Quanto è accaduto in Francia non mi ha sorpreso più di tanto. Seguo la propaganda jihadista da fonti non convenzionali, inoltre m’interesso alle vicende del fronte siriano: ammiro i curdi che insieme a dei volontari occidentali (forse folgorati sulla via di… Damasco?) combattono contro il cosiddetto Stato Islamico. Insomma, un attentato era nell’aria, come d’altronde lo è sempre da quasi un quindicennio a questa parte. In tale ambito il mio interesse è di tipo militare e storico.
Non esprimo giudizi morali né sento la necessità di lanciarmi in una di quelle analisi che spesso trovano nell’autocompiacimento l’unica raison d’être. Ciò che mi accomuna al fondamentalismo è la mancanza di dialogo, ma nel mio caso non so quant’essa sia voluta. Potrei calcare la mano con l’umorismo di cattivo gusto o accodarmi allo sdegno generale, potrei cercare di essere originale a tutti i costi fino a scadere nella banalità o potrei semplicemente rinviare alle pagine di un libricino profetico che Emil Cioran scrisse nel sessanta, Storia e utopia: una lettura che io stesso intendo ripetere. Oggi, a maggior ragione, rinnovo quelle sante parole che digitai un mese fa: “Vorrei restarmene qua, avere una casa modesta ma con vista sull’oceano, una ragazza del Midwest con cui condividerla per il resto dei miei giorni e il piacere di leggere le prime pagine dei giornali come se fossero la cronaca estera di Alfa Centauri”.
Ambisco ad un esilio napoleonico. Ho trovato la mia Sant’Elena in mezzo al Pacifico, tuttavia non ho colpe da espiare. Da queste parti ormai è notte fonda e una piacevole stanchezza inizia ad impadronirsi del sottoscritto. Mi appresto a dormire e per conciliare il sonno spendo le ultime forze della giornata sulle Lettere a Lucilio: Seneca è il padre che non ho mai avuto.
Nel migliore dei casi resterò a questo mondo per altri settant’anni, ma non ho progetti né idee con cui costipare l’avvenire e continuo a non provare il bisogno di crearmi un’identità precisa per ricavare dal tempo a mia disposizione i germogli dei ricordi futuri. Ancora una volta mi permetto di ospitare una citazione di Emil Cioran sebbene non abbia ancora l’età per poterla condividere pienamente: “Quello che so a sessant’anni lo sapevo altrettanto bene a venti. Quarant’anni di un lungo, superfluo lavoro di verifica…”.
Sono in grado di camminare da solo e posso orientarmi tanto con le scelte ponderate quanto con i colpi di testa benché io non sappia replicare le prodezze di Oliver Bierhoff. Provo una certa insofferenza nei confronti di chiunque non possa guardare dentro di sé o non voglia farlo per timore delle possibili conseguenze, tuttavia riesco a tenermi lontano da individui del genere e adopero paratie di silenzio o d’indifferenza per non deviare troppo l’attenzione da me stesso. Vivo in una democrazia immatura e sono circondato da persone insicure, però, dando un rapido sguardo alla storia e ammettendo che quest’ultima riporti la verità, non posso certo lamentarmi più di tanto del tempo in cui vivo e invero non ne ho motivo alcuno, almeno per quanto riguarda direttamente la mia esistenza. Sono una comparsa, felice di non essere papabile per il martirio. Io seguo l’andamento dei giorni e non ho grandi critiche da muovere a chicchessia. Credo che il bene si affermi da sé e si sviluppi al di là delle intenzioni più feconde.
La mia condotta non è improntata al diniego e alla derisione dei giudizi altrui, ma si premura di limitare le coercizioni più o meno percepibili che possono essere dettate da alcune circostanze. Talvolta appaio sgradevole e sgarbato, ma tali apparenze secondo me costituiscono un prezzo accettabile da pagare per non snaturarmi eccessivamente in un ambiente che pullula di indoli diametralmente opposte alle mia. Non m’illudo d’essere sempre autentico e talvolta, anche a distanza di anni, noto a posteriori l’artificiosità inconsapevole di certe azioni o di determinati ragionamenti. La falsità non si annida soltanto nelle debolezze altrui e non la tratto mai come un corpo estraneo, ma cerco anzitutto di prevenirla in me e non riesco sempre a scongiurare il suo ingresso furtivo nelle espressioni della mia personalità. Non provo sensi di colpa su questo punto poiché si tratta di episodi che sfuggono alla mia coscienza, tuttavia rinnovo a me stesso l’invito a compiere maggiori sforzi per ridurre ulteriormente questa enclave della stupidità.
Recentemente ho finito di leggere “Un apolide metafisico” di Emil Cioran. Conoscevo già da diversi anni lo scrittore rumeno e avevo letto alcuni dei suoi aforismi, ma non mi ero mai deciso a prendere in mano una delle sue opere. Il libro in questione è una raccolta di interviste illuminanti che mi ha esaltato. Condivido una parte del pensiero di Cioran, tuttavia la mia visione delle cose è molto differente. Non apprezzo il modo in cui egli abbraccia il fatalismo, ma adoro la genialità e l’irriverenza con cui lo presenta. Mi piacciono le parole che spende sulla noia e in particolare quando affranca questo sentimento da qualsiasi legame con l’ozio, ma preferisco citare il passaggio di una sua intervista per cristallizzare questo punto: “Non è la noia che si può combattere con le distrazioni, la conversazione o i piaceri, è una noia che si potrebbe definire fondamentale; e che consiste in questo: più o meno bruscamente, a casa propria o in casa d’altri, o davanti a un bellissimo paesaggio, tutto si svuota di contenuto o di senso. Il vuoto è in noi e fuori di noi. L’intero universo è annullato. E niente più ci interessa, niente merita la nostra attenzione. La noia è una vertigine, ma una vertigine tranquilla, monotona; è la rivelazione della futilità universale, è la certezza, spinta fino allo stupore o fino alla chiaroveggenza suprema, che non si può, non si deve fare niente né in questo mondo né in quell’altro, non esiste al mondo niente che possa servirci o soddisfarci. A causa di questa esperienza – non costante ma ricorrente, dato che la noia viene per accessi, ma dura molto più a lungo di una febbre – non ho mai potuto fare niente di serio nella vita. Per la verità, ho vissuto intensamente, ma senza mai potermi integrare all’esistenza. La mia marginalità non è fortuita, ma essenziale. Se Dio si annoiasse, rimarrebbe pur sempre Dio, un Dio, però, marginale”. Penso di conoscere la noia di cui parla Cioran e credo di averla vissuta, ma nella sua descrizione ravviso un’insofferenza che ormai non avverto più da molti anni. Io vivo il mio vuoto come una manifestazione sublime della vita e non dipingo l’esistenza con tonalità oscure perché la considero un’evoluzione libera e imprevedibile come descritta da Henri Bergson. Approfitto di questo argomento per lasciare un ulteriore appunto che non si discosta troppo da quanto ho scritto e citato finora. Mi rifiuto di affidare me stesso agli esiti delle mie imprese. Intendo dire che non sono disposto a mutare il mio umore in base ai successi o alle disfatte e per questo motivo ho fatto molti sforzi per raggiungere un equilibrio che sia a monte di tutto questo. Certo, verso anch’io i miei tributi emotivi, ma sono congrui alle circostanze e non mi travolgono né positivamente né negativamente. Prima di concludere voglio fare un passo indietro. I cardini di Cioran non sono molti e lui stesso afferma in un’intervista contenuta in “Un apolide metafisico” che il suo primo libro contiene già molto di quello che si trova nelle sue opere seguenti, tuttavia è difficile riassumere questa grande mente del novecento.