22
Set

Vuote parole a vuoto

Pubblicato venerdì 22 Settembre 2023 alle 02:12 da Francesco

Non ho nulla d’annunciare alle spalle dell’equinozio d’autunno, ma d’altronde anche alle stagioni non resta che ripetere i propri canoni. Cosa mai dovrei dire al cospetto del tempo? E soprattutto chi mai dovrebbe pormi domande in merito? Un bel tacer non fu mai scritto e una fantastica estinzione non fu mai vissuta. Le parole sono le peggiori nemiche di loro stesse e le scambio con piacere giacché non mi servono davvero.
Per motivi pratici (il tempo) o per ragioni semantiche (l’incomprensione), i dialoghi sono a loro volta negazioni composite di loro stessi, elevazione in scala dell’equivoco elementare da cui si formano per giustapposizione di fraintendimenti. Io parlo per parlare (pour parler in senso letterale e quindi, a ulteriore riprova, inautentico); inoltre scrivo per scrivere e penso giusto per pensare, ma se ne fossi in grado mi affrancherei dal pensiero invece di tirarmelo dietro come copia carbone della mia presunta e mutevole identità. Cosa rimane di quanto non permette a nulla di restare? È un gioco di rimandi e di superfici riflettenti che non si possono relazionare tra di loro manco, o forse soprattutto, in presenza delle migliori intenzioni. La descrizione è una ciarla che pretende il rango di necessità ed è l’abitudine ad accordarle quanto vuole, ma la sua divisa più plausibile è quella da usciere perché pone fuor di sé ogni senso reale o apparente.
Se dovessi partire da un presupposto ne sceglierei uno tra i volontari, così da non far ricadere su di me la scelta di un punto di partenza, difatti l’arrivo non cambia mai in sua ragione ed è sempre il medesimo, ossia privo d’indicazioni e sostanza, refrattario a ogni mappatura.

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14
Gen

Entro i limiti dei limiti

Pubblicato lunedì 14 Gennaio 2019 alle 22:30 da Francesco

La congiura della parole conduce sovente all’infanticidio di ogni significato, ma non di rado cotale figliolanza nasce già inferma e dunque la sua morte prematura rassomiglia a un atto di clemenza. Le conversazioni si ramificano in una subdola reciprocità e nella loro ostentazione sembrano le vene pronunciate d’un anziano malato. Oralità e scrittura si dimostrano nemiche di loro stesse, condannate dai particolari delle singole lingue così come qualunque tossicomane lo è dalle sue predilezioni narcotiche o etiliche.
I bassifondi del logos sono lastricati di libri e pervasi dai fonemi, ultime satrapie della perduta Babele dove i tombini esalano miasmi e sofismi verso nembi altrettanto malsani. Ed è sulle strade sconnesse e senza uscita del verbo che transitano e si scontrano fatalmente i vettori dell’interlocuzione. Passibili di pene esistenziali ed espropriazioni emotive, nonché primi attuatori di misure così draconiane nei loro stessi confronti, plurimi individui vagano raminghi e si cercano tra di loro per conseguire una mutua risonanza che regolarizzi le rispettive posizioni sulle terre emerse. Non timbri di ceralacca o inchiostro, né marche da bollo o firme digitali, bensì l’adesione al consesso civile richiede la vidimazione di orecchie da mercante e di sguardi inebetiti da abitudini ciarliere. L’esistenza di un senso si espone spesso a un comprensibile negazionismo, ma i grandi ricami sul corso degli eventi possono concedere il legittimo dubbio che vi sia davvero qualcuno o qualcosa a indossare il tempo.

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23
Gen

Di entropia in entropia

Pubblicato sabato 23 Gennaio 2016 alle 22:01 da Francesco

In una di quelle letture per tribù israelitiche o per crociati, insomma tra quelle pagine un po' invise ad altre genti semitiche, v'è la narrazione di come un tempo gli uomini parlassero la stessa lingua, prima che questi violassero il piano regolatore dei cieli con la costruzione di una torre verso l'Altissimo, forse per sussurrare qualcosa all'orecchio assoluto dell'inquilino di sopra.
Mi lascia perplesso il modo in cui un individuo può essere atterrito dalle notizie che ode di sera o a pranzo tramite le frequenze radiotelevisive, ma trovo ancora più aberranti gli effetti profondi in cui taluni possono incorrere dopo un'incidentale esposizione a certi comunicati.
Non sono così ottuso e scontato da prendermela con gli organi d'informazione, altrimenti se mi dovessi scagliare contro un parallelismo analogo punterei il dito verso qualche corpo docenti, altrettanto marcescibile, ma sono consapevole di come certe derive siano autoimmuni, ovvero di come sovente scaturiscano dal ricevitore più che dall'emittente.
Scrivo di tali cose perché, di recente, ho assistito alla reazione isterica di una persona che aveva appena assistito a una trasmissione televisiva i cui ospiti avevano discettato della tenuta del sistema bancario, come se le parole di quattro opinionisti più o meno titolati fossero state in grado di spostare una virgola di quella che è comunemente nota come realtà; eppure è così, difatti se le cose stessero diversamente il soggetto suddetto non avrebbe avuto la reazione che invece ha avuto. Ripeto (come una stazione di relais, appunto): l'entropia (concetto preso in prestito dalla termodinamica) immagino che tenda a manifestarsi più spesso in chiunque provi a sostenere l'insostenibile leggerezza dell'etere senza che abbia prima imparato come stare a mezzo metro da terra sulle proprie gambe.
Non mi considero estraneo a questo meccanismo di subdole influenze, e d'altro canto so bene che una larga parte dell'esistenza si svolge sotto la soglia della coscienza (a tal proposito è piuttosto esplicativa l'immagine di un iceberg che rende l'idea di come lo stato vigile sia solo la punta di qualcosa di più grande e quasi del tutto sommerso), dunque non gioco la carta di un'atarassia che non mi appartiene e di cui non posso fregiarmi: ne consegue che, quantunque in altri contesti, riconosco come anch'io sia stato più volte fuorviato da me stesso, ovvero da un'errata codificazione di notizie, parole, elucubrazioni personali o altrui.
Per me la vera confusione non è quella provocata da fonemi di lingue diverse che si inerpicano e si accavallano su una torre incompiuta, chiaro esempio di ecomostro biblico, ma è quella che può nascere in seno a una sola lingua poiché sapere e comprendere non sono veri sinonimi: perciò che posso fare per facilitarmi la vita e rendere più sereno il mio soggiorno terrestre? Non finirò mai di ripetere come io non mi occupi né di terzi né di trini, quindi scrivo a titolo personale e la mia soluzione risiede in un adeguato esercizio dell'attenzione: finora tale modus operandi mi è stato utile. Se il tempo è un fiume eracliteo allora non posso lasciare che le sue acque vengano avvelenate dalle vibrazioni dell'aria o da pezzi giustapposti di alfabeto latino dei quali travio il senso sulle mie retine. I fraintendimenti, queste sono le armi automatiche da proibire, altroché pistole, fucili o quanto rientri nel secondo emendamento della costituzione statunitense.
Mi sta bene che io non mi capisca con un mio simile, ma devo comprendere me stesso e questa circostanza è la conditio sine qua non per gettare un ponte su un altro mondo, foss'anche solo una città fantasma: per quanto cupi e sfuggenti, anche gli spettri hanno qualcosa da dire.
Fallisca il governo, scoppi la guerra, arrivi inopinata la pace, collassi l'universo o il solito balordo che non sa più dove sbattere la testa, giungano ricchezze degno di Creso o piovano tumori da un cielo plumbeo; ci siano famiglie arcobaleno o torni un patriarcato efferato, prevalga un vero laicismo o si faccia strada l'integralismo iconoclasta che sbatte i piedini nella mezzaluna fertile. Io sono di passaggio e voglio capire me stesso: non pretendo di comprendere qualcun altro e allo stesso tempo non escludo che ciò possa comunque accadere.


Grande Torre di Babele, di Pieter Bruegel il Vecchio, 1563
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