Non ho ragioni apparenti per cercarne di sostanziali e dunque mi oriento al di là di certe premesse che si legano alle loro naturali conseguenze. Attorno a me percepisco la vacuità di ogni linguaggio e la profonda incomunicabilità che caratterizza ogni tentativo dialogico.
Le parole non riescono a sostenere il peso di ciò che rappresentano e non di rado le reciproche incomprensioni risultano la massima espressione di una velleitaria autenticità. Secondo me i silenzi sono gli unici depositari delle domande e delle risposte a cui ognuno può accedere soltanto dentro di sé. Scrivo per me stesso e a me stesso parlo poiché le mie frasi non potrebbero raggiungere nessun altro neanche se fossero diffuse a reti unificate. Riconosco ovunque il dominio del soliloquio, anche quando presto attenzione ai miei interlocutori e sulla base di quest’ultima fornisco poi uno spontaneo contributo alla conversazione, ma ai miei occhi e alle mie orecchie la questione si risolve quasi sempre in un gioco di ruolo. Non mi disturbano simili dinamiche, anzi, talora sono contento di prendervi parte per mero diletto, come una serata in un luna park, però cerco di soppesarle per quello che sono, ovvero poca cosa, e quindi non mi aspetto nulla di quanto possono millantare.
Trovo che le speranze siano piuttosto ingombranti e, per mia somma fortuna, non so neanche se me ne sia rimasta qualcuna incastrata nel recente passato. Cerco di vivere con la maggiore leggerezza possibile, a volte come in uno stato di abbandono sull’orizzonte del fatalismo: in questo modo riesco a regalarmi molti momenti di quiete. Non m’interessa granché la vita altrui in quanto mi bastano i difetti del mio egocentrismo e non intendo farne una collezione. Sono autoreferenziale da molto tempo, ma forse certe cose sarebbe andate meglio se avessi cominciato da quand’ero in fasce. Talora l’esperienza è una insegnante tardiva e la sua supplente, l’intuizione, non si dimostra sempre pronta a subentrarle.
La congiura della parole conduce sovente all’infanticidio di ogni significato, ma non di rado cotale figliolanza nasce già inferma e dunque la sua morte prematura rassomiglia a un atto di clemenza. Le conversazioni si ramificano in una subdola reciprocità e nella loro ostentazione sembrano le vene pronunciate d’un anziano malato. Oralità e scrittura si dimostrano nemiche di loro stesse, condannate dai particolari delle singole lingue così come qualunque tossicomane lo è dalle sue predilezioni narcotiche o etiliche.
I bassifondi del logos sono lastricati di libri e pervasi dai fonemi, ultime satrapie della perduta Babele dove i tombini esalano miasmi e sofismi verso nembi altrettanto malsani. Ed è sulle strade sconnesse e senza uscita del verbo che transitano e si scontrano fatalmente i vettori dell’interlocuzione. Passibili di pene esistenziali ed espropriazioni emotive, nonché primi attuatori di misure così draconiane nei loro stessi confronti, plurimi individui vagano raminghi e si cercano tra di loro per conseguire una mutua risonanza che regolarizzi le rispettive posizioni sulle terre emerse. Non timbri di ceralacca o inchiostro, né marche da bollo o firme digitali, bensì l’adesione al consesso civile richiede la vidimazione di orecchie da mercante e di sguardi inebetiti da abitudini ciarliere. L’esistenza di un senso si espone spesso a un comprensibile negazionismo, ma i grandi ricami sul corso degli eventi possono concedere il legittimo dubbio che vi sia davvero qualcuno o qualcosa a indossare il tempo.
Un paio di settimane fa mi sono recato nel capoluogo della mia provincia per esplorare i già noti antri di un nuovo centro commerciale. Non ho nulla contro il consumismo né contro le cattedrali nel deserto che sono erette in suo nome, difatti io stesso non ne risparmio occasionali visite.
Al contempo deluso e soddisfatto per le asettiche certezze ivi presenti, mi aggiravo solitario e rilassato tra tanti individui ubiqui come me perché, oltre che là, erano anche al centro dei loro microcosmi. A un certo momento del mio vagare ho deciso di unire l’utile al dilettevole, perciò sono entrato nell’ipermercato del posto per fare un po’ di spesa. L’imbarazzo della scelta non mi ha messo a disagio perché là come altrove sapevo cosa volevo e quindi non ci ho messo poi tanto a orientarmi. Verso la fine delle mie compere sono entrato in una delle ultime corsie per afferrare poche cose da uno scaffale, ma appena ho girato l’angolo mi sono trovato a fissare la nuca di un altro cliente e quando questi si è voltato ho distolto lo sguardo da lui perché aveva il viso sfigurato, come se fosse rimasto vittima di un grave incidente.
Non so per quale dannata ragione la mia vista sia andata a posarsi sulla nuca di quel tizio, ma quando lui si è girato può avere avuto l’impressione che io stessi osservando la sua faccia con disgusto: me ne sono dispiaciuto sùbito e avrei tanto voluto fargli sapere che non era così. Purtroppo ci sono delle circostanze in cui non si può proferire parola poiché il solo fatto di dire qualcosa ha un’alta probabilità che sembri una giustificazione: excusatio non petita accusatio manifesta! Insomma, avrei peggiorato le cose se avessi provato a discolparmi di qualcosa che forse, alla fine, ha turbato solamente il sottoscritto.
Ho pensato a quante volte quell’uomo abbia dovuto affrontare gli sguardi tutt’altro che teneri delle persone e mi sono chiesto se avesse incluso anche il mio in quella mesta somma. Questa circostanza mi ha fatto sentire impotente perché non sono rare le situazioni in cui le parole non possono sobbarcarsi il peso della verità, ovvero occasioni nelle quali le parole dimostrano tutta la loro inettitudine, ma d’altronde quali valide alternative esistono? L’incomunicabilità è davvero frustrante e frequente. Non mi preoccupo granché delle opinioni altrui, però non mi va giù che qualcuno possa sentirsi offeso da me senza che io abbia inteso farlo deliberatamente. Non so chi fosse quell’uomo e, ormai, spero di non rivederlo mai più, ma solo per non ripetere lo stesso errore! Gli auguro tutto il bene del mondo.