Sulla base del mio trascurabile parere Nazarìn è un film dai contorni mistici e grotteschi, dove registri differenti si uniscono in un connubio di cui, secondo me, Luis Buñuel è indiscutibile maestro per come rende e armonizza elementi all’apparenza contrastanti e contraddittori.
In questa storia il protagonista è un sacerdote che si sforza di osservare i princìpi della propria vocazione, ma la sua coerenza, la sua empatia e la sua solidarietà gli cagionano i torti più disparati, fino a quand’egli, dopo un atto di carità, viene tradito dalla meretrice alla quale aveva prestato aiuto e si vede strappare l’abito talare dai propri superiori. Attorno a Nazarìn gravita una corte dei miracoli tramite la quale, per me, Buñuel rappresenta quelle che allora erano le fasce più deboli della società messicana e a mio avviso quest’affresco di umanità (nient’affatto inedito nella sua produzione) gli riesce magistralmente come sempre.
Nella mia personale lettura del film vedo la fede come abbandono quale tema portante, difatti Nazarìn non tentenna mai, neanche quando sostiene di avere difficoltà a perdonare un uomo da cui è stato picchiato pochi istanti prima, però a mio avviso quelle sue parole d’incertezza vengono sconfessate subito dall’espressione, dal tono e dalla gestualità che le accompagnano. In quest’opera colgo una fede adamantina che, in una mia personale e spontanea associazione d’idee, reputo speculare per converso a quella di Luci d’inverno di Bergman, fatica quest’ultima più tarda di qualche anno rispetto a quella di Buñuel e nella quale il protagonista, un pastore protestante, assiste alla crisi della propria fede dopo la morte della moglie, con angoscia ed esistenzialismo in luogo della ricerca mistica.
Per me la scena più iconica di Nazarìn, nella duplice accezione del termine, ossia iconica in quanto rappresentativa dell’opera ma anche perché concerne un’icona sacra, è quella in cui la prostituta, in preda alle allucinazioni, crede che un ritratto di Cristo rida di lei, come se il figlio di Dio la prendesse in giro.
Un paio di giorni fa sono andato al cinema per assistere alla proiezione di 2001: Odissea nello spazio, opera che ho visto più volte, ma di cui non avevo mai avuto fruito prima sul grande schermo. In merito al film v’è poco o tutto da scrivere giacché costituisce un vertice della settima arte, quindi non voglio sviscerare il lavoro di Stanley Kubrick sul quale, come testé affermato, credo che vi sia poco o tutto da dire, bensì voglio ricordare a me stesso l’importanza di vincere la pigrizia e muovere il culo ogniqualvolta si presenti l’occasione di simili proiezioni: per me il livello d’immersione al cinema non ha pari.
Ci sono molti film datati che mi piacerebbe rivedere nel silenzio religioso e nella parziale oscurità di una sala cinematografica giacché furono pensati e girati per quest’ultima dimensione, con le proprie peculiarità tecniche e non (anche la semplice atmosfera), elementi per i più (e di sicuro per me) impossibili da riprodurre in un contesto domestico. Se mi sarà possibile andrò a vedere Frankenstein Junior, ormai prossimo al cinquantennale, e Akira, forse il mio film d’animazione preferito che sarà riproposto nelle sale per celebrare i trentacinque anni dalla sua prima.