Tra il furore della guerra asimmetrica, le prospettive di una tassazione sempre più vessatoria e qualche altra spada di Damocle, a me non resta che aggiungere ulteriori piani alla mia torre d’avorio: gradirei oltremodo anche una campana di vetro (antiproiettile), fossati, muri con il filo spinato, cecchini, cani molecolari, uno scudo antimissile e un satellite spia.
Domenica sono andato a Roma per la fiera del disco e ho passato mezza giornata a cercare dei capolavori (o quasi) da portarmi a casa per un prezzo equo: insomma, il cosiddetto diggin’.
Per me il vinile non è un capriccio vintage né un semplice feticcio, bensì fa parte di un preciso rito di ascolto che ripeto quasi quotidianamente. Non sono un purista. Fruisco di musica liquida dalla fine dello scorso millennio, infatti ho vissuto tutti i due anni di Napster e il resto del peer-to-peer.
Ho avuto il mio primo lettore mp3 nel 2004, tredici anni fa, e per riempirlo mi sembrava che ogni volta dovessi dichiarare quali dischi mi sarei portato su un’isola deserta, infatti aveva 256 Megabyte di memoria (invero un po’ meno perché una parte era appannaggio del filesystem).
Ho imparato parecchio da certi personaggi delle fiere e alcune cose sono felice di averle apprese da loro invece che dalle mie pur numerose quanto asettiche ricerche su Internet.
Non di rado per trovare dei dischi di mio gradimento me ne devo sorbire parecchi che mi fanno cagare a spruzzo, però ogni volta che ne scopro uno buono il mio investimento di tempo è ampiamente ripagato. Queste le fonti a cui mi abbevero: le web radio, i continui salti di video in video con l’algoritmo dei suggerimenti di YouTube, il lurking di certi forum, qualche rivista e i consigli dei decani di cui sopra. Nei mercatini e alle fiere non cerco per forza tesori nascosti, ma talora mi piace prendere qualche classico che mi manca in trentatré giri.
In questa tornata sono incorso in una sorta di svendita, quindi ho avuto modo di rimediare ben sette vinili a poco più di sette euro l’uno.
L’occhio cade dove Miroslav Vitous non duole. Ho vari CD dei Weather Report e il mio preferito è “Black Market”, però di loro bramavo almeno un vinile e ho scelto “I Sing The Body Electric” poiché lo avevo soltanto in mp3.
Il primo degli It’s A Beautiful Day contiene “Bombay Calling”, un pezzo che sentii per la prima volta alle Hawaii mentre guidavo alle pendici del Mauna Kea: all’inizio pensai che fosse “Child In Time”, poi scoprii che i Deep Purple si erano “ispirati” a quella traccia per la loro hit.
Adorando i Renaissance e possedendo già l’unico album dei Sandrose, lamentavo la mancanza di un’altra band prog con una voce femminile, perciò era una questione di tempo prima che rimediassi il debutto omonimo dei Goliath.
Rory Gallagher mi piace più da solo che con i Taste, ma riesco ad apprezzarlo solo fruendone cum grano salis: “Blueprint” è un album che costituisce un’eccezione a questa posologia.
”John Barleycorn Must Die” è il mio album preferito dei Traffic e quindi non c’è da aggiungere molto: se avessi trovato anche una stampa economica di “Mr. Fantasy” l’avrei presa di sicuro.
”Cultösaurus Erectus” è un classico album alla Blue Öyster Cult, forse un po’ sottovalutato, ma per me godibilissimo dall’inizio alla fine.
Mi si sono illuminati gli occhi d’immenso quando tra i dischi a sette euro ne ho visti due di Kitaro e in particolare “From The Fullmoon Story”: in equilibrio tra ambient e new age è un album di una delicatezza straordinaria; “The Light Of The Spirit” si mantiene sulle stesse sonorità, ma è più solenne, più epico, meno intimista e per me si completa a vicenda con l’altro.
”Lady Lake” degli Gnidrolog, è un album prog del 1972 e mi è stato consigliato da un tizio che con me non ha mai sbagliato un suggerimento, infatti gli sarò eternamente grato: ho per costui il rispetto che Carlos Castaneda aveva per gli sciamani. Il disco è un viaggio assurdo!
Lo stesso vale per “Mountains” degli Steamhammer, pubblicato nel 1971: prog dalle forti tinte blues e con diversi ricami psichedelici.
”Every Inch A Man” degli Zior è un platter che a tratti mi ricorda molto i migliori Led Zeppelin e anch’esso mi è stato suggerito dal suddetto medicine man: l’anno è il 1972.
“Hold The Line” dei Toto la conosce chiunque non sia nato sordo, dall’ultimo dei paninari al primo dei truzzi: questo classico l’ho preso perché dovevo trovare un settimo album per usufruire dell’offerta di sette euro a disco e quindi ho fatto di necessità virtù! Magari nella vita fossero tutte così le scelte obbligate.
Non sono un passatista, infatti seguo e supporto diversi gruppi emergenti, ma devo ammettere che la maggior parte dei miei dischi preferiti sono stati concepiti in quell’età dell’oro che io sito tra la fine degli anni sessanta e la fine dei settanta.
Trovo del buono persino nella trap italiana (lo stile di Tedua, le produzioni di Charlie Charles), vengo da varie plusvalenze con le prime stampe di dischi hip hop (su tutte quella del vinile de “L’attesa” di Kaos One che anni fa vendetti a cinquecento euro quando io lo avevo pagato ventuno), mi piace anche la vocal trance e conosco quasi a menadito i sottogeneri del metal, ma ho trovato la mia dimensione ideale nella golden age del prog.
In quella decade meravigliosa c’è stata un’abbondanza straordinaria ed è per questo motivo che alcuni dischi di allora hanno trovato soltanto di recente un riscontro, una seconda vita, il tardivo riconoscimento che non potevano ottenere a loro tempo per via di un’opulenza luculliana.
26
Mag