Mi è occorso circa un mese per leggere e studiare “Essere e tempo” di Martin Heidegger, testo da cui mi ero ritratto qualche anno fa dopo lo sciagurato incontro con l’edizione di Mondadori, tuttavia ho optato per un suo secondo approccio quando, in quel di Torino, mi è capitata fra le mani la nuova edizione di Longanesi che si basa sulla storica traduzione di Pietro Chiodi.
Non che prima l’esistenzialismo o i concetti della filosofia di Heidegger mi fossero estranei, però ne lamentavo una visione d’insieme che fosse più organica. Un testo di questa portata richiede anzitutto una minima padronanza delle espressioni che sono state coniate all’uopo, talora ex novo da Heidegger stesso, nonché di quei termini ai quali egli dà accezioni diverse da quelle che sono invalse: ovviamente tutto ciò con lo scopo di superare i limiti linguistici.
“Gettatezza”, “intratemporalità”, “essere-nel-mondo”, “deizione”, “poter-essere”, “essere-per-la-morte” e il resto del vasto armamentario polisemantico che un’ardua ma efficace traduzione ha comunque reso accessibile anche a chi, come il sottoscritto, non conosce il tedesco. V’è un’intricata rete di rimandi che rende tutt’altro che facile l’assimilazione di quest’impianto filosofico, ma d’altronde non può essere altrimenti ed è come se questa stessa difficoltà ne fosse una parte costituente. Per quanto ostica, la lettura di “Essere e tempo” mi ha mostrato tutta la sua imponenza, però non si presta a quella dissezione aforistica che rende fruibili altri pensatori, ancorché al costo del loro pensiero. Pare che Nietzsche filosofasse con il martello, invece Heidegger, a mio avviso, lo fa con lo stesso trasporto con il quale un anatomopatologo redige un referto, ma proprio le analisi asettiche e lo stile didascalico del secondo mi catturano più delle evocazioni letterarie del primo. È pure vero che l’ontologia ha per sua natura un tratto che non agevola un certo tipo di digressioni, ma anch’essa può avere i suoi momenti di prosa.
Nel concetto di “essere-per-la-morte” ho rinvenuto una vaga affinità con un’idea che da tempo albergava in me, sebbene io vi sia giunto per altre vie e ne abbia raccolto solo una forma grezza. Di primo acchito il postulato della “deiezione” assomiglia a una delle tante critiche che taluni, a torto o a ragione, muovono puntualmente verso il cosiddetto volgo, però non è tale perché si trova su un piano diverso da quello in cui abitualmente scivola l’alterigia in materia di società. Uno dei cardini di “Essere e tempo” risiede nel concetto di Cura e nella sua immediata suddivisione tra prendersi-cura degli enti e l’aver-cura degli altri, anche se a me questa pare che sia una pietra angolare solo perché dev’esserlo per forza di cose: e per cose non intendo semplici-presenze. Ammesso che il punto di partenza sia l’Esserci nelle sue modalità di essere, ovvero autentica o inautentica a seconda che la chiamata della coscienza sia accolta o meno, uno dei punti di arrivo (seguendo l’ordine dell’esposizione) non può che essere la temporalità da cui deriva il concetto ordinario di tempo; è a tal proposito che verso la fine del libro ho letto un passaggio per me fondamentale: “Il prendersi cura quotidiano trova il tempo presso l’ente intramondano che incontra”.
In quanto ho appena scritto si staglia la tirannia del Si impersonale, però è improprio qualsiasi parallelismo con quel vago desiderio di affrancamento da uno stato non meglio precisato che si riscontra altrove, difatti Heidegger si astiene da giudizi di valore, o almeno io non ne ho colti.
Non si possono riassumere cinquecento pagine di una simile portata in poche righe dall’incerta successione, tuttavia ne bastano anche di meno per incensare un testo capitale nella filosofia del novecento e di cui ancor oggi si sente la forte eco. Non m’illudo certo che io abbia fatto del tutto mia quest’opera, per altro incompleta e gravata dal peso dei miei numerosi post-it, ma ne ho ricavato abbastanza per compiere un ulteriore balzo esistenzialistico verso Sartre.
In questi giorni non mi riconosco. Sono stanco, indolente e non riesco a concentrarmi su nulla. Avverto persino un velo di malinconia nelle mie riflessioni, però non so chi ve l’abbia adagiato e mi chiedo se non sia caduto inavvertitamente alle Moire mentre esse tessevano il mio destino. Se mi lasciassi soggiogare da queste perturbazioni passeggere finirei per scrivere come se fossi l’unica persona al mondo ad avere dei problemi. In realtà non ho niente che una buona dormita non possa risolvere. Mica sono fatto di merda: anch’io sono un essere umano e non posso farci nulla, tutt’al più posso esserci, nel senso di Heidegger. La citazione è servita: per ora in quanto aggettivo, ma in futuro non so se servirà anche in qualità di verbo intransitivo con l’ausiliare al seguito. Prove tecniche di sagacia, un po’ come l’inversione dei dolori del giovane Werther.
D’autunno non starò come le foglie sugli alberi, perciò parafraso i versi di Ungaretti per darmi un tono. Gli stereotipi estivi sono resi anacronistici dai mutamenti del clima: ogni tanto qualcuno si ricorda che tutto cambia o forse ne è sempre conscio e all’uopo finge di stupirsene per chissà quali ragioni. Divago come se dovessi vivere davvero. Arretro d’un passo, ma tanto sono tenuto a farne molti in avanti: mi riferisco al podismo. Tra un paio di mesi correrò all’estero per la prima volta: ho scelto d’esordire oltralpe con un’altra corsa di cento chilometri, la stessa distanza con la quale ho iniziato a gareggiare. Non mi pongo obiettivi particolari e intendo allenarmi in modo spontaneo, senza badare a tabelle o ad altro. Non sono bravo ad applicare programmi specifici e non voglio rischiare un’involuzione o, ancor peggio, una deformazione dei motivi primevi che mi hanno indotto a correre. Sono partito dalla soglia di un forte disagio esistenziale e alla fine ho avuto anche delle soddisfazioni cronometriche: ciò non devo dimenticarlo mai, specialmente quando sulle ali dell’entusiasmo il mio Io lascia che gli s’introducano delle ambizioni clandestine.
Per me la corsa è solo una via per meditare che mi consente d’estraniarmi dall’impazzimento in cui versa il genere umano; è un modo per tollerare quella crudeltà che di fatto non so neanche se sia giusta o meno, ma a cui di certo una parte della mia specie non è più abituata da quando la cosiddetta civiltà ha aumentato le sue pretese: su ciò i saggi del dottor Freud sono esaustivi. Se fossi una persona migliore me ne starei sotto un albero a occhi chiusi, in perfetta ascesi, ma sono uno della massa e non è certo qualche sporadica bizzarria che può rendermi differente dal resto. Non so quanto mi resti da vivere, ma voglio cercare di trascorrere quest’arco di tempo nel migliore dei modi. Buona fortuna a tutti.