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Appunti sfusi del Libro rosso di Carl Gustav Jung

Pubblicato sabato 2 Gennaio 2016 alle 22:26 da Francesco

Ancorché con estrema concisione e senza l'ausilio degli incisi necessari, intendo trasporre su queste pagine una parte dei miei appunti su uno dei testi più famosi e controversi di Jung, ovvero il Libro rosso a cui ho dedicato molteplici attenzioni sin dalla scorsa primavera.
Quanto mi accingo ad annotare non ha pretese di completezza, dunque lo vergo come meglio credo a mio esclusivo uso e consumo; mi riservo inoltre la possibilità di ampliare questo piccolo sunto di annotazioni che ho tratto dalla lettura del testo in questione e da quella della Guida al Libro Rosso di Bernardo Nante.

Il Libro rosso è disseminato di miti, ma è esso stesso un mito che esorta chi lo legge al recupero di una vita simbolica: quest'ultima consiste nell'unione degli opposti che è celebrata dalle nozze mistiche che ognuno deve narrare con l'unicità della propria esistenza. Jung precisa che il testo non dev'essere considerato alla stregua né di una dottrina né di un insegnamento, bensì solo un invito che è rivolto a chiunque intenda cercare dentro di sé la via della propria rivelazione.

Apprezzo molto quest'ultimo monito di Jung e dei suoi esegeti in quanto non riduce l'opera a un corpus di dettami per indoli pedisseque, ma pone il lettore al cospetto della vox media più bella e crudele, ovvero "libertà"; e mutatis mutandis, in tutto ciò sento odor di pelagianesimo.

Il primo passo che viene mosso nel Libro rosso è verso l'assurdo e si compie con l'assassinio di Sigfrido che invece rappresenta il senso. L'Io è il protagonista e deve rapportarsi con le figure più disparate, tra le quali il Diavolo e un anacoreta: il primo rappresenta la materia, il mondo terreno, il secondo invece l'ascesi e la spiritualità.

Viaggiando verso oriente l'Io s'imbatte in un gigante babilonese di nome Izdubar (che è l'errata traslitterazione di Gilgamesh) il quale procede in direzione opposta. Quest'incontro è quello tra l'uomo scientifico e l'uomo mitiologico con la dicotomia che è loro propria. Jung spiega al gigante la teoria eliocentrica ed egli s'ammala poiché gli vengono meno le convinzioni magiche, quindi Jung tenta di riparare al danno che ha causato e propone a Izdubar di diventare una fantasia in modo tale che lui possa portarlo in Occidente, racchiuderlo in un uovo e covarlo. Quando i passi anzidetti vengono compiuti Izdubar rinasce ma l'Io ne resta orfano.
A questo punto è sottolineata l'incapacità di vivere in pieno il mistero dell'unione degli opposti a causa della tensione tra lo scetticismo scientista e la devozione infantile.
L'Io riceve il dono della magia che richiede il sacrificio della consolazione e si reca da un mago affinché lo liberi dal destino: la magia consiste nell'imparare ciò che non può essere imparato e nel comprendere l'incomprensibile in quanto essa permette di sopportare le contraddizioni.
Il mago Filemone non comunica all'Io il segreto della magia per mezzo della parola, bensì egli si avvale del suo modo di vivere e ne fa un esempio. Compaiono poi i Cabiri, delle divinità ctonie che si mettono al servizio dell'Io per diventarne oggetto di sacrificio.

L'Io riconosce le esigenze dei morti e così può lasciare le aspirazioni personali, inoltre è in grado di non desiderare più che la sua volontà s'imponga agli altri o che di questi egli voglia la felicità.
Appaiono due figure, Salomè ed Elia: la prima rappresenta l'eros e il secondo il Logos.
Le nozze mistiche tra sopra e sotto generano un'anima spiritualizzata e il protagonista resta da solo con il suo Io: costui deve recuperare il passato che non ha ancora accolto poiché la pietra di paragone è l'essere soli con sé stessi. Questa è la via. L'Io non deve farsi carico dei morti perché deve restare fedele alla solitudine, ma non lo capisce e sprofonda nella tristezza, inoltre v'è un confronto con l'Ombra personale in cui ammette la propria inferiorità e accetta di farsi domare. Su questo orizzonte si staglia un concetto importante, ovvero che occorre comprendere sé stessi per superare la pretesa di essere compresi dagli altri.
Jung non si disfa dell'anima benché questa si presenti come una sgualdrina ipocrita poiché egli sa che comunque serba il tesoro più prezioso. Per procedere verso il Sé è necessario che vi sia un riconoscimento dei vizi e delle virtù.

Nel pleroma le coppie di opposti in realtà non esistono poiché si annullano, perciò nella misura in cui un individuo è attratto da un polo finisce per cadere in quello opposto: rimedio a ciò è l'essenza e non il pensiero. Filemone insegna il sapere che pone un freno al pensiero.
È Abraxas che abbraccia entrambi i poli, ovvero un dio da sapere e non da comprendere, cioè il signore di questo mondo. Filemone da parte sua non può insegnare ai morti il dio che è uno in quanto essi lo hanno ripudiato e così hanno dato potere alle cose, ovvero a molti dèi.
Essere in comunione dà calore mentre essere da soli dà luce: l'uomo deve differenziarsi dalla sessualità e dalla spiritualità che non possiede poiché ne è posseduto. Affinché l'integrazione si verifichi l'enantiodromia deve interrompersi. Secondo Filemone gli uomini non possono imparare nulla fino a quando non vivono la loro vita senza imitare nessuno: ciascuno deve realizzare la sua opera salvifica. Gli dèi sono insaziabli perché ricevono troppo e devono imparare la penuria dagli uomini, ma le atrocità dei mortali aumentano quando queste precedono la rinascita di un dio paradossale. Il dio unico è morto e la pluralità delle cose uniche è il dio uno.
Elia finisce per indebolirsi poiché passa a Jung una parte troppo grande del suo potere; egli e Salomè sono modelli archetipici per l'unione degli elementi maschili e femminili; riconoscere il valore della seconda rende possibile l'annullamento dell'identificazione del sapere con la mera erudizione. A un certo punto appare Cristo con le sembianze di un'ombra azzurra e Filemone lo porta a capire come la sua natura sia anche quella del serpente: egli ne conviene.

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Apr

Uovo di Jung

Pubblicato giovedì 23 Aprile 2015 alle 10:16 da Francesco

Mi sono soffermato su due capitoli del Libro rosso: il nono e l'undicesimo.
Il mio interesse s'è destato all'incontro di Jung con Izdubar, l'uno diretto verso oriente e l'altro verso occidente; il nome del secondo protagonista è quello con cui gli assiriologi indicavano il personaggio di Gilgamesh quand'ancora non ne era nota la giusta traslitterazione.
Izdubar irrompe come un gigante che brandisce un'ascia bipenne e anela all'immortalità, tratti che di primo acchito me l'hanno fatto associare alla mitologia norrena, però egli cade presto vittima delle parole di Jung che involontariamente lo avvelena col sapere scientifico di cui costui si fa inconsapevole nunzio: da qui l'enantiodromia oscura i cieli e riempie le pagine.
Così prende piede il noto gioco degli opposti, che prima chiamerei "incontro" e poi "accordo" dei contrari se volessi rendere un po' più serio il mio approccio al tema, ma questa volta lascio i riferimenti alchemici a chi vuol credere più del necessario a ciò che scrive o a quello che legge.
La razionalità quasi uccide il dio (in quanto Izdubar lo rappresenta col pensiero orientale), però l'altro vuole salvarne l'esistenza e s'ingegna per farlo. Alla fine Jung riduce Izdubar a una mera fantasia e così può trasportarlo in un uovo (e la semplicità della soluzione a me ricorda proprio l'espressione "uovo di Colombo"). Portato in una casa e fatto oggetto di incantesimi, così sono chiamate nel decimo capitolo quelle che a me sembrano preghiere, l'uovo viene aperto e il dio rivive: mi ha colpito molto l'immagine che Jung ha realizzato per descrivere questo momento.
La rinascita di Izdubar non è letterale e io ne associo il senso lato a quello della morte di dio secondo Nietzsche; nel primo caso si manifesta un rinnovamento di sé stessi, nell'altro invece v'è un preludio al superamento dei vecchi valori (poiché ne viene decreta la fine).
Jung non filosofa con il martello, forse non filosofa affatto, inoltre suppongo che i suoi scopi siano altri, perciò non metto in contrapposizione due pensatori di così diversa natura che io vedo comunque vicini laddove il tempo è quasi un orpello della metafisica.
Oltre alle dotte (in apparenza) elucubrazioni, personalmente non riesco a trasporre nulla di ciò nella mia realtà, perciò ne elogio la forma e ammetto la mia totale incapacità di identificarmici.
Non mi sognerei mai (eh già, il verbo è proprio adatto, e anch'esso lo è, "il verbo", come in una scatola cinese da calembour) di screditare la tecnica dell'immaginazione attiva di cui Jung si è avvalso, ma riconosco come questa non mi appartenga; d'altronde, in modo tutt'altro che ermetico, è egli stesso a mettere in guardia il lettore in un passo del Libro rosso: "Quello che vi do, non è né una dottrina né un insegnamento. E da quale pulpito potrei indottrinarvi? Vi informo della via presa da quest'uomo, della sua via, ma non della vostra. La mia via non è la vostra via, dunque non posso insegnarvi nulla. La via è in voi, ma non in dèi, né in dottrine, né in leggi. In noi è la via, la verità e la vita".

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31
Ago

Autunno in pectore

Pubblicato martedì 31 Agosto 2010 alle 07:06 da Francesco

L’estate comincia ad allontanarsi dai calendari benché all’equinozio d’autunno manchino ancora ventiquattro giorni. Gli ombrelloni si chiudono piano, come se fiorissero al contrario. Gli stranieri tornano a casa e allo stesso tempo gli estranei si moltiplicano. Uomini abbronzati e donne con i seni nivei concludono le collaborazioni carnali. Anche le infatuazioni stagionali vengono cessate di comune accordo, ma spesso ne resta qualche traccia in una foto digitale o in una sequenza numerica che quasi sempre corrisponde ad un’utenza telefonica. Per qualcuno s’avvicina il primo giorno di scuola, il primo giorno di lavoro o il primo giorno dopo l’ultimo di una vita intera.
Gli esami non finiscono mai per i malati cronici né per gli universitari svogliati. A me non serve un corso di laurea per raggiungere i titoli di coda, però frequenterei volentieri una facoltà se fosse in grado d’estendere le mie. Non mi affianco a nessuno perché il tempo lo seguo a una velocità diversa: lo accompagno, mica lo rincorro. Nessuna novità all’orizzonte e neppure un motivo per rammaricarmene, però davanti a me scorgo ancora ampie distese di terra su cui correre da solo. Alzo soltanto pesi di ghisa e non ne ho altri da sollevare. Potrei aggiungere molte cose alla mia vita, ma io prediligo uno stile minimalista; tutt’al più sono disposto a congiungermi. I tempi sono maturi, però a giudicare dal sapore del liquido rachidiano pare che i cerebri siano ancora acerbi. Non devo inventarmi nulla, bensì dovrei prenotare un last minute per l’iperuranio dimodoché possa ricordarmi subito quanto devo ancora apprendere sul campo incolto dell’agape, senza passare per Parco della Vittoria né attraverso l’enantiodromia

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