Mi sento sospeso su un’ulteriore fase di transizione, ma non riesco ancora a capire quale piega stiano per prendere gli eventi. Non temo il futuro e me ne curo solo nella misura in cui la mia premura mostri un’attendibile efficacia. Nella mia mente è vietato l’ingresso alle fisime e in effetti almeno a livello conscio non ve ne transita alcuna, però non è sempre stato così e quindi so apprezzare l’attuale ordine in cui versa la suddetta.
Ricordo come anni fa già attraversai alterni periodi di tranquillità interiore e di come essi si rivelarono l’humus ideale su cui mi fu dato di sviluppare vari aspetti della mia persona in una beata solitudine, ma all’epoca tale condizione non ebbe modo di assumere una piena stabilità poiché in quanto individuo non ero risolto in un certo grado e presentavo difetti strutturali: ero ancora un prototipo.
Oggi la mia visione d’insieme è più completa e la mia esistenza ha un baricentro più saldo benché la sua matrice sia strettamente endogena. Spesso mi addormento bene e la mattina scendo dal letto col piede giusto, qualunque esso sia. Ho quasi trentacinque anni, però non so cosa significhi quest’età né cosa comporti: non le appartengo così come il mio nome non appartiene a me.
A volte incontro al mio interno la latente e naturale inclinazione di riscoprirmi nella reciprocità con una ragazza, però mi limito a osservare l’occasionale passaggio di questa istanza e non faccio nulla per darle seguito poiché le premesse sono insufficienti persino per la più innocua delle fantasie. Anche la mia inazione è cambiata col tempo ed è divenuta più autentica sebbene i suoi effetti distanziatori siano gli stessi di sempre, come in una sorta di prossemica relazionale. Avanti, march.
Ho ritrovato alcuni appunti di sette anni fa, precedenti persino all’apertura di questo schedario introspettivo. Il mio stile stentava a trovare la propria identità e anch’io ero impegnato in una ricerca analoga. All’epoca non mi sentivo ancora a mio agio con la solitudine e attraverso una scrittura approssimativa tentavo di esprimere il mio malessere con un sussiego che oggi trovo tremendamente ilare. I falsi problemi di un tempo adesso mi sembrano sciocchezze, tutt’al più eleggibili come oggetti di scherno per dileggiare il tono profondo che la mia personalità passata cercava insistentemente d’instillarsi con lambiccamenti mediocri e inconcludenti.
Se io fossi in grado di tornare indietro nel tempo, probabilmente prenderei a schiaffi il mio clone diciannovenne e gli fregherei pure i risparmi: puah, figlio di puttana. Per fortuna ho aggiustato il tiro e non mi sono intestardito a sparare cazzate, altrimenti starei ancora ad adulare qualche forma di vittimismo mascherato. Sono umano, almeno per il momento, perciò accetto gli errori del passato e mi godo le conquiste del presente. Non mi piace scordare gli stronzi che si sono avvicendati in me prima di me e ci tengo a rammentare la loro stupidità per evitare di riportarla in auge senza volerlo.
Ogni tanto in alcune persone, più giovani o più vecchie, rivedo l’ottusità e la superficialità che ho avuto modo di esperire a spese del mio tempo e ogni volta, dinanzi a tali apparizioni, mi sento molto fortunato. La cretineria per me è stata una grande scuola, ma non provo nostalgia e non intendo frequentarla nuovamente: al massimo posso accettare qualche corso d’aggiornamento, ma nulla di più, santi numi! Credo che l’imperfezione umana si presti sempre a qualche limatura e di conseguenza non mi considero a un tiro di schioppo dalla perfezione, ma almeno non sento il fiato sul collo di una parte di me che di me aveva soltanto le sembianze. Ancora una volta mi vedo costretto ad allegare una citazione di Franco Battiato e Manlio Sgalambro: “Quando non coincide più l’immagine che hai di te con quello che realmente sei, incominci a detestare i processi meccanici e i tuoi comportamenti, e poi le pene che sorpassano la gioia di vivere, coi dispiaceri che ci porta l’esistente, ti viene voglia di cercare spazi sconosciuti per allenare la tua mente a nuovi stati di coscienza”. Accidenti, tutto quadra e non ho neanche bisogno di misurare i lati per esserne sicuro.
L’istinto di conservazione mi ha spinto a praticare l’introspezione e mi ha permesso di migliorare la qualità della mia vita. Talvolta intravedo un po’ di morbosità nel mio atteggiamento intimistico, ma suppongo che quest’ultima in realtà sia la conseguenza dell’isolamento volontario nel quale trascorro buona parte del mio tempo. Mi piace la comunicazione, ma prediligo le conversazioni surreali che nascono spontaneamente. Non amo le grandi compagnie, ma adoro il caos urbano delle megalopoli perché produce in me un’alienazione particolare. Mi piace trovarmi da solo in mezzo a un melting pot. Certe persone scambiano l’introspezione per qualcos’altro e la usano come scusante per dispensare lezioni di vita senza che nessuno ne abbia mai sollecitato la declamazione. Non ho nulla da insegnare e ciò che devo apprendere ha una radice endogena, perciò non mi concedo neanche l’illusione di imparare da qualcun altro ciò che mi riguarda. Apprezzo i monologhi e parlo spesso con me stesso. Trovo imbarazzanti i discorsi filosofeggianti che abbiano come fine precipuo la soddisfazione egoistica dei partecipanti. Non gradisco le contese verbali perché spesso sono patrocinate dalla vanità intellettuale. Ognuno creda ciò che vuole e affermi qualunque cosa o il suo contrario. Verba volant; e per fortuna abito in una zona che è soggetta ai venti. La mia introspezione non è costituita dall’ammasso chilometrico di appunti che ho prodotto in questi anni né dai pensieri che accentuano la costanza delle mie sensazioni piacevoli. La mia introspezione non è tangibile, ma è qualcosa che mi tange perché al di là di ogni frase criptica io sono un individuo pragmatico. Non mi lascio contaminare dai facili entusiasmi né dai condizionamenti negativi delle delusioni estranee. Misuro il mio operato interiore durante l’attività fisica e non conosco un modo migliore per farlo. A mio avviso il rapporto tra mente e corpo è più stretto di quanto lascino intendere certi dotti impigriti. Forse sono limitato, ma per me è fondamentale che la resistenza fisica vada di pari passo con la coerenza delle idee.
Gli schiavi della solitudine indomita: seconda parte
Pubblicato martedì 17 Giugno 2008 alle 09:55 da FrancescoLa seconda e ultima parte di questo scritto è caratterizzata da un’impronta meno ironica e lascia più spazio ad alcune considerazioni personali. Ho già sottolineato quanto io reputi importante la capacità di gestire la solitudine, ma credo che le mie parole debbano soffermarsi ancora su questo punto. Suppongo che la povertà e la ricchezza, la cultura e l’ignoranza, la fama e l’anonimato, il potere e l’impotenza siano delle entità artificiali con le quali i membri della società umana si diversificano in base a dei valori quantitativi, ma ipotizzo che a capo di queste discriminanti ve ne sia una più grande: la governabilità della solitudine. Penso che una persona con molto denaro possa essere pericolosa qualora non si renda conto di quanto i suoi averi valgano poco al cospetto della padronanza di sé, tuttavia non voglio negare alla cartamoneta la sua importanza e ritengo ingenuo chiunque stigmatizzi i soldi per esprimere il suo disprezzo verso alcuni modi in cui essi vengono ottenuti. Mi disgusta chi possiede molte nozioni e allo stesso tempo non conosce nulla di sé stesso. Mi pare che talvolta la cultura venga confusa con l’intelligenza, ma io non penso che la prima sia un sinonimo della seconda e credo che lo studio possa costituire una forma di suicidio qualora tra i suoi scopi primeggi l’obiettivo di ignorare alcune questioni introspettive. In base a quanto ho scritto finora vedo qualcosa di paradossale nella fama nei casi in cui essa appartenga a qualcuno che risulti più familiare ai suoi estimatori che a sé stesso. Trovo che la solitudine sia un’entità giusta e penso che quest’ultima offra le stesse possibilità ai prigionieri e ai loro carcerieri. A mio avviso l’autolesionismo è un’offesa alla solitudine e immagino che quand’essa subisca un simile affronto assuma delle sembianze patologiche per diventare una malattia vendicativa. Le domande che seguono sono accomunate da una risposta che non ha bisogno di essere enunciata. Cos’è che arma gli studenti universitari negli atenei? Dove nasce la forza negativa che porta all’uxoricidio? Chi accompagna la canna di una pistola alla tempia di una persona? Qual è la sorgente da cui sgorga la meschinità che appartiene a chiunque nasconda la parte più recondita della propria personalità? Cosa induce taluni a un’esuberanza artificiosa? Connoto la solitudine come una forza indipendente e demiurgica e penso che sia tale soltanto nel microcosmo di ogni persona, perciò non la elevo al pari di una divinità collettiva e come al solito mi tengo lontano da qualunque fantasia ultraterrena che si prodighi nella distribuzione di comodità pericolose per l’intelletto. Credo che la volontà sia l’unico punto di contatto che possa instaurare un dialogo corretto tra il singolo e la sua solitudine affinché quest’ultima possa rivelarsi nel suo splendore per diventare il fondamento savio di ogni rapporto interpersonale.
Xmas doesn’t concern my inner thoughts
Pubblicato sabato 22 Dicembre 2007 alle 08:10 da FrancescoIeri ho chiuso un breve capitolo della mia vita che non ho mai aperto e sono contento che tutto questo sia accaduto in prossimità della fine dell’anno. Credo che dicembre sia soltanto un mese di bilanci inutili e di propositi altrettanto sterili, ma penso che gennaio sia la rampa di lancio per rendersi concreti e agire. Talvolta concedo alle persone più attributi positivi di quanti ne abbiano in realtà, ma quando me ne rendo conto riesco a ridimensionare l’importanza di coloro che ho sopravvalutato e lascio dietro di me scie di indifferenza. Nessuno mi ha insegnato a distaccarmi da qualcuno per spianare la strada alla felicità, ma l’ho imparato da autodidatta nel corso dei miei studi casuali sui rapporti interpersonali. Quando l’ossessione predomina sulle emozioni qualcosa non va ed è meglio abbattere tutto per erigere una nuova costruzione sentimentale. Non importa sotto quale nome appaiano la passione, il trasporto o, come è sempre accaduto nel mio caso, le loro manifestazioni platoniche, dato che per me dietro le lettere J, V, e L ci sono periodi in cui ho lambito le sponde dell’amore, ma sono nomi privi di sostanza dato che io sono ancora in alto mare e mi godo la distesa infinita che mi circonda mentre continuo romanticamente la mia navigazione solitaria a bordo della realtà.