Di recente ho visto questo film del 1973 che a mio parere possiede un’atmosfera fiabesca e un finale meraviglioso. Di norma tendo a non dare troppo peso alle assegnazioni dei premi Oscar, ma secondo me fu ampiamente meritato quello conferito nel 1974 a Tatum O’Neal come miglior attrice non protagonista per il ruolo di Addie: un’interpretazione adorabile a soli dieci anni!
Credo che Paper moon si possa definire un road movie, difatti la piccola Addie, rimasta orfana, viene affidata a Moze affinché questi la porti da alcuni parenti presso cui deve trasferirsi: Moze è un giovane truffatore che conosceva la madre di Addie e forse è proprio lui il padre della bambina sebbene egli lo neghi. La coppia scopre subito di avere delle affinità elettive nell’arte di arrangiarsi benché tra i due ci siano dei contrasti, difatti Addie è molto sveglia per la sua età e Moze, nonostante viva di espedienti, dimostra di possedere un’indole buona.
Per me il film è dettato da un ritmo perfetto, con un giusto equilibrio tra le scene urbane e quelle bucoliche, tra i momenti di rabbia e gli slanci di affetto, tra l’azione concitata e la piccola suspense. Azzeccata anche la scelta del bianco e nero per la quale Bogdanovich aveva già optato ne L’ultimo spettacolo. Per come i due protagonisti diventano partners in crime mi è tornato in mente un film di Luc Besson uscito circa vent’anni dopo: Léon.
Avevo già apprezzato lo stile corale di Altman nel corso di M*A*S*H* (acronimo per Mobile Army Surgical Hospital), sua opera del 1970, però io trovo che in Nashville questo modus operandi venga impiegato con un’efficacia persino superiore.
Nel film non vi è un protagonista in senso classico e stretto, ma molti comprimari dall’apparenza di monadi che la narrazione via via tesse e interseca in modo eccelso a favore del suo stesso ritmo, difatti per me scorrono alla perfezione le oltre due ore e trenta di questa pellicola del 1975 dopo Cristo. Il titolo si riferisce alla celebre città del Tennessee, mecca del country, perché la musica ha un ruolo preminente nella storia e, non di rado ma volutamente, viene sovrapposta ai dialoghi, perciò ne consegue un muro sonoro un po’ confusionario in ragione di cui trovo opportuni i sottotitoli in inglese: invero non so se ne esista una versione doppiata in italiano e adoro il carattere grottesco, surreale ed esagerato di tutte le miserie ivi rappresentate.
A mio parere una parvenza di protagonista può essere rintracciata non tanto in un ruolo, bensì in una vicenda, ossia la campagna elettorale di un fantomatico politico che si manifesta solo come voci fuori campo, tuttavia è su quest’ultima circostanza che i vari personaggi si stagliano e alla fine confluiscono: lo sviluppo di questo iter è puntellato da una sagacia spassosa e da un approccio caricaturale nei suoi tratti apparentemente documentaristici.
Il country non è il mio genere musicale d’elezione, ma le numerosi canzoni presenti si sposano bene con il resto del film senza che il tutto trascenda mai negli stilemi di un musical vero e proprio. In conclusione: per me Nashville è un film tanto lungo quanto divertente e lo reputo attuale giacché ancor oggi, secondo me, dice molto della società statunitense.
Ho terminato la lettura de Il cinema secondo Hitchcock, una lunga intervista che Sir Alfred rilasciò in più occasioni a François Truffaut. Sotto il profilo aneddotico ho trovato questo volumetto meno divertente rispetto a quello curato da Peter Bogdanovich per la sua brillante intervista a Orson Welles, anch’esso pubblicato da Il Saggiatore, ma ha saputo ugualmente carpire il mio interesse e mi ha dato qualche strumento in più per inquadrare il cinema tout court: in entrambi i casi ho appreso qualcosa dall’intervistato e dall’intervistatore giacché tutti registi.
Di Alfred Hitchcock ho visto trenta film, dal 1940 con Rebecca, la prima moglie, fino al 1975 con Complotto di famiglia. Mi viene difficile esprimere una preferenza assoluta in questa panoplia di opere stupende, ma devo ammettere un’inclinazione verso La finestra sul cortile, Caccia al ladro e Il delitto perfetto per la presenza di Grace Kelly, a mio parere la donna più bella e aggraziata che sia mai scesa su questo pianeta. Apprezzo molto anche Intrigo internazionale con il leggendario Cary Grant in quanto stilistico precursore di tutta la saga basata sul personaggio di James Bond; il già citato Rebecca, la prima moglie con una stupenda Joan Fontaine e L’ombra del dubbio sono altre due pellicole di mio sommo gradimento. Forse, tra quelli da me visti, gli unici film di Hitchcock che non sono riuscito ad apprezzare sono gli ultimi due, ossia Frenzy e Complotto di famiglia. Titoli eccelsi come Nodo alla gola, Psyco, Gli ucccelli e La donna che visse due volte parlano da soli.
Di recente ho visto quest’opera di Ferreri che mancava nel mio bagaglio di aspirante cinefilo e ne ho ricavato un’opinione ambivalente. L’aperta provocazione del regista mi ha ricordato, in parte e in una forma più attenuata, quella pasoliniana di Salò o le centoventi giornate di Sodoma. Laddove il film di Pasolini si occupa del potere nelle sue implicazioni più anarchiche, Ferreri, per sua stessa ammissione in un’intervista, realizza un’opera fisiologica, scevra di sentimenti, dove l’edonismo lascia spazio (appunto) alla fisicità in quanto realtà ultima; non è solo nel cibo che ravviso un vago parallelismo tra le due pellicole, ma in una più generale (e a mio parere comune) estetica con la quale l’uomo viene mostrato in quanto uomo, in quanto corporeità, in quanto finitudine. In ambo i casi credo che il registro stilistico sia simile, quello grottesco, ma differisca in intensità.
Ne La grande abbuffata è palese la disperazione borghese, la trasformazione del piacere in abitudine e quindi l’incapacità di ripetere a comando l’edonismo originario: la resa del corpo al corpo e una collettiva volontà di autodistruzione. Per scomodare Freud, così da destare in me risate verso un’altra parte di me rivolta alla cinefilia, mi sembra che nel lavoro di Ferreri si affermi la pulsione di morte con una gita stanziale e culinaria al di là del principio di piacere.
Girato perlopiù in interni e con un grande cast (i personaggi usano i loro veri nomi di battesimo), per me è un film che assolve il compito per il quale è stato concepito nelle intenzioni del regista, ovvero trascurare lo spettacolo per innescare un crudo meccanismo d’identificazione, perciò lo reputo efficace in questo senso e nullo (per i miei gusti) sotto il profilo dell’intrattenimento.
Sulla base del mio trascurabile parere Nazarìn è un film dai contorni mistici e grotteschi, dove registri differenti si uniscono in un connubio di cui, secondo me, Luis Buñuel è indiscutibile maestro per come rende e armonizza elementi all’apparenza contrastanti e contraddittori.
In questa storia il protagonista è un sacerdote che si sforza di osservare i princìpi della propria vocazione, ma la sua coerenza, la sua empatia e la sua solidarietà gli cagionano i torti più disparati, fino a quand’egli, dopo un atto di carità, viene tradito dalla meretrice alla quale aveva prestato aiuto e si vede strappare l’abito talare dai propri superiori. Attorno a Nazarìn gravita una corte dei miracoli tramite la quale, per me, Buñuel rappresenta quelle che allora erano le fasce più deboli della società messicana e a mio avviso quest’affresco di umanità (nient’affatto inedito nella sua produzione) gli riesce magistralmente come sempre.
Nella mia personale lettura del film vedo la fede come abbandono quale tema portante, difatti Nazarìn non tentenna mai, neanche quando sostiene di avere difficoltà a perdonare un uomo da cui è stato picchiato pochi istanti prima, però a mio avviso quelle sue parole d’incertezza vengono sconfessate subito dall’espressione, dal tono e dalla gestualità che le accompagnano. In quest’opera colgo una fede adamantina che, in una mia personale e spontanea associazione d’idee, reputo speculare per converso a quella di Luci d’inverno di Bergman, fatica quest’ultima più tarda di qualche anno rispetto a quella di Buñuel e nella quale il protagonista, un pastore protestante, assiste alla crisi della propria fede dopo la morte della moglie, con angoscia ed esistenzialismo in luogo della ricerca mistica.
Per me la scena più iconica di Nazarìn, nella duplice accezione del termine, ossia iconica in quanto rappresentativa dell’opera ma anche perché concerne un’icona sacra, è quella in cui la prostituta, in preda alle allucinazioni, crede che un ritratto di Cristo rida di lei, come se il figlio di Dio la prendesse in giro.
Un paio di giorni fa sono andato al cinema per assistere alla proiezione di 2001: Odissea nello spazio, opera che ho visto più volte, ma di cui non avevo mai avuto fruito prima sul grande schermo. In merito al film v’è poco o tutto da scrivere giacché costituisce un vertice della settima arte, quindi non voglio sviscerare il lavoro di Stanley Kubrick sul quale, come testé affermato, credo che vi sia poco o tutto da dire, bensì voglio ricordare a me stesso l’importanza di vincere la pigrizia e muovere il culo ogniqualvolta si presenti l’occasione di simili proiezioni: per me il livello d’immersione al cinema non ha pari.
Ci sono molti film datati che mi piacerebbe rivedere nel silenzio religioso e nella parziale oscurità di una sala cinematografica giacché furono pensati e girati per quest’ultima dimensione, con le proprie peculiarità tecniche e non (anche la semplice atmosfera), elementi per i più (e di sicuro per me) impossibili da riprodurre in un contesto domestico. Se mi sarà possibile andrò a vedere Frankenstein Junior, ormai prossimo al cinquantennale, e Akira, forse il mio film d’animazione preferito che sarà riproposto nelle sale per celebrare i trentacinque anni dalla sua prima.
Preferenze musicali e cinematografiche del disgraziato 2022
Pubblicato domenica 1 Gennaio 2023 alle 18:54 da FrancescoSpoiler: il 2023 sarà un anno di violenze, distruzioni e ingiustizie con i buoni propositi che faranno la fine dei bambini yemeniti, perciò v’è da sperare che il caro energia colpisca anche il Sole e ne cagioni il salvifico spegnimento. In attesa della morte termica annoto di seguito la mia top three di album e film per il 2022.
Riot City – Electric Elite (2022): ho perso il conto degli ascolti, disco fenomenale ed esaltante dall’inizio alla fine, privo di una sola traccia debole. Non epigoni, ma degni eredi di Judas Priest e Iron Maiden (le influenze più evidenti). Top track: Tyrant.
Banco del Mutuo Soccorso – Orlando, le forme dell’amore (2022): concept album monumentale, malgrado le vicissitudini il Banco continua a tirare fuori cose eccezionali dopo cinquant’anni. Da ascoltare nel suo complesso.
The Halo Effect – Days Of The Lost (2022): gli In Flames degli albori si confermano maestri del Gothenburg sound, a riprova di come il melodic death metal sia ancora vivo e non abbia esaurito tutte le soluzioni possibili.
Film:
Crimes of the future di David Cronenberg: vince a mani basse e ha sancito il mio ritorno in sala.
Gli orsi non esistono di Jafar Panahi: audace opera iraniana che oscilla tra la denuncia sociale e il metacinema (un film nel film). Ho avuto la fortuna di vederlo nell’ultimo avamposto culturale della mia provincia, il Cinema Stella.
Beavis and Butt-Head alla conquista dell’universo di John Rice e Albert Calleros: beh, questa è stata la vera opera morale del 2022, un sunto delle massime aspirazioni e possibilità umane.
Gli orsi non esistono di Jafar Panahi
Pubblicato martedì 8 Novembre 2022 alle 01:36 da FrancescoNel novembrino pomeriggio della scorsa domenica mi sono infilato dentro un piccolo cinema di Grosseto per vedere un recente e premiato film iraniano, Gli orsi non esistono, ultima fatica di Jafar Panahi. Di norma non amo molto il metacinema benché in suo nome siano stati realizzati dei capolavori, ma in questo caso l’ho apprezzato in quanto mezzo e non fine, difatti la storia di un film dentro a un film è funzionale al messaggio di opposizione al regime di Teheran e non si arena nel pur nobile esercizio di stile. A mio parere quest’opera rientra tra quelle che più di altre richiedono allo spettatore uno sforzo di attenzione nei suoi tempi dilatati, ma per me l’impegno risulta spontaneo e non si fa mai gravoso.
Nella narrazione viene dato conto di due mondi apparentemente agli antipodi: da una parte c’è il protagonista, ossia un regista abbiente e metropolitano che possiede auto, fotocamere e soprattutto una coscienza politica; dall’altra gli autoctoni del viaggio al confine con la Turchia dove egli dirige le riprese del proprio film da remoto: ivi si trovano individui ancorati e mossi da quei retaggi e da quelle scale di valori con cui deve fare i conti anche il primo ancorché per ragioni diverse e con una differente consapevolezza.
Per me la carta dell’impegno civile non gioca alcun ruolo, infatti non opero una divisione tra buoni e cattivi, bensì sono i ritmi del racconto, i dialoghi, gli espedienti da metacinema, le soggettive e tutta la messa in scena che secondo me rendono il film riuscito ed esauriente. Forse gli orsi non esistono in questa diegesi, ma di sicuro a quelle latitudini esiste del buon cinema che riesce ancora ad arrivare in Occidente.
Manuale del film di Gianni Rondolino e Dario Tomasi
Pubblicato lunedì 24 Ottobre 2022 alle 22:13 da FrancescoIn illo tempore mi ripromisi di approfondire il linguaggio cinematografico, difatti sapevo che se avessi maturato una fruizione più consapevole della settima arte avrei finito per apprezzare maggiormente la stessa: così è andata appena ho smaltito letture saggistiche per me prioritarie e, talora, più “pragmatiche”.
Avevo bisogno di qualche mezzo che mi permettesse di rendere meno soggettiva la mia esperienza di spettatore: alla fine ho scelto Manuale del film di Gianni Rondolino e Dario Tomasi per affinare un po’ il mio gusto e sviluppare un senso critico con un minimo di fondatezza.
Da queste trecento paginette assai utili, le quali comunque non possono di certo considerarsi esaustive, ho attinto spunti per visioni inedite oltre alle nozioni di cui ero alla ricerca. Secondo me è un testo ben fatto, mai prolisso ed esemplificativo al giusto grado.
Qualche sera fa ho guardato per la prima volta questo vecchio film danese e l’ho apprezzato in sommo grado. La storia è basata su un’opera teatrale e secondo il mio modesto parere la regia ne tradisce l’origine già dalle prime sequenze piuttosto statiche, ma credo che tale caratteristica giovi alla trasposizione stessa. La pervasiva religiosità del racconto si esprime con profondità diverse a seconda dei personaggi, perciò la gamma della fede è illustrata da un capo all’altro della convinzione, ossia da chi ne è rapito a chi invece l’ha smarrita e perlopiù ciò avviene entro i definiti confini di una famiglia che è la protagonista corale della narrazione.
Su tutte a me è piaciuta il la figura estraniata, estatica e quasi profetica di Johannes Borgen, giacché per suo tramite la parola (questa è la traduzione di ordet dal danese) rivela il senso ultimo dell’opera, ma tale epifania segue una parabola all’inizio della quale Johannes appare come un folle, un alienato, una persona malata e la scena più bella secondo me consiste proprio in un suo discorso alla nipote (la figlia di suo fratello e della morente Inger) mentre la macchina esegue un lento e splendido movimento semicircolare. In una spontanea associazione d’idee Johannes mi ha fatto venire in mente una vaga rassomiglianza con Rasputin per la sua aurea di misticismo e per le fattezze dell’attore che lo ha impersonato.
In seno alla vicenda principale del racconto va a inserirsi e a risolversene un’altra, più prosaica, che riguarda l’amore tra l’ultimogenito di Morten Borgen (il pater familias) e la figlia di un uomo che intende la fede in maniera diversa rispetto ai Borgen. Quando ho visto il film non sapevo di cosa trattasse, ma l’impronta teologica mi è parsa evidente sin dall’inizio e tuttavia non ha inficiato la mia fruizione dello stesso. Pellicola eccelsa.