19
Ago

La fenomenologia dello spirito

Pubblicato lunedì 19 Agosto 2024 alle 20:19 da Francesco

La fenomenologia dello spirito è un’avventura gnoseologica e un allenamento per la capacità d’astrazione, ma per me è anche uno dei pochi scritti verso cui ho un timore reverenziale e una ciclica necessità di tornarci sopra. Hegel meno d’altri si presta ad amputazioni aforistiche, il suo è un impianto troppo complesso per le esternazioni mestruate, perciò mi ci misuro sempre senza la pretesa di conservarne una comprensione integrale: è lo stesso approccio che riservo a Kant e ad Heidegger, altre frequentazioni abituali su cui faccio prevalere il principio di realtà.
La filosofia ha un’applicazione pratica che sfugge a quanti la ritengano fine a stessa e la riprova è anche nelle vite irrisolte dei suoi detrattori: è stato il mio spirito d’osservazione che mi ha condotto verso lo spirito assoluto, una sorta di “ragion pratica” e non un nozionismo bulimico. Per me meglio guadagnare tempo perdendolo con morti illustri che perderlo e basta giustapponendo monologhi nell’illusione di un dialogo. Cosa avranno mai da dirsi i vivi, boh!

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21
Giu

La morte e i sogni di Marie-Louise von Franz

Pubblicato venerdì 21 Giugno 2024 alle 23:16 da Francesco

Nella morte ravviso un momento capitale in ogni sua accezione, dalla più figurata a quella letterale, perciò nutro un “vivo” interesse verso questo orizzonte sul quale tutto si staglia. Defungere riesce a tutti e quindi viene da pensare (finché è dato farlo) che la vera inclusione si dia nella dissoluzione organica. Nel Fedone Platone considera la filosofia la via regia per imparare a morire e ne fa suo scopo precipuo, asserzioni queste che fanno il paio con altre tradizioni sapienziali di un Oriente plurimillenario: per mia parte ho visto le mie convinzioni salire di loro sponte su questo carrozzone metafisico.
Conoscevo la von Franz come allieva junghiana, ma quando mi sono imbattuto in questo suo scritto ne ho subìto l’immediata fascinazione. È suggestiva l’ipotesi secondo cui sul punto di morte vengano meno i limiti dello spaziotempo e si apra una realtà superluminale in cui la sincronicità assurga a nuova regola. Ne “La morte e i sogni” la von Franz descrive e analizza casi in cui il mondo onirico annuncia l’imminente fine della dimensione fisica, rendendo così possibile un accostamento del testo alle esperienze di premorte riportate altrove e agli studi di psicotanatologia della Kübler Ross, tra l’altro anch’essa citata nel libro.

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22
Feb

La parte maledetta di Georges Bataille

Pubblicato giovedì 22 Febbraio 2024 alle 18:21 da Francesco

Nelle frequentazione postuma e cadaverica col pensiero di Georges Bataille ho trovato una certa consonanza, ma anche un ulteriore amico d’avello. Più che le carni, a me strappa un sorriso e un cenno d’assenso la sua visione della manducazione, della riproduzione sessuata e della morte come dei lussi: la prima perché evidenzia la maggiore complessità della catena alimentare ed energetica negli animali onnivori, la seconda in analogia col fenomeno della scissiparità e l’ultima, la morte, intesa quale maggiore tra i lussi in quanto dispendio rivelatore e trascendente. La cornice ovviamente non è quella della morale: è questione altra.
A mio parere ancor oggi si dimostra audace e suggestivo il concetto di dépense, così come attuali sono le implicazioni politiche ed economiche di cui è portatore, ma per me risultano più stimolanti le sue premesse etnografiche e la conclusione di Bataille col senso d’appartenenza a un certo misticismo. Mi vedo già fare un uso improprio anche di questo impianto speculativo per rivendicare e celebrare le beate distanze dai peggiori gravami dello zoon politikon.

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28
Gen

Prolegomeni ai paralogismi di puerpere e morituri

Pubblicato lunedì 28 Gennaio 2019 alle 21:16 da Francesco

“Prolegomeni ai paralogismi di puerpere e morituri” è il mio quinto libro, ma anche il primo saggio: lo considero un vertice solipsistico e di conseguenza non potrebbe avere lettori neanche se potesse averne davvero. Se dovessi o volessi spiegarmi meglio prenderei in prestito il concetto di aseità dalla scolastica medievale, ma non intendo ritrovarmi con un’esposizione debitoria verso il passato.
Non posso cercare l’attenzione di chi si pulirebbe il culo coi rotoli del Mar Morto se solo fossero più economici della concorrenza, ma neanche quella di chi pensa a Shiva e Parvati come antesignani di Sandra e Raimondo.
Il logos ha limiti evidenti e sovente la reciprocità o anche la sola ricerca di una lieve risonanza ne causano un ulteriore restringimento. Est modus in rebus.
Secondo me un confronto autentico lo si può trarre dal parziale retaggio di alcuni pensatori che ebbero un cognome da Bundesliga: defunti e persuasivi.
C’è chi elude l’idea della morte con la fabbricazione di prole in un mondo sovrappopolato, con buona pace di Robert Malthus, e trovo questo espediente legittimo come il doppione di una figurina, ma dubito della sua efficacia: preferisco il “Si impersonale” di Heidegger alla paternità.
L’eros può risolversi in una fruizione eidetica qualora non abbia la velocità di fuga necessaria per uscire dall’orbita pulsionale, ovvero quando il gioco non valga la candela né l’emulazione di un missionario: una regolare masturbazione agevola l’esistenza più di quanto possano fare le pretese venefiche di un certo imprinting. La sublimazione è roba da ricchi di spirito e non ha tasse di proprietà.
È vero, talora la volpe non arriva all’uva, ma nulla le vieta di riprovare con la mela adamitica.
C’è un po’ tutto qui, compreso il flusso di coscienza e l’assenza di un vero interesse per Joyce. Le mie sono parole al vento come quelle che pronunciò Ulisse al cospetto di Eolo.

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24
Ago

Fedone

Pubblicato venerdì 24 Agosto 2018 alle 03:28 da Francesco

Attendevo il kairos per leggere il “Fedone” di Platone e il momento opportuno è giunto in una notte di mezza estate senza ingerenze shakespeariane. Il dialogo mi ha trasmesso una balsamica accettazione degli eventi e certe arguzie maieutiche mi hanno strappato più di un sorriso. Non ho mostrato grande interesse per le questioni dell’anima, quelle in cui Sìmmia e Cebète avanzano dubbi sulla natura e l’indistruttibilità di quest’ultima, bensì mi sono deliziato con l’imperturbabilità di Socrate dinanzi all’imminenza del suo aperitivo di cicuta.
Secondo me il clima di questo scritto costituisce un esempio primevo della “destinazione tanatologica della filosofia”, così come riporta una nota del testo, ovvero quella che io ancor oggi reputo la meta capitale di tale pratica: imparare a morire. Gli spunti ivi presenti non hanno nulla di esoterico, quantomeno non nella degradata accezione degli ultimi decenni, ma neanche in quella letterale poiché con una esse in più al massimo possono essere essoterici, cioè di pubblico dominio; una scrematura avviene invece con la sua comprensione: quand’essa risulti soltanto scolastica o accademica credo che in qualche misura ne vada persa la parte migliore, quella di cui in certe condizioni si può persino fare esperienza.
Già edotto da me stesso anni fa in merito ai molteplici concetti di Platone, non ho quindi trovato stimolante la rilettura di quanto riguarda l’Iperuranio, l’anamnesi, l’analisi dei contrari e il tentativo di conciliare l’impianto eracliteo con quello di Parmenide, però mi è piaciuto il rimando alla dottrina pitagorica della metempsicosi in quanto conferisce un ulteriore slancio a quella tensione spirituale di cui il Socrate platonico è reso sommo interprete.

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9
Dic

Essere e tempo di Martin Heidegger

Pubblicato venerdì 9 Dicembre 2016 alle 13:23 da Francesco

Mi è occorso circa un mese per leggere e studiare “Essere e tempo” di Martin Heidegger, testo da cui mi ero ritratto qualche anno fa dopo lo sciagurato incontro con l’edizione di Mondadori, tuttavia ho optato per un suo secondo approccio quando, in quel di Torino, mi è capitata fra le mani la nuova edizione di Longanesi che si basa sulla storica traduzione di Pietro Chiodi.
Non che prima l’esistenzialismo o i concetti della filosofia di Heidegger mi fossero estranei, però ne lamentavo una visione d’insieme che fosse più organica. Un testo di questa portata richiede anzitutto una minima padronanza delle espressioni che sono state coniate all’uopo, talora ex novo da Heidegger stesso, nonché di quei termini ai quali egli dà accezioni diverse da quelle che sono invalse: ovviamente tutto ciò con lo scopo di superare i limiti linguistici.
“Gettatezza”, “intratemporalità”, “essere-nel-mondo”, “deizione”, “poter-essere”, “essere-per-la-morte” e il resto del vasto armamentario polisemantico che un’ardua ma efficace traduzione ha comunque reso accessibile anche a chi, come il sottoscritto, non conosce il tedesco. V’è un’intricata rete di rimandi che rende tutt’altro che facile l’assimilazione di quest’impianto filosofico, ma d’altronde non può essere altrimenti ed è come se questa stessa difficoltà ne fosse una parte costituente. Per quanto ostica, la lettura di “Essere e tempo” mi ha mostrato tutta la sua imponenza, però non si presta a quella dissezione aforistica che rende fruibili altri pensatori, ancorché al costo del loro pensiero. Pare che Nietzsche filosofasse con il martello, invece Heidegger, a mio avviso, lo fa con lo stesso trasporto con il quale un anatomopatologo redige un referto, ma proprio le analisi asettiche e lo stile didascalico del secondo mi catturano più delle evocazioni letterarie del primo. È pure vero che l’ontologia ha per sua natura un tratto che non agevola un certo tipo di digressioni, ma anch’essa può avere i suoi momenti di prosa.
Nel concetto di “essere-per-la-morte” ho rinvenuto una vaga affinità con un’idea che da tempo albergava in me, sebbene io vi sia giunto per altre vie e ne abbia raccolto solo una forma grezza. Di primo acchito il postulato della “deiezione” assomiglia a una delle tante critiche che taluni, a torto o a ragione, muovono puntualmente verso il cosiddetto volgo, però non è tale perché si trova su un piano diverso da quello in cui abitualmente scivola l’alterigia in materia di società. Uno dei cardini di “Essere e tempo” risiede nel concetto di Cura e nella sua immediata suddivisione tra prendersi-cura degli enti e l’aver-cura degli altri, anche se a me questa pare che sia una pietra angolare solo perché dev’esserlo per forza di cose: e per cose non intendo semplici-presenze. Ammesso che il punto di partenza sia l’Esserci nelle sue modalità di essere, ovvero autentica o inautentica a seconda che la chiamata della coscienza sia accolta o meno, uno dei punti di arrivo (seguendo l’ordine dell’esposizione) non può che essere la temporalità da cui deriva il concetto ordinario di tempo; è a tal proposito che verso la fine del libro ho letto un passaggio per me fondamentale: “Il prendersi cura quotidiano trova il tempo presso l’ente intramondano che incontra”.
In quanto ho appena scritto si staglia la tirannia del Si impersonale, però è improprio qualsiasi parallelismo con quel vago desiderio di affrancamento da uno stato non meglio precisato che si riscontra altrove, difatti Heidegger si astiene da giudizi di valore, o almeno io non ne ho colti.
Non si possono riassumere cinquecento pagine di una simile portata in poche righe dall’incerta successione, tuttavia ne bastano anche di meno per incensare un testo capitale nella filosofia del novecento e di cui ancor oggi si sente la forte eco. Non m’illudo certo che io abbia fatto del tutto mia quest’opera, per altro incompleta e gravata dal peso dei miei numerosi post-it, ma ne ho ricavato abbastanza per compiere un ulteriore balzo esistenzialistico verso Sartre.

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27
Set

Un paio di Adelphi

Pubblicato martedì 27 Settembre 2016 alle 20:43 da Francesco

A pagina centoventicinque de “La morte del sole” di Manlio Sgalambro è scritto quanto segue: “Noi non siamo figli del piacere dei nostri genitori, ma della loro ignoranza del piacere”.
In questo breve passaggio ho trovato una sintesi perfetta di cui ero in cerca da tempo e che io stesso non sono mai riuscito a coniare con altrettanta efficacia.
Nietzsche scrisse “La nascita della tragedia”, io invece potrei intitolare il mio prossimo saggio “La tragedia della nascita” perché è così che considero qualsiasi aborto mancato.
Quando mi complimento per un nuovo nato lo faccio solo come gesto pro forma, giusto per non aprire delle parentesi antipatiche in contesti inadeguati, ma spesso riesco a scongiurare anche questa finzione.
Non scado in facili stereotipi ed è per tale ragione che da qualche parte (ancora in itinere) io affermo: “La vita vale la pena di essere vissuta, ma non data”.
Non ho mai trovato un testo di Sgalambro nel quale vi fossero derive consolatorie ed è proprio un altro passaggio de “La morte del sole” che mantiene la barra dritta: “Se si dà il vero non si dà il bene, perché il bene riempie il vuoto della verità; non appena però il vero appare, il bene non ne sopporta la vista. Questo dileguarsi del bene davanti al vero è il pessimismo”.
Il testo di Emanuele Severino invece ha un taglio più accademico, eminentemente filosofico ed è anche lettura difficile per le continue astrazioni che ne richiede la sua piena comprensione; non è possibile scriverne neanche due righe poiché a mio avviso si presta poco a qualsiasi genere di accenno: o tutto o niente. Per chi ama Heidegger (magari prendendo la rincorsa da Parmenide) con Severino si trova a casa (o quasi).

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1
Feb

Del correre e del conoscere

Pubblicato domenica 1 Febbraio 2015 alle 18:57 da Francesco

Quest’oggi ho corso per trenta chilometri in mezzo alla neve e al fango, ma rimando ad un altro momento il resoconto della gara e mi limito a prendere spunto dai pensieri che l’hanno scandita.
Un tempo correvo per compensare le mie mancanze affettive e in questo modo riuscivo a vivere bene nel deserto emotivo in cui ancora dimoro, poi la sublimazione è terminata e sono cambiate le ragioni delle mie falcate. Mi sono reso conto che adesso corro per imparare a morire, cosicché al momento della mia ora io non sia del tutto impreparato, però auguro a me stesso di vivere a lungo e soprattutto bene! Quest’ultimo è un auspicio che rinnovo di tanto in tanto e dunque spero di potermelo ripetere molte altre volte ancora, ma allora dovrei augurarmi lo stesso per la speranza di ripetere l’auspicio di cui sopra: in realtà sono più semplice di quanto appaio. 
Platone stesso afferma nel Fedone che la “filosofia è imparare a morire” e Seneca si occupa di quella che egli chiama ars moriendi, perciò ormai asservisco la corsa e i suoi sforzi a questo tipo di studio: mi occupo della fine. Qualche mese fa ho attestato la scomparsa della sublimazione e già allora sapevo che qualcos’altro le sarebbe subentrato: adesso la sostituzione è chiara.
Oltre a macinare chilometri continuo ad accumulare nozioni, però non credo che l’aumento del bagaglio culturale sia necessariamente un bene e mi sembra che non di rado tale incremento abbia una spinta vanesia quanto quella che induce certuni (compreso il sottoscritto) a lavorare sull’ipertrofia muscolare. Ripeto: sono più semplice di quanto appaio. Anche a Seneca era invisa un certo tipo di conoscenza e c’è un passaggio di una sua lettera in cui secondo me lo dichiara in modo efficace: “Voler conoscere più del necessario è una forma di intemperanza. Che dire poi di questa moda che ci fa seguire le arti liberali e ci rende importuni, prolissi, intempestivi e vanesi e ci ci fa trascurare il necessario perché abbiamo imparato il superfluo?”.

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