1
Mar

Un affare di famiglia

Pubblicato martedì 1 Marzo 2022 alle 22:31 da Francesco

Non mi considero un cinefilo, ma ogni tanto mi trovo a compulsare la settima arte per ricavarne degli spunti con cui arricchire il mio immaginario. Sulla scorta di ciò un po’ di tempo fa sono approdato a delle recenti produzioni nipponiche e quella che più mi ha colpito è stata la pellicola di Hirokazu Koreeda risalente al 2018.
Il film descrive un Giappone lontano dalla sua immagine idilliaca e vicino a quello di una famiglia che si barcamena tra espedienti, piccoli furti e segreti, ma nella quale trovano spazio anche sentimenti di affetto e una profonda umanità. A mio avviso l’opera ha un taglio sociale e si nutre delle contraddizioni di cui si rende latrice. Ogni personaggio ha un profilo preciso e contribuisce  all’economia di una narrazione scorrevole, mai banale, tuttavia per me il ruolo più riuscito è quello dell’anziana Hatsue, interpretata da Kirin Kiki: immensa attrice nipponica deceduta pochi mesi dopo l’arrivo del film nelle sale e di cui ho adorato anche un’altra pellicola della quale scriverò in futuro.
Mi è piaciuta molto la fotografia, in particolar modo negli ambienti chiusi, così come ho ravvisato un’opera di rara sensibilità in certe inquadrature che fanno parlare piccoli gesti o minime alterazioni dei muscoli facciali. Non sono un esperto di recitazione, perciò valuto in maniera del tutto soggettiva le prove attoriali in base al grado di convinzione che suscitano in me e in questo caso il livello è risultato massimo. In buona sostanza si tratta di un racconto agrodolce, fatto di cinismo, pentimenti e tragiche redenzioni che a tratti mi è sembrato un saggio sulla natura umana. Non ho percepito l’opera come un semplice atto di denuncia né come un tentativo di subordinare la sociologia a un esercizio di stile, bensì ho apprezzato la crudezza del suo verismo per mezzo di un perfetto connubio in cui forma e sostanza finiscono per equivalersi.

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24
Nov

Outrage, la triologia

Pubblicato mercoledì 24 Novembre 2021 alle 19:39 da Francesco

In questi giorni ho visto per la prima volta Outrage, Beyond Outrage e Outrage Coda, una trilogia in cui il grande Takeshi “Beat” Kitano ha rivestito il duplice ruolo di regista e attore, come già era accaduto per altre sue pellicole che in passato ho apprezzato molto: Violent Cop, Sonatine, Hana-bi, L’estate di Kikujiro e Brother.
Il trittico in esame costituisce un ritorno di Kitano al cosiddetto genere gangster movie e ancora una volta racconta l’efferato mondo della yakuza, la mafia giapponese.
La storia è piuttosto articolata in quanto vi sono nomi e cariche che si succedono in accordo con la ridda di omicidi, macchinazioni e vendette prima e dopo ogni nuovo assetto di potere. Nel continuo cambiamento delle dinamiche credo che l’unica costante rimanga la figura di Otomo, interpretato dallo stesso Kitano, difatti questo personaggio sembra ancorarsi presto a un suo codice personale, già dal primo film, e finisce per farlo prevalere su ogni altro tipo d’interesse. Per me non sono tanto le crude vicende a formare la sostanza dell’opera, ma paradossalmente trovo che quest’ultima prenda corpo nella sua forma e quindi nella particolare estetica con cui lo stile del regista nipponico si rende subito riconoscibile. In altre parole l’impronta di Kitano dietro la macchina da presa risulta evidente per chi come me ne abbia già apprezzato i lavori precedenti e il suo marchio rifulge tanto nelle scene più efferate, quali le sparatorie e i momenti di puro sadismo, quanto nella delicatezza di certe inquadrature larghe che come di consueto vanno a cogliere anche il mare, un elemento imprescindibile per lui come egli stesso ha dichiarato più volte nelle interviste. E poi c’è la mimica del Kitano attore, dai sorrisi improvvisi alle smorfie durante gli spari; un volto, il suo, al contempo freddo ed espressivo, così come la gestualità che conferisce al protagonista un ulteriore carisma e di conseguenza un contributo importante al tenore della trilogia.
In questo tipo di cinema non ricerco significati profondi, bensì un intrattenimento che non sia fine a se stesso e quindi una forma capace di superare se stessa proprio come a mio giudizio avviene in modo piuttosto omogeneo in ognuna di queste tre pellicole.

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10
Mar

Un omikuji nefasto

Pubblicato domenica 10 Marzo 2019 alle 13:25 da Francesco

È giunto il momento di tornare a Zante, ma prima di rimpatriare ho preso un omikuji dal tempio di Asakusa per intuire cosa il futuro abbia in serbo per me da una prospettiva scintoista. Ne è scaturito un momento di incontro tra culture, quella oracolare nipponica e quella apotropaica italiana, infatti appena ho letto il responso mi sono toccato i coglioni.
Io penso che ogni sventura sia figlia di ciò con cui Emil Cioran titolò una sua silloge aforistica, “L’inconveniente di essere nati”, ma questo è un altro discorso, vacuo e trascurabile come sa essere ogni parto.
Non idealizzo il Giappone, non potrei mai viverci per molteplici ragioni, e posso immaginare quali motivi concorsero ad acuire la depressione di Tiziano Terzani quand’egli soggiornò a lungo da queste parti, però a me piace tornarci dopo che sia intercorso un congruo lasso di tempo dall’ultima volta.
Ho avuto il privilegio di nascere e ho ancor oggi quello di vivere in un posto magnifico, al quale di certo non appartengo in ragione di vincoli umani poiché “come uno straniero non sento legami di sentimento”, per usare le parole di Camisasca, ma la mia fortuna più grande è stata quella di rendermene conto presto e di non rinunciarci.
Invero non credo al caso. Qualche giorno fa in metropolitana mi è caduto l’occhio su un libro inglese di un autoctono dove ho scorto i nomi di Derrida e Heidegger: nei giorni precedenti il secondo era stato oggetto di mie riflessioni itineranti.
Ammetto le coincidenze solo quando si possano dire significative: questa non è stata la prima volta in cui ho esperito sincronicità junghiane.

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4
Mar

Tokyo Marathon 2019

Pubblicato lunedì 4 Marzo 2019 alle 01:52 da Francesco

Racchiudo la sintesi perfetta in una sola parola: gambarimashita! Ieri ho provato a dare il massimo per le strade di Tokyo e ho corso con un piacere immenso sebbene il mio tempo finale sia stato un po’ alto: 2h45’55”, ossia 3’55” al chilometro.
Quella dell’antica Edo è stata la mia ventinovesima maratona, la diciannovesima sotto le 2h50′.
Ho osato perché avevo l’obbligo morale di provarci e quando ho visto che non era la giornata giusta ho atteso più del solito prima di rallentare: anche per questo motivo sono arrivato al traguardo sull’orlo dell’ipoglicemia.
Non ho gestito bene l’andatura, mea culpa, e sul finale ho accusato molto il vento e la pioggia: di solito la seconda non mi dispiace, però insieme al primo produce un mix letale.

Questi i miei intertempi:

5K: 18’55”
10K: 37’30”
15K: 56’04”
Half: 1h18’36”
30K: 1h52’04”
35K: 2h11’32”

Si è rivelata la maratona più fredda che abbia mai corso, peggio di Firenze nel 2017, una di quelle in cui ho sofferto maggiormente, ma è stata anche una delle più intense sotto l’aspetto emotivo. Da rifare per tante ragioni, persino con le stesse condizioni: stupenda la gara e grandioso il contesto. Mi è sembrato di correre dentro Blade Runner. Sono contento e appagato.
Il GPS ha avuto qualche problema e la traccia Strava risulta sfasata e inattendibile.

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1
Mar

Prima della maratona di Tokyo

Pubblicato venerdì 1 Marzo 2019 alle 11:42 da Francesco

Definisco Tokyo con un ossimoro piuttosto inflazionato: una lucida follia.
Non potrei mai vivere in una megalopoli del genere, ma ogni tanto amo tornarci perché mi ci trovo a mio agio: chissà, forse sono echi di vite passate.
Durante il volo di dodici ore ho approfittato del cinema d’essai offerto da Alitalia e mi sono riguardato “Troppo forte”. Oggi Oscar Pettinari sarebbe papabile come vicepremier.
Qualcuno pensa che il Giappone costi molto, ma d’altro canto c’è anche chi nega lo sbarco dell’uomo sulla Luna.
Facendo tutto da solo ho trovato un biglietto a 556 euro con Alitalia, poi una sistemazione spartana per dodici notti nella zona di Asakusa a 445€. Altri 98 euro per l’iscrizione alla maratona e 26€ per un’assicurazione medica poiché, come sanno bene i più ferrati in geopolitica, il Giappone non fa parte della comunità europea. Quindi 1125 euro più altri 500/600 per cibo, spostamenti, varie ed eventuali. Un totale di 1700 euro: poco di più di quanto spenda in un anno un tabagista che consumi un pacchetto al giorno.
Sarebbe troppo facile e impietoso fare il confronto con chi dona i soldi alla criminalità organizzata tramite l’acquisto di droga o con chi si sfonda di alcolici nel weekend. A ognuno il suo.

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5
Feb

Osaka, Nara, varie ed eventuali

Pubblicato sabato 5 Febbraio 2011 alle 21:47 da Francesco

La mia partenza è vicina. Tra qualche giorno sarò di nuovo in Italia e resterò uno straniero, però questa condizione mi aggrada e mi diverte. Ho compiuto una visita doverosa a Nara e l’ho trovata un po’ troppo a misura di turista, però questa impressione non mi ha impedito di apprezzarne l’atmosfera. Credo che ricorderò a lungo l’imponenza del Buddha (Daibatsu) che si trova nel tempio Todai-ji.
Durante gli ultimi giorni ho giocato a calcio. La prima partita l’ho fatta circa una settimana fa dalle parti di Ebisucho con alcuni ragazzini: per un pomeriggio mi sarebbe piaciuto riprendere a noleggio l’età che fu anche mia.

Recentemente ho scoperto il parco di Nagai e là ho trovato persone più grandi con cui giocare, perciò ho cominciato a frequentarlo per unirmi a partitelle con un maggiore coefficiente di difficoltà. Tra un match e l’altro ho conosciuto due inglesi e un giamaicano con i quali ho scherzato ampiamente sul Giappone, sui giapponesi e, più in generale, sul mondo intero. Finora all’estero sono sempre entrato in contatto con individui interessanti, ma d’altronde credo che una mente aperta costituisca un requisito importante per recarsi e sostare in certe parti del mondo senza negarsi a sé stessi né agli altri.

Torno volentieri nella mia terra benché uomini indegni di vivere la offendano sulle carte dei progetti ecomafiosi. In Italia regna l’ignoranza e talvolta chi le si oppone lo fa soltanto per interpretare un ruolo che gli permetta di prendere parte al gioco di società.
Una volta a casa dovrò scambiare qualche parola con il mio editore poiché c’è una questione contrattuale ancora aperta che ritarda la pubblicazione del mio secondo libro. Non mi piace affatto il mondo dell’editoria, specialmente quella parte in cui transitano gli scrittori emergenti, perciò sto pensando di farne a meno poiché esistono valide alternative per la distribuzione e io non ho alcuna pretesa in termini remunerativi né in termini di fama. Scrivo cose che vorrei leggere: questo è quanto. Entro la fine dell’estate potrei concludere il mio terzo libro poiché ho già scritto ventuno pagine e di solito mi fermo poco dopo le cento. Ho buttato giù qualche testo e vorrei registrarne almeno una parte su alcune basi di mio gradimento che ho raccattato un po’ di tempo fa. Ne farei volentieri a meno, ma nella musica italiana non ci sono molti testi che mi piacciano e dunque devo registrarmene qualcuno. Probabilmente sarò costretto a emulare quanto ho già fatto in passato per sopperire alle mie mancanze tecniche, tuttavia sono indeciso se ricorrere ad autotune o meno. In Italia ci sono ottimi musicisti, ma sono pochi coloro che riescono a dirmi qualcosa e il signor Brondi, per altro mio coetaneo, è tra questi. “Con le nostre discussioni serie si arricchiscono solo le compagnie telefoniche”.

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29
Gen

Emissioni notturne

Pubblicato sabato 29 Gennaio 2011 alle 19:08 da Francesco

Trasudo pace. Dov’è la nostalgia? Nei miei viaggi non fiorisce mai perché le erbacce si vergognano a crescere nei giardini pensili. Al tatto manca un po’ la morbidezza dei miei gatti, gli unici felini che m’è dato carezzare benché io adori l’intera famiglia e provi soltanto un doveroso senso di rispetto per il resto del regno animale. Il puma, il giaguaro, la tigre, la lince: tutti intenti a sbranare il topo, l’elefante e i due liocorni. Trovo che i pronomi possessivi stonino di fronte agli esseri senzienti, ma d’altronde costituiscono il dazio cacofonico da pagare per mantenere un briciolo di chiarezza.
Non riesco a capire se mi sembrino più divertenti quei giapponesi che provano ad assomigliare agli occidentali o quegli occidentali che cercano di fare l’inverso. Anche in Giappone, come del resto in ogni parte del mondo in cui non regni la fame o la Sharia, credo che l’uso degli strumenti per il maquillage dovrebbe essere soggetto alle stesse norme che regolano il porto d’armi. Secondo me certi modi di truccarsi deturpano il viso quanto un colpo di fucile a pompa in pieno volto, perciò penso che la Beretta potrebbe tranquillamente entrare nel mercato della cosmesi e finalmente le vittime fashion diventerebbero tali in senso letterale. In realtà non ho nulla contro le mode poiché dietro le stronzate che le compongono ci sono dei posti di lavoro. Io sembro un pezzente, ma in realtà sono un minimalista. Ho la barba incolta, ultimamente indosso dei pantaloni del Bayern Monaco, una felpa del Liverpool e un paio di Nike nere che presto dovrò cambiare.
Quando tornerò in Italia ricomincerò subito ad allenarmi. Ho voglia di correre e di alzare pesi. Mi manca l’attività fisica nonostante le lunghissime camminate di cui mi rendo protagonista ogni dì, manco dovessi sostenere delle prove per capeggiare un nuovo Esodo. Comunque sono contento, pago, disinvolto, sciallato, come dicevano i giovani un tempo, ovvero alcuni di coloro che oggi puntano le dita ormai trentenni contro le nuove generazioni: le prediche sono imperiture, santi numi! Nel mio lettore mp3 girano parecchie cose, tra cui un pezzo di James Senese (già una volta apparso su queste pagine) nel quale mi rispecchio tantissimo: è la prima scelta quando, stufo di velare il mood musicale con un po’ di malinconia, voglia riportarlo in crescendo, dimensione a me congeniale. Amen, cazzo, perché sono pieno di grazia. “D’int ‘a capa so’ vivo so’ vivo je nun tengo età”.

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26
Gen

Tra le strade, i pensieri e l’eterno ritorno

Pubblicato mercoledì 26 Gennaio 2011 alle 17:07 da Francesco

Qualche giorno fa sono stato dalle parti di Shin-Imamiya, che assieme a Nishiniari è considerata una delle aree più pericolose di Osaka e dell’intero Giappone. In realtà la zona non presenta rischi e la sua nomea è ingiustificata, tuttavia pullula di senzatetto e disperati di vario genere che vagano storditi come dei morti viventi in mezzo alla sporcizia e al degrado. Durante la camminata ho avuto l’impressione di trovarmi in un manicomio a cielo aperto, ma con pazienti placidi, sedati dal dolore e dalla vergogna. La microcriminalità è pressoché assente. Insomma, nel caso in cui s’intendesse davvero classificare Shin-Imamiya come una zona pericolosa, allora bisognerebbe alzare (o meglio, abbassare) le quotazioni di altri posti sulla base della semplice fama, perciò lo Zen di Palermo, Secondigliano a Napoli o una qualsiasi banlieue dovrebbero essere equiparati all’Iraq.

Alcuni occidentali idealizzano molto il Giappone poiché fruiscono in maniera più o meno massiccia dei prodotti d’intrattenimento che alienano una buona parte dei giapponesi, insomma le bazzecole da otaku. Sono figlio degli anni ottanta, perciò ho guardato i cartoni animati nipponici, ho giocato con parecchi videogiochi del Sol Levante, ma almeno i manga, fatta eccezione per Jiraishin, non hanno attecchito su di me. Preferisco altre letture ai fumetti, tuttavia non voglio essere altezzoso e credo che le une possano tranquillamente convivere con le altre. La cortesia giapponese è rinomata in tutto il mondo e costituisce uno stereotipo vero, però è tremendamente meccanica e a tratti mi sembra davvero di trovarmi in un incubo orwelliano. In Italia certe volte pare quasi che il venditore venga infastidito dal cliente, mentre in Giappone quest’ultimo è sempre rispettato e riverito. Ho l’impressione che l’italiano medio confonda la libertà con la pretesa d’essere il centro dell’universo, mentre la controparte giapponese mi sembra soffocare in una spersonalizzazione vorticosa. Io non mi rivedo affatto nella società italiana né in quella nipponica e credo che siano le due facce della stessa medaglia. Ripeto: mi piacerebbe lavorare in Giappone per sei mesi o un anno (magari come lettore d’italiano), però non ci vivrei mai a meno di non essere costretto da cause di forza maggiore.

Qualche volta certi italiani mi chiedono come siano le donne giapponesi e le mie risposte a domande del genere si tingono sempre d’ironia. Cazzo, non conosco manco le italiane, cosa potrei mai narrare di quelle con gli occhi a mandorla e le gambe storte? Esteticamente non mi attraggono molto le ragazze asiatiche sebbene ve ne siano di avvenenti: comunque a me pare che sfioriscano presto. Non potrei mai avere una fidanzata orientale poiché ritengo la comunicazione un perno imprescindibile in un legame affettivo, sebbene qualcuno per confutarmi possa ricorrere alla retorica del linguaggio universale del corpo e delle emozioni. Ammesso che in futuro una ragazza entri nella mia vita, ho ragione di credere che costei sarà un’italiana (tale per sbaglio) o un’anglosassone. Se ragionassi con organi non deputati a farlo forse mi risolverei a studiare il finlandese. Per me la cultura è un elemento estetico, indipendente e allo stesso tempo notevolmente minore rispetto alla personalità di un individuo, e per poterne godere credo che non debbano esserci barriere linguistiche. Eros e logos sono simbiotici, ma qualcuno cerca sempre di contrapporre l’uno all’altro per rendere più sopportabile nei suoi legami la mancanza eccessiva di uno dei due elementi. Fottere senza parlare né capirsi è come parlare e capirsi senza fottere. Del triumvirato mi mancano due terzi, perché finora nella mia vita ho parlato, però forse non mi sono fatto capire (o magari io non ho capito) e per fottere i tempi non sono ancora maturi anche se i fiori cominciano già ad appassire. Inclinazione troppo cervellotica? Eh, beh: fanculo. Tra le tracce di vario genere che ascolto durante i miei vagabondaggi, ce n’è una particolare che in questi giorni metto in repeat piuttosto spesso per infondermi un po’ di sana malinconia, senza eccessi.

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21
Gen

Kameoka, Arashiyama, Hozugawa e occhi azzurri

Pubblicato venerdì 21 Gennaio 2011 alle 16:50 da Francesco

Spinto dal desiderio di fare un giro sul fiume Hozu, due giorni fa mi sono recato a Kameoka. Per raggiungere l’imbarco sono dovuto passare da Kyoto, dove poi ho preso un altro treno della linea Sagano fino alla cittadina summenzionata. La mia scarsa conoscenza del giapponese mi ha permesso tuttavia di chiedere informazioni precise per arrivare alla banchina e, lo devo ammettere, sono stato davvero contento di essere riuscito a raccogliere un frutto piccolissimo dallo studio intermittente della lingua.

Il tragitto è durato quasi due ore, nel corso delle quali ho contemplato entrambe le sponde del corso d’acqua, a tratti persino innevate, ma spesso spoglie. Il fiume Hozu offre alcune rocce dalla foggia particolare, tuttavia queste non mi hanno impressionato granché e sono rimasto colpito dall’insieme degli elementi naturali più che da qualche dettaglio. Mi è piaciuta molto l’escursione e vorrei ripeterla durante una giornata primaverile, per farmi rapire dall’incanto roseo dei ciliegi fioriti che già una volta ha sequestrato i miei sensi: mai sindrome di Stoccolma fu più piacevole.

A cotanta bellezza, imponente e algida, s’è aggiunta una visione celestiale. Nel corso della traversata ho conosciuto due ragazze australiane, credo mie coetanee, con le quali tuttavia ho cominciato a parlare in modo più approfondito soltanto ad Arashiyama, quando siamo sbarcati. Insieme abbiamo visitato l’esterno del tempio Tenryu-ji e un bosco di bambù che ho trovato davvero meraviglioso.
Una di queste due ragazze aveva degli occhi azzurri in cui mi sarei perso volentieri per tutto il resto della mia vita, magari a bordo di un’arca, o di una zattera, o semplicemente a cavallo di un canotto gonfiabile a forma di coccodrillo. Inoltre sono stato colpito e affondato dalla nicchia in cui questo sguardo era custodito, ovvero nei lineamenti britannici della ragazza, esponenti essenziali di una normalità stupefacente senza il supporto friabile del make-up. Non mi era mai successo nulla del genere. Avrei voluto conoscere ogni cosa di quella cittadina australiana, parlarle per ore e ore, ma le nostre strade si sono separate alla stazione di Kyoto. Non ho neanche fatto in tempo a dirle quali rare sensazioni aveva suscitato in me, e credo che se lo avesse saputo almeno un po’ le avrebbero fatto piacere le mie parole. Diamine, se credessi al destino dovrei andare a prenderlo per la collottola e redarguirlo: “Oh, ma sono scherzi da fare brutto infame?”. Alla fine sono tornato a Shin-Osaka e poi da qui a Tennoji, dove ho comprato qualcosa da mangiare prima di rincasare ad Abeno. Durante il ritorno ho continuato a pensare a quella visione celestiale e, senza che ce ne fosse ulteriore bisogno, ho compreso quanto sarebbe stato bello condividere certi momenti con qualcuno. Ogni tanto mi pare che le coincidenze s’impegnino a ricordarmi quanto sembra che l’abitudine mi induca a dimenticare. Fino a quando certi eventi avranno una tal presa su di me, io non sarò mai solo pur essendolo fisicamente. Anche stasera, dopo una prima udienza con la rete cigolante del mio letto, lascerò il compito di conciliarmi con il sonno all’immagine che ho incensato finora.

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15
Gen

Osaka

Pubblicato sabato 15 Gennaio 2011 alle 12:05 da Francesco

Din don, un’altra comunicazione di servizio. Sospendo temporaneamente il silenzio stampa (che si concluderà del tutto al termine della stesura del mio terzo libro) per annotare la mia terza esperienza nipponica in una lingua che non sia ideografica, in modo che sia fruibile a qualcuno a cui in fondo lo devo. Questo è la prima parte di una serie di appunti che redigerò durante la mia permanenza. In futuro questa premessa scomparirà.

Sono arrivato a Osaka l’undici gennaio. Adesso risiedo in un monolocale che ho preso in affitto per un mese dalle parti di Abeno, nella zona meridionale della metropoli. Questa è la terza volta che metto piede sul suolo nipponico e mi auguro che non sia l’ultima. Ho scelto di ritornare in Giappone poiché ho trovato un biglietto aereo piuttosto economico, altrimenti avrei optato per la Malesia e per Singapore.
L’atmosfera cosmopolita di Tokyo per me rimane insuperabile, tuttavia Osaka ha un suo fascino. Più decadente e nostalgica della capitale, l’antica Naniwa mi ricorda un po’ Seoul. Ho già cominciato a macinare molti chilometri e finora sono ricorso poche volte alla metropolitana. Ho visitato il museo della scienza, nei pressi della stazione di Nakanoshima e quello di storia, prospiciente il castello di Osaka, anch’esso meta del mio vagabondaggio istruttivo.

La mia dieta ormai è basata su nikuman e onigiri, tuttavia la mia linea non ne risente poiché ogni giorno macino chilometri su chilometri con lo zaino sulle spalle. Se il consumismo fosse misurabile in metri, probabilmente quello che si estende lungo Tenjimbashi-Suji per oltre due chilometri e mezzo con negozi, ristoranti e quant’altro, ne costituirebbe una delle massime espressioni.

Le mie camminate in terra straniera assumono sempre le proporzioni dell’esodo biblico. Sono passato anche dalle parti di Namba, dove mi sono tagliato i capelli. La scrupolosità e il tempo impiegato mi ha fatto domandare se il barbiere avesse alle spalle un passato da chirurgo e sentisse la mancanze di quelle giornate che forse aveva trascorso in gran parte tra una nefrectomia radicale e l’altra. Ho filmato qualcosa durante questi primi giorni a Osaka e ho montato velocemente i frammenti digitali: nell’immediato futuro mi riprometto di fare altrettanto.

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