Conosco un bell’imperativo di Manlio Sgalambro al quale cerco di attenermi: “Tutte le cose si devono intendere a partire dalla fine del mondo”. In conseguenza di tale assunto mi considero un testimone indiretto della presunta utopia del multiculturalismo che giunge ai ferri corti con la storia e assisto anche al grottesco stupore di chi se ne meraviglia o di chi vi indugia.
Quantomeno un tempo quella sciagura fondatrice dell’Europa che è il cristianesimo mostrava scudi crociati e alzava le else, ma poi una certa efferatezza è venuta progressivamente meno e un illusorio terzomondismo (la guancia è stata porta un po’ troppo…) ha avuto la meglio sulla ragion pratica (o real politik). Tutto nell’ordine delle cose, tutto già visto; déjà-vu, appunto. L’eterno ritorno dell’uguale. Mi trovo in un clima da fin de siècle a inizio millennio. Può essere il momento giusto per riscrivere l’opera omnia di Nietzsche e spacciarla come inedita, ma ad ogni modo io tento di restarmene a seimila piedi al di sopra del bene e del male.
Accadrà di nuovo quanto è successo per la seconda volta a Parigi e chissà che un domani non mi ci ritrovi in mezzo. Per me alla violenza bisogna rispondere con altra violenza e non mi curo di come questo semplice concetto presti il fianco agli alti ragionamenti di certuni, tuttavia se fossi convinto della maggiore efficacia di altre soluzioni non esiterei un momento a chiamarle in causa in questa mia trascurabile visione delle cose: mi reputo un individuo pragmatico, mai ideologico. Odio ripetermi e non per la ripetizione in sé, ma quando credo che questa si faccia stantia e di conseguenza non mi avventuro in analisi interdisciplinari che non spostano neanche una foglia. La breve storia umana è un florilegio di situazioni peggiori, ma la brutalità è resa tale dalla sua vicinanza temporale e non tutti sanno inquadrarla dentro cicli storici, in quell’incessante andare e venire di tendenze che come una cieca volontà afferma tutte le enantiodromie.
Ennesime considerazioni inattuali
Pubblicato domenica 15 Novembre 2015 alle 16:46 da FrancescoGli esiti inaspettati delle elezioni hanno provocato una frattura profonda in Italia. Il vuoto di potere è uno spettacolo magnifico ed emana un’atmosfera da fin de siècle. Non coltivo illusioni e mi limito a vedere ciò che ho contribuito a provocare con il mio voto. Né nel mio armamentario né tra la mia mobilia figura la speranza, ma il clima elettrico di queste ore mi fa illuminare d’immenso. Adesso sono ancora di meno coloro che possono considerarsi al sicuro in quanto s’è allargato un destino comune. Le circostanze attuali possono costituire l’inizio di una rinascita o l’allungamento di una notte drammatica a cui comunque seguirà un’alba: per me è tutta una questione di tempistiche poiché dubito nella costanza del male quanto in quella del bene.
L’incertezza stringe il futuro e soffoca il presente. Io sono sereno perché mi sento pronto ad affrontare qualsiasi evenienza, anche quelle più terribili per un individuo che sono del tutto estranee agli scenari summenzionati. Non devo consolare nessuno e a nessuno devo dare conto, ma ho anche l’abitudine di essere sincero con me stesso e non posso negare che forse mi piacerebbe avere delle responsabilità verso terzi. La fatiscenza, il crollo e la macerie, la rifioritura, il ritorno della primavera e la calma dopo la tempesta: questi cicli non bastano a fare una collana degna del collo di Gaia. Dalle parole che mi ostino a vergare a tal guisa non traspare l’entusiasmo monumentale della mia vita interiore, ma rinuncio a risultare potabile e mi accontento di esserlo per me stesso.