Aborro i jeans e le camicie, difatti non ne possiedo. Mi disgustano i bottoni e le chiusure lampo. Per me la t-shirt è quasi una seconda pelle e la uso anche d’inverno nonostante le perplessità degli estranei. Le felpe le adopero di rado o quando mi trovo all’estero, ma tendo a vestire allo stesso modo per tutto l’anno, un po’ come il personaggio di un cartone animato. Non potrei mai separarmi dai pantaloni di tuta sportiva che recano due bande per gamba e lo stemma di un qualche club calcistico in declino benché io, sia chiaro, non tifi per nessuna squadra.
Quanto scritto finora potrebbe identificare il mio stile come prossimo a quello di un senzatetto o di un nordafricano in cerca di un futuro migliore, ma io preferisco definirlo uno stile “pop”. Adoro la t-shirt ironica e politicamente scorretta perché veicola un messaggio. Non spenderei manco mezza rupia per indossare dei capi griffati. Sono sempre stato un minimalista. Da piccolo mia madre mi vestiva come un coglione, infatti prima d’entrare nell’età della ragione avevo una guisa alla Gian Burrasca sebbene nell’animo assomigliassi più a Saddam Hussein, come soleva chiamarmi la mia nonna materna ai bei tempi della prima guerra del Golfo (invero anche dopo). Io non sono sciatto, bensì diversamente fashion. In realtà della moda non me ne frega proprio un cazzo e nessuno mi vedrà mai con un paio di Ray-Ban sul volto. D’altronde Franco Battiato ai tempi di “Bandiera Bianca” intonò una grande verità: “C’è chi si mette degli occhiali da sole per avere più carisma e sintomatico mistero”.
La mia non è avversione verso un determinato mondo, bensì una sorta di fanatismo per quella santa alleanza che vede coinvolti lo stile personale e la comodità. Ai piedi porto sempre un paio di Mizuno per essere pronto a correre in qualsiasi momento, ma non disdegno manco le Asics. Spesso noto come certe aspiranti sgualdrine tentino goffamente di imitare Kate Moss e in me suscitano tanta tenerezza, come se bastasse avere una trentotto e sniffare cocaina per avere stile. Un portamento grezzo, dei movimenti rozzi, una dizione degna di una vaiassa e un ricorso al trucco a mo’ di Scaramacai rendono certe signorine le antagoniste agguerrite dell’eleganza e soprattutto della naturalezza che a mio avviso va di pari passo con la prima.
Provo un’avversione estetica verso quelle donne che caricano i loro corpi con vestiti e oggetti che non sono chiaramente in grado di portare, perciò credo che un negozio di moda o un atelier prima di fornire un abito dovrebbero approntare un corso per l’abilitazione ad indossarlo. Provo quasi ribrezzo dinanzi a certe stonature e preferisco di gran lunga guardare la merda dei cani che si mette in posa sui marciapiedi. L’abito non fa il monaco, però talvolta può far sorgere il desiderio di diventarlo. Di per sé la questione stilistica è una grande cazzata, ma è indice di qualcosa di più profondo. Ci sono sottigliezze che fanno grandi differenze in campi che paiono non riguardarle. Un esempio per rendere più chiaro ciò che intendo può mettere a confronto le differenze tra Roberto Bolle e qualunque altro individuo che abbia un corpo simile ma che non sia in grado di muoverlo allo stesso modo.
L’esperienza è una sarta rozza che usa le cicatrici per cucire la personalità, ma credo che un portamento particolare della volontà individuale possa compensare i difetti di un abito confezionato in modo maldestro. Il bavero sgradevole di questo indumento costringe alcuni dei suoi proprietari ad alzare le loro teste per osservare la tracotanza delle loro pretese. Qualcuno ritiene che basti non essere amati per pretendere di farsi amare, ma suppongo che occorra qualcosa in più. Penso che sia facile lamentarsi qualora non si abbia nulla e trovo che sia ancora più facile nel caso in cui si possegga tutto. Mi sembra che le ricerche ossessive ogni tanto rivelino un disinteresse totale verso l’oggetto apparentemente desiderato e mi pare che in casi simili si possa notare un attaccamento morboso verso il piacere di trovare qualcosa per iniziare a cercare qualcos’altro, ma probabilmente taluni vedono in questo processo ripetitivo una via per l’immortalità nello stesso modo in cui un bambino può scambiare un pezzo d’ottone per un pezzo d’oro. Esistono molti espedienti per sfuggire alla paura ingiustificata della propria finitezza ed è un peccato che nessuno di essi funzioni. La sofferenza affina la sensibilità e quest’ultima può essere utilizzata per recidere la carotide di un innocente o per incidere il proprio nome nella mente di una persona colpevole d’amare.