Ho colto la lettura de “I meccanismi di difesa”, scritto a quattro mani da White e Gilliland, come un’occasione per passare in rassegna e approfondire dei concetti di cui ero già edotto, non ultimo quello di “permanenza oggettuale”, ovvero la capacità della quale i bambini sono sprovvisti fino ai diciotto mesi e la cui mancanza induce essi ad attribuire un’esistenza solo a quanto rientri nel loro campo visivo. Un altro punto capitale in apertura del testo riguarda la distinzione tra paura e angoscia con le loro differenti implicazioni, laddove la prima riguardi un pericolo concreto mentre la seconda abbia ragioni indefinite e una natura endogena.
Dopo queste e altre premesse nelle pagine si susseguono disamine ed esempi per tredici meccanismi di difesa di cui la rimozione figura come quello principale, difatti opera per escludere dalla coscienza un impulso insopportabile e il suo relativo ricordo, ma il materiale escluso (e anche questa nozione compone la parte introduttiva del libro) non ne decreta né ne riduce la portata, bensì lo tiene sotto custodia come se fosse un carcerato; a corredo di ciò aggiungo una celebre citazione di Freud che secondo me in una certa misura rimarca il concetto: “Le emozioni inespresse non moriranno mai. Sono sepolte vive e usciranno più avanti in un modo peggiore”.
Oltre alla rimozione le forme di difesa sono la conversione, l’inibizione, lo spostamento, il diniego, la razionalizzazione, la formazione reattiva, l’annullamento, l’isolamento dell’affetto, la regressione, la proiezione, il rivolgimento contro il Sé e la dissociazione: di queste tredici ve ne sono due (razionalizzazione e diniego) che fanno parte anche delle cosiddette cinque fasi del lutto, ma si tratta di una mia libera associazione più o meno corretta di cui il testo non fa menzione. Non è un volume corposo, consta di appena duecento pagine, ma tanto denso quanto utile per chi sia digiuno di tali nozioni e voglia meglio comprendere sé e gli umanoidi.
I meccanismi di difesa di Robert B. White e Robert M. Gilliland
Pubblicato giovedì 17 Febbraio 2022 alle 22:45 da FrancescoRicordi, sogni, riflessioni di Carl Gustav Jung
Pubblicato giovedì 1 Febbraio 2018 alle 23:52 da FrancescoDurante gli ultimi anni ho letto più parti della produzione saggistica di Carl Gustav Jung ed era dunque una mera questione di tempo prima che approdassi alle pagine della sua autobiografia.
In realtà ”Ricordi, sogni, riflessioni” travalica gli angusti confini di una silloge aneddotica e fornisce una parziale sintesi dei concetti di cui il pensiero junghiano è portatore, difatti alcuni di essi emergono dal testo tramite la rievocazione degli eventi che portarono al loro sviluppo.
Sotto l’aspetto nozionistico non vi ho trovato quasi nulla che già non conoscessi, tuttavia si è rivelata comunque una lettura interessante e l’occasione per un utile ripasso, inoltre vi ho respirato la tensione interiore (non mediata da un linguaggio simbolico, come ne “Il libro rosso”) che accompagnò Jung per l’intero corso delle sue ineludibili ricerche.
A questo proposito sono incorso nuovamente in un paragone che già mi rimase impresso quando lo lessi per la prima volta altrove, ossia quello tra Jung e Nietzsche: il primo riuscì a controbilanciare l’impeto della sua vita interiore grazie all’esercizio della sua professione medica e alla presenza della propria famiglia, a differenza del secondo che nella propria vita ebbe soltanto i suoi pensieri e di questi finì per essere l’insana vittima.
Gli appunti che ho vergato a mano su un mio caro quaderno hanno tirato fuori elementi per me nient’affatto inediti e in particolare i seguenti: l’importanza degli archetipi, il ruolo di anima e animus come mediatori con l’inconscio a seconda del genere sessuale, le posizioni sui sogni e la libido di Jung in contrasto con quelle di Freud, il Sé quale scopo dello sviluppo psichico e il carattere non lineare della sua (possibile) evoluzione, la definizione di psichiatria come una “espressione articolata della reazione biologica di cui lo spirito cosiddetto sano fa esperienza alla vista della malattia mentale”, le forti variabilità di psicoterapia e analisi che sono pari alle variabilità degli individui, l’importanza della storia quale ausilio della psicologia dell’inconscio affinché essa riesca ad aggirarsi tra gli archetipi e, inoltre, le proiezioni di cui soffrono i legami affettivi che ostacolano la realizzazione di sé e di una certa oggettività.
C’è tuttavia una prospettiva che non ho còlto in altri testi di Jung o di cui forse, colpevolmente, non ho serbato memoria, ovvero l’ipotesi secondo la quale sia lecito supporre che uno sviluppo della coscienza possa agire sull’inconscio così come quest’ultimo agisce sulla prima.
Freud riteneva la pulsione di morte un'ipotesi irrefutabile e il proprio pessimismo un risultato, a differenza dell'ottimismo dei suoi avversari che invece egli considerava una premessa.
Il principio di piacere è volto alla gratificazione immediata e al mantenimento di un basso livello dell'eccitamento, ma talora gli subentra il principio di realtà che dilaziona la gratificazione e si fa carico di una temporanea tolleranza al dispiacere per questioni di adattamento alle circostanze.
La pulsione di morte pare che sia la tendenza al ritorno allo stato inorganico, ovvero a quella fase primeva dell'evoluzione in cui la vita si instillò in una sostanza inanimata; una concezione del genere mette in discussione quella visione della vita che verte sulla ricerca dell'evoluzione, come nel perseguimento del superuomo di nietzschiana memoria, tuttavia è lo stesso Freud a sottolineare subito quanto possa risultare dolorosa la rinuncia a una credenza così consolidata. Fatico ad accettare in toto un tale postulato, ma escludo che la mia ritrosia sia d'ordine emotivo e la ritengo invece propria di un sano atteggiamento dubitativo. Invero dalla mia prospettiva atea non sarebbe per me gravoso accogliere l'idea di riassumere la vita nello scopo di morire, ma forse non ci riuscirei lo stesso in quanto mi sembrerebbe troppo bella perché fosse vera.
Alle luce di cotanta foschia il richiamo alla filosofia di Schopenhauer è un moto spontaneo a cui anche Freud fa cenno in un passo del suo scritto, precisamente quand'egli riporta le parole del filosofo tedesco sulla morte quale "vero e proprio risultato, e, come tale, scopo della vita".
Mi domando se Thanatos, la pulsione di morte, sia davvero latente in ognuno di noi, ovvero in ciò che Jung chiama inconscio collettivo; mi chiedo inoltre se i capitoli più neri della storia della civiltà, non ultimo quello odierno del fanatismo islamico, siano da attribuire alla manifestazione di questo principio che, in determinate circostanze e presso certi gruppi, non trova gli ostacoli del principio opposto, cioè di Eros, la pulsione di vita. Ecco dunque che dietro ogni massacro può essere scorto il tentativo di riportare tutta l'umanità a ciò che fu in principio poiché "gli esseri privi di vita sono esistiti prima di quelli viventi".
Sono un uomo, mi ritengo empatico in un giusto grado e mi limito al mero esercizio speculativo di considerare la violenza senza fine come una mera coazione a ripetere, ma non faccio mia una tale veduta poiché non ne avverto l'autenticità; d'altro canto penso che sia importante lo sforzo di sospendere talvolta ogni tipo di emotività, blanda o parossistica che sia, affinché la lucidità possa operare nelle migliori condizioni possibili come un chirurgo in un ambiente asettico.
Crisi esistenziale nel senso di vuoto
Pubblicato sabato 6 Settembre 2014 alle 18:05 da FrancescoDopo dieci anni la mia sublimazione è terminata e ora è come se dovessi combattere disarmato. Anche se continuo a correre e ad apprendere, non riesco più a dirottare in queste attività tutte quelle forze che invece esigono uno sbocco nella vita affettiva.
A trent’anni non so ancora cosa siano un bacio, un abbraccio, una scopata, non ho idea di come i sensi esultino nella piena complicità di due corpi. Non so cosa significa primeggiare nei pensieri di qualcuno, non conosco i brividi di un’intesa fisica e platonica. Posso contare su meno di dieci dita le volte in cui ho aperto il cuore, ma ogni volta ho pensato che ne valesse la pena e non me ne sono mai pentito. Potrei trovare dei rapporti carnali o delle amicizie femminili molto profonde senza troppi sforzi, ma mi deprime l’incompletezza che percepisco nei primi come nelle seconde e a questi rapporti imperfetti preferisco la solitudine perché mi nuoce di meno.
Per me è tutto o niente: io non conosco mezze misure ed è anche per questa ragione che ho sempre tagliato i ponti in maniera definitiva quando le cose non sono andate per il verso giusto. Un tempo mi bastava intensificare qualche allenamento o protrarre le mie letture oltre il solito per trovare subito sollievo e per instradarmi verso nuovi orizzonti, ma ora tutto ciò non funziona più e Freud aveva ragione: la sublimazione non può durare per sempre.
Non so dove sbattere la testa e sono in balìa degli eventi. Cerco di pensare il meno possibile e tendo gli addominali quando sento le fitte della frustrazione. Ovviamente questo stato emotivo m’indispone e così, anche se dovesse capitarmi l’occasione di conoscere una ragazza, non sarei in grado di mostrarmi per quello che sono, ma nel migliore dei casi potrei dare solo una pallida imitazione di me stesso. Non ho mai usato droghe, non ho mai fumato, non ho mai pregato, non ho mai assunto psicofarmaci e non ho mai bevuto alcolici, perciò non ho anestetici di alcun tipo ed è solamente la corsa che mi ha permesso di alzare la mia soglia di sopportazione del dolore.
Questa crisi esistenziale non dipende dall’ultimo rifiuto che ho ricevuto, bensì dal modo in cui mi ha indotto a fare un bilancio della mia esistenza e dalla sua concomitanza con la perdita della mia capacità di sublimazione.
Non c’è nessuno che possa aiutarmi perché devo uscirne da solo, ma è come se avessi le mani legate e qualche pensiero oscuro trova uno spazio in me che prima non avrebbe mai reclamato.
Ci sono parole note che mi ripeto : “Per te non sorga il giorno che alla tua gioia sia compenso di dolore […] sii forte e sereno anche nei giorni dell’avverso fato”.
Mi sento lo spettro di me stesso ed è come se non fossi mai esistito. Mi ritrovo ad affrontare ciò che sono riuscito solo a contenere per lungo tempo. Non trovo un appiglio, una direzione, fosse anche quella sbagliata. Ho soltanto la mia lucidità, tuttavia è anche attraverso quest’ultima che provo per intero le sferzate del senso di vuoto. Non mi piace il vittimismo e non voglio essere ingiusto verso me stesso, ma non posso neanche sottovalutare la portata di tutto quello che mi sta succedendo dentro. Ancora una volta Eros e Thanatos lottano instancabilmente.
A me pare che la crescente comprensione dei miei processi interiori mi appaghi in misura assai maggiore delle fantasie che costituiscono gli scheletri dei miei desideri più reconditi. In questo confronto di astrazioni noto un dominio della razionalità che per me non è affatto la traduzione di una resa incondizionata al vuoto della mia sfera emotiva, bensì un’ulteriore esaltazione delle mie potenzialità affettive.
È come se il tempo mi levigasse la personalità. Credo che in parte il mio equilibrio dipenda dalla disponibilità ad ascoltare le mie istanze e dalla capacità di spiegare a me stesso come mai non sono ancora in grado di accoglierle. In tutto ciò noto anche un legame stretto con l’evoluzione della mia idea di morte. Non in qualche trattato fumoso o dalle labbra ormai automatizzate di un decano della psicoanalisi, ma in me stesso ho avuto modo di capire quanto Eros e Thanatos siano legati a doppio filo. È come se in me quell’intuizione di Freud trovasse una sintesi sempre più in debito di tensione, però io non so quanto sia autentica né se abbia un’origine patologica. Considero la mia affettività in continua evoluzione benché non abbia mai avuto concretizzazioni e non mi sento privato di qualcosa. Mi vedo come un individuo in ritardo su una tabella di marcia che potrei forzare solamente se sapessi mentire a me stesso con la sufficiente convinzione o se avessi una lucidità inferiore a quella che invece cerco d’impormi tramite la scarnificazione dell’Io. Non compio sacrifici, ma faccio i miei interessi sebbene all’apparenza le mie azioni (e soprattutto la mia inerzia affettiva) diano l’impressione di un autolesionismo emotivo. Ho un vantaggio che sembra una condanna, ma non me ne preoccupo perché non devo mica venderlo in un bazar.
Qualche settimana fa ho letto Lezioni spirituali per giovani samurai di Yukio Mishima, una raccolta di scritti che comprende anche il proclama con cui egli tentò di risvegliare lo spirito giapponese prima di suicidarsi col rito del seppuku. Anche se in passato ho cercato di entrare nell’esercito io mi considero lontano dal militarismo e non scarificherei mai la mia vita per un ideale, però trovo qualcosa di affascinante nella coerenza di Mishima. Qualche volta mi chiedo se egli si sia ucciso per rispettare davvero il suo pensiero e dare un esempio o se invece egli abbia colto l’occasione in modo da mascherare con l’eroismo una sofferenza insopportabile.
Vorrei appropriarmi dell’essenza del bushido perché credo che soltanto una piena accettazione della morte possa consentire di vivere davvero, ma non ne sono all’altezza, almeno non ancora. Per quanto io mi sforzi, la mia è e resta una mente strutturata in modo occidentale, perciò non posso pretendere di cambiarla con l’autoconvinzione. Non mi spaventa la morte di per sé, ma il dolore che può precederla. Non temo di assecondare quella pulsione che secondo Freud vuole ripristinare lo stato inorganico, ma è il passaggio che temo, ovvero l’attraversamento di quella che qualcuno ha descritto come la porta dello spavento supremo. In tutto questo c’è anche un richiamo al nichilismo, più al concetto di superuomo che all’inclinazione distruttiva, infatti vi vedo la necessità di superare sé stessi per accettare serenamente di superarsi. Malgrado il mio forte ateismo, ho ragione di sospettare che a livello inconscio agisca ancora in me qualche elemento della cultura cristiana, forse interiorizzato in tenera età e sedimentatosi contro la mia volontà. Quando mi confronto con il pensiero della morte mi rendo conto di quante attività diurne siano svolte con l’unico scopo di scacciarlo, però io non voglio consolazioni né distrazioni così forti da negarmi un disagio talmente propedeutico per la dissoluzione.
Non elogio la morte, non ne faccio un totem adatto alle provocazioni adolescenziali, ma la porto al giusto grado d’attenzione per non farmi trascinare via dalle futilità quotidiane a cui talvolta io cedo troppo terreno. Non ho fretta di raggiungere la fine, ma non voglio illudermi che non ve ne sia una. Nella sua apparente mancanza di senso, nella sua antica efferatezza, forse anche nella sopravvalutazione stereotipata di cui è stata vittima, la cultura giapponese, più d’ogni altra, mi ha offerto una visione in cui in tempi passati hanno saputo unirsi bellezza, morte e lucida follia. Un altro accostamento che sono solito fare è quello legato ad un certo satanismo, nel quale il suicidio è una libera scelta a cui ricorrere una volta che sia stato raggiunto il momento apicale della propria vita, perciò ne consegue un esercizio del libero arbitrio lontano dalla disperazione. Mi domando tuttavia come si possa certificare l’autenticità di un gesto del genere, infatti il mio sospetto è che talvolta dietro scelte apparentemente lucide e ammirevoli (almeno dal mio punto di vista) vi siano ragioni più prosaiche. Io vorrei invecchiare bene e vivere oltre i cent’anni, ma potrei rinunciare all’eventuale longevità se in me dovesse farsi strada la capacità di vivere al di sopra della mediocrità in cui sguazzo assieme al resto della ciurma. Un discorso del genere pare contorto e contraddittorio, ma io cerco di andare al di là di quanto mi è stato insegnato, al di là di quanto non ho avuto l’accortezza di disimparare, al di là di dell’attaccamento parassitario alla vita a cui sono omologato. Non è facile esporre un tema del genere senza essere inquadrati in una spirale depressiva, in una sterile provocazione o in un esercizio di stile, ma fortunatamente tutto ciò è autoreferenziale e ha un fine migliore dei preconcetti di cui può essere bersaglio, più precisamente ha una fine.
Ho quasi terminato la lettura e lo studio de “La scoperta dell’inconscio”, mille paginette divise in due volumi che illustrano la storia della psichiatria dinamica. Avevo davvero bisogno d’affrontare un’opera del genere per approfondire alcune nozioni e per schematizzarle in ordine cronologico. Negli ultimi capitoli mi sono reso conto di quanto abbiano inciso i vissuti personali degli psichiatri nell’elaborazione dei loro sistemi. Se Freud fosse nato e cresciuto in una famiglia come quella di Adler forse egli non avrebbe mai ideato il complesso di Edipo.
Il mio interesse per la psicologia del profondo non è mai stato accompagnato dalla pretesa di trovare una via maestra che potesse risultare valida per ogni individuo. Poiché la psicoanalisi è nata dall’autoanalisi di Freud e la psicologia analitica di Jung ha tratto molto dalla cosiddetta nekyia del suo creatore, anch’io, nel mio piccolo, per scopi introspettivi ottengo parecchio da un attento esame della mia persona, ma attingo pure e a piene mani da alcuni concetti dei luminari succitati oltreché dall’opera di Heinz Kohut: inoltre, benché io non abbia ancora letto nulla della sua bibliografia, ho tratto degli spunti piuttosto interessanti dagli interventi di Eugenio Borgna. Per conoscere me stesso credo che l’introspezione sia fondamentale, tuttavia non la reputo sufficiente ed è per questa ragione che vedo nelle neuroscienze una risorsa importante al fine di oggettivare alcune risultati del processo di autoanalisi. In questo ambito non riesco proprio a separarmi da un concetto esoterico che non ho mai deriso, ovvero quello del ricordo di sé nella dottrina di Gurdjieff, ma l’atto di essere presenti è altra cosa rispetto all’introspezione e forse ha una valenza noetica in senso aristotelico a differenza della seconda che invece è discorsiva. Quest’epoca offre strumenti potenti per la conoscenza di sé stessi, però in taluni casi possono rivelarsi delle armi a doppio taglio. Il simpatico Nietzsche in “Così parlo Zarathustra” fece quel viaggio interiore di cui più tardi si rese protagonista Jung nella suddetta nekyia, tuttavia il primo impazzì poiché non aveva nulla e nessuno al mondo, il secondo invece ne uscì più forte perché grazie alla famiglia e al lavoro fu in grado di mantenere il contatto con la realtà.
La storia mi conferma qualcosa che in passato ho sottolineato più volte sulla base della mia esperienza personale, ovvero la pericolosità di un’introspezione che si arresti in dei punti critici. Forse la superficialità che spesso viene messa all’indice, in alcuni casi è meno deleteria di una introspezione incompleta: quasi una difesa naturale. Oltre un determinato limite, immagino che lo sforzo per conoscere sé stessi sia irreversibile e io penso di averlo già superato da tempo senza però pentirmene.
I tipi di memoria, l’ippocampo, l’intuizione…
Pubblicato mercoledì 25 Maggio 2011 alle 01:39 da FrancescoDa quanto ho appreso, la memoria può essere di tre tipi: semantica, procedurale ed episodica. Nella prima sono stivate quelle informazioni che con doverose virgolette si possono etichettare come “oggettive”: queste comprendono ad esempio le regole grammaticali e le leggi fisiche che vengono apprese durante l’interazione con il mondo.
La memoria procedurale invece riguarda le capacità motorie, perciò contiene le informazioni che determinano la coordinazione dei movimenti di routine e quelle abilità che s’imprimono talmente a fondo da non sembrare neanche delle procedure riattivabili all’uopo. Insomma, in questo tipo di memoria la ripetizione incide la prassi. Nel libro da cui ho appreso queste nozioni è riportato un aforisma divertente a proposito dei contenuti della memoria procedurale, perciò io a mia volta lo riporto tra queste righe: “Difficili da apprendere e difficili da dimenticare”.
Per delineare efficacemente le differenze tra memoria semantica e memoria procedurale il testo propone di prendere in esame la differenza che intercorre tra la competenza di un individuo che pratica un determinato sport e la conoscenza astratta che un altro individuo ha di quella stessa attività. Devo appuntare qualche altra parola sulla memoria procedurale. Quest’ultima agisce in maniera implicita e ad esempio, per esperienza diretta, posso confermare che quando uno si trovi a riflettere sull’esecuzione dei propri movimenti questa possa risentirne negativamente. Nonostante ancora embrionale, mi ha assai affascinato l’ipotesi secondo la quale certe reazioni emozionali di tipo automatico funzionerebbero come memorie procedurali.
I ricordi autobiografici sottostanno alla memoria episodica e anatomicamente questo terzo tipo di memoria chiama in causa l’ippocampo. Il contenuto della struttura summenzionata prevede che il passato venga risperimentato ed esige quindi che un determinato evento venga rivissuto affinché diventi cosciente. Alla luce di ciò, per quanto m’è dato comprendere, tutte quelle che gli psicoterapeuti chiamano memorie inconsce in realtà presenterebbero soltanto delle somiglianze con la realtà degli eventi passati che invece viene loro attribuita.
Ho appreso ulteriormente come gli esseri umani spesso siano in balìa di influenze inconsapevoli. La memoria a lungo termine contiene e segreta le fonti che condizionano le convinzioni, perciò in questo caso la memoria episodica ne resta fuori poiché sua prerogativa è la consapevolezza. Sempre in merito alla memoria, ho letto che alcuni ricordi non possono essere recuperati poiché in origine non sono stati codificati in una forma accettabile dalla memoria episodica.
Tra le patologie legate ai problemi mnemonici mi ha colpito la cosiddetta psicosi di Korsakoff che prevede un assemblaggio improprio dei ricordi dell’individuo. Questa patologia spesso è dovuta all’alcolismo cronico e alla carenza di vitamina B che è strettamente correlata all’abuso di alcolici. La sindrome di Korsakoff negli adulti presenta somiglianze con le reminiscenze dei bambini d’età inferiore ai due anni, periodo durante cui la corteccia frontale e l’ippocampo non hanno ancora raggiunto un determinato sviluppo. Qua è possibile collegare il concetto di rimozione di Freud alla difficoltà di recupero delle memorie infantili a causa di come queste vengono registrate in un primo tempo e di come poi si cerchi di rievocarle successivamente in una forma assai diversa. I ricordi rimossi pur non riuscendo ad affiorare nella memoria episodica continuerebbero a influenzare il comportamento tramite gli altri due tipi di memoria, ovvero quella procedurale e quella semantica, con tutti i condizionamenti che ne derivano sotto la soglia della coscienza…
Infine voglio annotare due righe sul test del gioco d’azzardo dello Iowa. Da questa prova sono emersi dati interessanti. Due gruppi di partecipanti sono stati chiamati a scegliere due mazzi tra i quattro disponibili per giocare a carte. Due mazzi consentivano vincite ingenti e perdite della medesima portata, mentre gli altri due mazzi permettevano di vincere cifre modeste a fronte di perdite trascurabili, inoltre a differenza dei primi garantivano un guadagno a lungo termine.
Tutti i partecipanti hanno cominciato con i primi mazzi, ma gli individui sani dopo poco hanno optato per i secondi e tra questi v’erano anche giocatori d’azzardo accaniti. I partecipanti affetti da problemi neurologici invece hanno insistito sui primi mazzi.
Da questo esperimento s’è evinto che vi è un avvertimento emotivo che i pazienti neurologici con determinate lesioni riescono ad avvertire soltanto in ritardo, ovvero quando hanno già compiuto la loro scelta: in costoro viene meno la capacità di predire il risultato delle loro azioni.
Dai risultati del test suddetto è possibile notare come determinate scelte s’affidino all’intuizione laddove pare che la razionalità sia insufficiente. In realtà alcune decisioni vengono prese dalla sinergia delle informazioni cognitive e di quelle affettive. Tutto ciò seduce la mia curiosità.