volontà, la quale si oppone ad un bisogno che non possa essere soddisfatto tanto in senso platonico quanto carnale, ma una parte di me che ha scarso potere vorrebbe appagarsi anche solo parzialmente ed è per questa ragione che si palesa il contrasto.
Il ritorno nella casa esprime la ciclicità del desiderio di amare e credo che la trasformazione dell’ambiente domestico in un labirinto sia la rappresentazione della difficoltà di conoscere una persona compatibile; la pietra di cui è fatto il labirinto probabilmente sottolinea il carattere improbo dell’impresa. L’inseguimento degli artisti circensi lo spiego con le distrazioni, gli impegni e le beghe che la quotidianità m’impone e a causa delle quali trascuro il mio deserto affettivo.

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